Da felice ex fumatore mi fa piacere tradurre questa poesia che non ha nulla di nostalgico per il fumo in quanto tale, non per il suo sapore o per l'appeal sociale, ma per il suo valore morale, curioso, che possiamo trovare ovunque se siamo sensibili come BC. Disclaimer: questa poesia non vale come scusa se mai ricominciaste a fumare...
The Best Cigarette
There are many that I miss
having sent my last one out a car window
sparking along the road one night, years ago.
The heralded one, of course:
after sex, the two glowing tips
now the lights of a single ship;
at the end of a long dinner
with more wine to come
and a smoke ring coasting into the chandelier;
or on a white beach,
holding one with fingers still wet from a swim.
How bittersweet these punctuations
of flame and gesture;
but the best were on those mornings
when I would have a little something going
in the typewriter,
the sun bright in the windows,
maybe some Berlioz on in the background.
I would go into the kitchen for coffee
and on the way back to the page,
curled in its roller,
I would light one up and feel
its dry rush mix with the dark taste of coffee.
Then I would be my own locomotive,
trailing behind me as I returned to work
little puffs of smoke,
indicators of progress,
signs of industry and thought,
the signal that told the nineteenth century
it was moving forward.
That was the best cigarette,
when I would steam into the study
full of vaporous hope
and stand there,
the big headlamp of my face
pointed down at all the words in parallel lines.
- Billy Collins
La sigaretta migliore
Ce ne sono molte che mi mancano
da quando ho gettato la mia ultima dal finestrino di un’auto
a sfavillare lungo la strada una notte, anni fa.
La più rinomata, ovviamente:
dopo il sesso, le due punte incandescenti
ora le luci di un’unica nave;
alla fine di un lungo pasto
con altro vino in arrivo
e un anello di fumo che costeggia il candeliere;
o su una bianca spiaggia,
tenendone una con le dita ancora bagnate dopo un tuffo.
Che dolceamaro quel punteggiare
fatto di fiamma e gestualità;
ma la migliore era in quelle mattinate
quando avevo qualcosina in corso
nella macchina da scrivere,
il sole luminoso alla finestra,
magari un po’ di Berlioz sullo sfondo.
Me ne andavo allora in cucina, per il caffè
e di ritorno alla pagina,
ripiegata nel rullo,
me ne accendevo una e sentivo
il suo colpo secco mischiarsi col gusto scuro del caffè.
A quel punto ero la locomotiva di me stesso,
e spargevo dietro di me, mentre tornavo al lavoro,
piccoli sbuffi di fumo,
sintomi di progresso,
segni di operosità e di pensiero,
il segnale che diceva al Diciannovesimo secolo
che stava andando avanti.
Quella era la sigaretta migliore,
quando entravo fumando nello studio
pieno di vaporosa speranza
e me ne stavo lì, in piedi,
il gran fanale del mio viso
rivolto in basso a tutte le parole in linee parallele.
Traduzione di Piero Vereni
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI
▼
lunedì 30 luglio 2007
sabato 28 luglio 2007
Consolazione (poesia di Billy Collins)
Chi la legge in italiano tenga conto che è scritta da un americano, che vagheggia di un non-viaggio in Italia, e quindi la traduzione diventa quasi inevitabilmente un paradosso. Ma spero lo stesso piaccia, come è piaciuta me. La dedico a tutti quelli che, quest'estate, hanno dovuto per i più diversi motivi rinunciare a un viaggio esotico, e a tutti gli antropologi che hanno dovuto rinunciare a qualche tappa di fieldwork. Dovrei essere sulla nave che da Otranto porta a Valona, in questo momento, e non sono potuto partire per un'impegno sopravvenuto. Allora la dedico anche a me.
Consolation
How agreeable it is not to be touring Italy this summer,
wandering her cities and ascending her torrid hilltowns.
How much better to cruise these local, familiar streets,
fully grasping the meaning of every roadsign and billboard
and all the sudden hand gestures of my compatriots.
There are no abbeys here, no crumbling frescoes or famous
domes and there is no need to memorize a succession
of kings or tour the dripping corners of a dungeon.
No need to stand around a sarcophagus, see Napoleon's
little bed on Elba, or view the bones of a saint under glass.
How much better to command the simple precinct of home
than be dwarfed by pillar, arch, and basilica.
Why hide my head in phrase books and wrinkled maps?
Why feed scenery into a hungry, one-eyes camera
eager to eat the world one monument at a time?
Instead of slouching in a café ignorant of the word for ice,
I will head down to the coffee shop and the waitress
known as Dot. I will slide into the flow of the morning
paper, all language barriers down,
rivers of idiom running freely, eggs over easy on the way.
And after breakfast, I will not have to find someone
willing to photograph me with my arm around the owner.
I will not puzzle over the bill or record in a journal
what I had to eat and how the sun came in the window.
It is enough to climb back into the car
as if it were the great car of English itself
and sounding my loud vernacular horn, speed off
down a road that will never lead to Rome, not even Bologna.
Billy Collins
Consolazione
Com’è piacevole, quest’estate, non fare un viaggio in Italia,
senza andare in giro per le sue città né risalire i suoi torridi paesi collinari.
È di gran lunga meglio percorrere queste strade, locali e familiari,
cogliendo in pieno il senso di ogni segnale stradale e di ogni insegna pubblicitaria
e dell’improvviso gesticolare dei miei compatrioti.
Qui non ci sono abbazie, niente affreschi che si sgretolano o famosi
palazzi e non c’è bisogno di mandare a memoria una successione
di re o di visitare i recessi sgocciolanti di una catacomba.
Nessun bisogno di stare attorno a un sarcofago, di vedere
il piccolo letto di Napoleone all’Elba o le ossa in un santo sottovetro.
È molto meglio controllare il semplice confine domestico
che sentirsi annichiliti da colonne, archi e basiliche.
Perché ficcar la testa in un libro di frasi tradotte e dentro mappe spiegazzate?
Perché ingozzare di scenari la mia affamata e ciclopica macchina fotografica
che ha voglia di mangiarsi il mondo un monumento alla volta?
Invece di infilarmi in un caffè senza sapere come si dice “ghiaccio”,
me ne andrò dritto al mio solito bar, dal cameriere
che si chiama Dot. Scivolerò nel flusso del giornale
del mattino, crollate tutte le barriere linguistiche,
fiumi di parole che scorrono liberi, le uova a seguire, pronte in arrivo.
E dopo colazione, non dovrò trovare qualcuno
che mi faccia una foto mentre poso il mio braccio sulle spalle del padrone.
Non impazzirò sul conto né registrerò sul mio diario
quel che ho dovuto mangiare e come il sole entrava dalla finestra.
Basterà risalire in macchina
quasi fosse la grande macchina della lingua inglese
e io, lì, a suonare il mio fragoroso clacson colloquiale, lentamente
lungo una strada che mai condurrà a Roma, e neppure a Bologna.
Traduzione di Piero Vereni
Consolation
How agreeable it is not to be touring Italy this summer,
wandering her cities and ascending her torrid hilltowns.
How much better to cruise these local, familiar streets,
fully grasping the meaning of every roadsign and billboard
and all the sudden hand gestures of my compatriots.
There are no abbeys here, no crumbling frescoes or famous
domes and there is no need to memorize a succession
of kings or tour the dripping corners of a dungeon.
No need to stand around a sarcophagus, see Napoleon's
little bed on Elba, or view the bones of a saint under glass.
How much better to command the simple precinct of home
than be dwarfed by pillar, arch, and basilica.
Why hide my head in phrase books and wrinkled maps?
Why feed scenery into a hungry, one-eyes camera
eager to eat the world one monument at a time?
Instead of slouching in a café ignorant of the word for ice,
I will head down to the coffee shop and the waitress
known as Dot. I will slide into the flow of the morning
paper, all language barriers down,
rivers of idiom running freely, eggs over easy on the way.
And after breakfast, I will not have to find someone
willing to photograph me with my arm around the owner.
I will not puzzle over the bill or record in a journal
what I had to eat and how the sun came in the window.
It is enough to climb back into the car
as if it were the great car of English itself
and sounding my loud vernacular horn, speed off
down a road that will never lead to Rome, not even Bologna.
Billy Collins
Consolazione
Com’è piacevole, quest’estate, non fare un viaggio in Italia,
senza andare in giro per le sue città né risalire i suoi torridi paesi collinari.
È di gran lunga meglio percorrere queste strade, locali e familiari,
cogliendo in pieno il senso di ogni segnale stradale e di ogni insegna pubblicitaria
e dell’improvviso gesticolare dei miei compatrioti.
Qui non ci sono abbazie, niente affreschi che si sgretolano o famosi
palazzi e non c’è bisogno di mandare a memoria una successione
di re o di visitare i recessi sgocciolanti di una catacomba.
Nessun bisogno di stare attorno a un sarcofago, di vedere
il piccolo letto di Napoleone all’Elba o le ossa in un santo sottovetro.
È molto meglio controllare il semplice confine domestico
che sentirsi annichiliti da colonne, archi e basiliche.
Perché ficcar la testa in un libro di frasi tradotte e dentro mappe spiegazzate?
Perché ingozzare di scenari la mia affamata e ciclopica macchina fotografica
che ha voglia di mangiarsi il mondo un monumento alla volta?
Invece di infilarmi in un caffè senza sapere come si dice “ghiaccio”,
me ne andrò dritto al mio solito bar, dal cameriere
che si chiama Dot. Scivolerò nel flusso del giornale
del mattino, crollate tutte le barriere linguistiche,
fiumi di parole che scorrono liberi, le uova a seguire, pronte in arrivo.
E dopo colazione, non dovrò trovare qualcuno
che mi faccia una foto mentre poso il mio braccio sulle spalle del padrone.
Non impazzirò sul conto né registrerò sul mio diario
quel che ho dovuto mangiare e come il sole entrava dalla finestra.
Basterà risalire in macchina
quasi fosse la grande macchina della lingua inglese
e io, lì, a suonare il mio fragoroso clacson colloquiale, lentamente
lungo una strada che mai condurrà a Roma, e neppure a Bologna.
Traduzione di Piero Vereni
mercoledì 25 luglio 2007
Cipresso nero
Μαύρο κυπαρίσσι.mp... |
L'autore di questi versi è Mihàlis Gkanàs. Conosco altre sue canzoni o poesie, molte dallo stesso album sono belle, ma questa è maledettamente (il caso di dirlo) bella. Solitamente cerco di non indulgere in sentimenti di questo tipo, ma per una volta faccio eccezione. Se cliccate sul link potete ascoltare direttamente la canzone, cantata da Eleutherìa Arvanitàki, una delle voci più belle della musica greca attuale, e la trovate nell'album "Ta kormià kai ta mahaìria", che pronuncia circa "ta cormià che ta mahèria" e significa "I corpi e i coltelli", un album che da quando è uscito (1994) non si è mai spostato dalla top ten del mio lettore (cd e poi mp3). E' un disco credo sorprendente per chi crede che la musica greca sia tutto bouzoukia e "opa!", anche perché è scritto con le musiche di Ara Dinkjian. Ma ecco i versi, con il metodo ormai classico: prima l'originale poi la mia versione. PS: sto traslocando e non trovo il mio fidato dizionario di greco per verificare la traduzione, che è stata fatta quindi tutta "a braccio" e potrebbe contenere qualche imprecisione.
Μαύρο κυπαρίσσι
Ήταν μια φορά ένας άνθρωπος
ήσυχος πολύ και ξαρμάτωτος.
Είχε σπίτια και λιβάδια
και κοπάδια και σκυλιά
κι ένα δίχτυ που ‘πιανε πουλιά.
Είχε κρύα βρύση στον κήπο του
μαύρο κυπαρίσσι στον ύπνο του.
Μια γυναίκα αγαπούσε
που τραγούδαγε συχνά
και μιλούσε πάντα σιγανά.
Δεν κατάλαβε πώς την έσφαξε
κι ό,τι αγαπούσε το έκαψε,
τα λιβάδια, τα κοπάδια,
τα τραγούδια, τα φιλιά
και κανείς δεν έβγαλε μιλιά.
Στάθηκε μπροστά στα χαλάσματα
κι έβαλε Θεέ μου τα κλάμματα.
- Να ‘χα σπίτι και γυναίκα
και κοπάδια και σκυλιά
κι ύστερα τον πήραν τα πουλιά.
Il cipresso nero
C’era una volta un uomo
Molto tranquillo, e lavoratore
Aveva case, e campi,
e greggi, e cani
E una rete, per cacciare gli uccelli
Aveva una fonte fredda nel giardino
E un cipresso nero nel suo sonno
Amava una donna
che cantava di continuo
E che parlava sempre sottovoce
Non seppe dire come la sgozzò
Né come bruciò tutto quel che amava:
i campi, le greggi,
le canzoni, i baci
Ma nessuno osò dire una sola parola.
Fissò immobile quelle rovine
E – dio mio – iniziò a piangere:
– Se avessi una casa, una moglie,
e le greggi e i cani…
Poi gli uccelli se lo portarono via.
domenica 22 luglio 2007
Albania 5: Viaggio in Italia
(giugno 1995) Mentre andavo in Albania pensavo: non so neppure una parola di albanese, neppure un saluto, quelle due o tre parole che uno sa comunque, anche in lingue di cui non sa assolutamente altro. So dire almeno una parola in giapponese, in russo, in armeno, in arabo, in turco, in serbo-croato: possibile che non ci sia una parola di albanese da qualche parte del mio cervello, neppure per caso? No, non c’era. Non ricordavo neppure come di dice Albania in albanese (ancora adesso, so pronunciare la parola, ma non so come si scrive) e l’unica cosa che potevo dire era che l’albanese è il diretto discendente dell’illirico, uno di quei nomi di misteriose popolazioni indoeuropee che si imparano alle prime lezioni di glottologia o linguistica storica. Non credo di essere un caso speciale: quanti Italiani sanno qualcosa di più di questa lingua?
Appena ho passato il confine mi sono reso conto di trovarmi in una situazione di perfetta simmetria inversa. Praticamente non c’è Albanese che non sappia almeno qualche frase in italiano per salutare e molti capiscono tutto quel che gli si dice. Altri ancora parlano con una spigliatezza che non ha mai smesso di stupirmi, anche quando ormai era un’abitudine. La passione per l’Italia è vera e non è solo uno stupido “immaginarsi”. Nelle case che ho potuto visitare i televisori accesi (presenti ovunque, anche nelle famiglie più povere) erano sintonizzati sui canali italiani (Rai per tutti, ma è un must per i più abbienti l’antenna satellitare per vedere le reti di Berlusconi, che sono di gran lunga più apprezzate dei canali pubblici, considerati troppo “noiosi”), e se per caso invece si trattava di emissioni della TV albanese, il più delle volte vengono trasmessi film italiani con sottotitoli. Alla radio la musica italiana è dominante (Toto Cutugno, Albano e Romina, Gianni Morandi) e il più famoso presentatore televisivo locale ha come suo modello dichiarato Pippo Baudo. C’è un’Italia sottile come un filo d’onda elettromagnetica che si è già infilato dappertutto in questo paese. Ok, si potrà dire, ma questo lo sapevamo già, forse è l’unica notizia che ci è arrivata con sufficienti dettagli, se non altro è una notizia che fa “folklore”, o che almeno l’ha fatto. Però c’è dell’altro. Non so come dire, è l’Italia che quel filo ha tessuto dentro le persone e che molte volte si è intrecciato con l’Italia della cultura, dell’arte, della storia, dell’“Una volta”. Ylber ha due sorelle che vivono a Pogradec, una cittadina relativamente ricca sul lago di Ochrid, a dieci minuti d’auto dal confine con la Macedonia ex-yugoslava. La sorella maggiore ha una figlia, Matilda, di vent’anni, al secondo anno di università. Studia italiano e lo parla in maniera perfetta (tra l’altro, parla perfettamente anche l’inglese e Gilles mi ha detto che il suo francese è più che buono). Per lei l’Italia è allo stesso tempo Venezia e Firenze (le due città che ama di più e che sogna di visitare) e i telefilm di Italia1. Ma mentre Italia1 è sempre presente nella sua vita (praticamente vivono col televisore acceso e sintonizzato su quel canale) Venezia e Firenze sono idee, righe di parole e illustrazioni sui libri, sono poeti e pittori e date. La presenza dell’immagine televisiva e la conoscenza storica del nostro paese producono in Matilda una precoce nostalgia per il nostro paese, di cui parla a volte come se ne fosse stata strappata, anche se non ci ha mai messo piede. Alcuni amici greci, al mio ritorno, mi facevano notare con un certo fastidio questa sottomissione culturale come un segno di debolezza, di poca stima di sé. Pensavo: è paragonabile questo amore per l’Italia a quello che gli “Americani” hanno suscitato nel nostro paese per un paio di decenni dopo la fine della guerra? Mi rispondevo abbastanza facilmente: no. Non c’è paragone. Il uattsamericannao di Alberto Sordi parlava di un pianeta sconosciuto, di un paese dei balocchi e basta. In Albania l’Italia è di certo anche questo ma c’è una conoscenza più profonda, più “diretta”, non fosse altro per la competenza linguistica che hanno del nostro idioma. Remigio, sedici anni, fratello di Matilda, ha imparato l’italiano dalla televisione senza mai studiarlo, e posso assicurare che è un buon italiano. Grazie alla televisione lui sa una cosa degli Italiani che noi non sapevamo degli Americani: sa il disprezzo e la paura che nel nostro paese c’è per loro, per cui quando gli ho detto se verrà a visitare l’Italia mi ha detto: Mi piacerebbe, ma un “turista albanese” non sarebbe accettato, voi credete che gli Albanesi siano tutti così e ha messo le mani ad artiglio vicino alla faccia, facendo un ghigno che voleva essere sinistro. Poi si è messo a ridere, e ha continuato: voi conoscete solo questa specie di Albanesi, ma non siamo tutti così, così come voi pensate.
Remigio e Matilda hanno due cugini, figli della sorella minore di Ylber. Ho conosciuto il più piccolo: si chiama Alban, ha nove anni, un po’ di denti storti e due occhi veloci e scuri scuri. Studia l’italiano da un anno e lo parla già ottimamente. Se anche gli manca un vocabolo, non gli mancano certo i mezzi per azzeccare perifrasi adatte e mi ha raccontato quel che fa a scuola e tutto sulle lezioni di karatè della palestra che frequenta da qualche mese. Mi ha assicurato che la sorella, più grande di un tre anni, parla l’italiano quanto lui, ma è troppo timida per conversare con gli stranieri. Mentre chiacchieravo con Alban mi tornavano in mente le parole del vecchio Dhori sulla necessità si smettere di essere Albanesi, ai discorsi con Ylber, a quel che avevo visto fino ad allora. Per un po’ m’è tornata la voglia di trovare un senso, di mettere ordine. Mannaggia: di spiegare. Poi mi sono calmato, mentre Alban mi faceva vedere l’ultima “mossa” di karatè che aveva imparato. In palestra? No, alla televisione, guardando un film di Bruce Lee su Italia1.
Appena ho passato il confine mi sono reso conto di trovarmi in una situazione di perfetta simmetria inversa. Praticamente non c’è Albanese che non sappia almeno qualche frase in italiano per salutare e molti capiscono tutto quel che gli si dice. Altri ancora parlano con una spigliatezza che non ha mai smesso di stupirmi, anche quando ormai era un’abitudine. La passione per l’Italia è vera e non è solo uno stupido “immaginarsi”. Nelle case che ho potuto visitare i televisori accesi (presenti ovunque, anche nelle famiglie più povere) erano sintonizzati sui canali italiani (Rai per tutti, ma è un must per i più abbienti l’antenna satellitare per vedere le reti di Berlusconi, che sono di gran lunga più apprezzate dei canali pubblici, considerati troppo “noiosi”), e se per caso invece si trattava di emissioni della TV albanese, il più delle volte vengono trasmessi film italiani con sottotitoli. Alla radio la musica italiana è dominante (Toto Cutugno, Albano e Romina, Gianni Morandi) e il più famoso presentatore televisivo locale ha come suo modello dichiarato Pippo Baudo. C’è un’Italia sottile come un filo d’onda elettromagnetica che si è già infilato dappertutto in questo paese. Ok, si potrà dire, ma questo lo sapevamo già, forse è l’unica notizia che ci è arrivata con sufficienti dettagli, se non altro è una notizia che fa “folklore”, o che almeno l’ha fatto. Però c’è dell’altro. Non so come dire, è l’Italia che quel filo ha tessuto dentro le persone e che molte volte si è intrecciato con l’Italia della cultura, dell’arte, della storia, dell’“Una volta”. Ylber ha due sorelle che vivono a Pogradec, una cittadina relativamente ricca sul lago di Ochrid, a dieci minuti d’auto dal confine con la Macedonia ex-yugoslava. La sorella maggiore ha una figlia, Matilda, di vent’anni, al secondo anno di università. Studia italiano e lo parla in maniera perfetta (tra l’altro, parla perfettamente anche l’inglese e Gilles mi ha detto che il suo francese è più che buono). Per lei l’Italia è allo stesso tempo Venezia e Firenze (le due città che ama di più e che sogna di visitare) e i telefilm di Italia1. Ma mentre Italia1 è sempre presente nella sua vita (praticamente vivono col televisore acceso e sintonizzato su quel canale) Venezia e Firenze sono idee, righe di parole e illustrazioni sui libri, sono poeti e pittori e date. La presenza dell’immagine televisiva e la conoscenza storica del nostro paese producono in Matilda una precoce nostalgia per il nostro paese, di cui parla a volte come se ne fosse stata strappata, anche se non ci ha mai messo piede. Alcuni amici greci, al mio ritorno, mi facevano notare con un certo fastidio questa sottomissione culturale come un segno di debolezza, di poca stima di sé. Pensavo: è paragonabile questo amore per l’Italia a quello che gli “Americani” hanno suscitato nel nostro paese per un paio di decenni dopo la fine della guerra? Mi rispondevo abbastanza facilmente: no. Non c’è paragone. Il uattsamericannao di Alberto Sordi parlava di un pianeta sconosciuto, di un paese dei balocchi e basta. In Albania l’Italia è di certo anche questo ma c’è una conoscenza più profonda, più “diretta”, non fosse altro per la competenza linguistica che hanno del nostro idioma. Remigio, sedici anni, fratello di Matilda, ha imparato l’italiano dalla televisione senza mai studiarlo, e posso assicurare che è un buon italiano. Grazie alla televisione lui sa una cosa degli Italiani che noi non sapevamo degli Americani: sa il disprezzo e la paura che nel nostro paese c’è per loro, per cui quando gli ho detto se verrà a visitare l’Italia mi ha detto: Mi piacerebbe, ma un “turista albanese” non sarebbe accettato, voi credete che gli Albanesi siano tutti così e ha messo le mani ad artiglio vicino alla faccia, facendo un ghigno che voleva essere sinistro. Poi si è messo a ridere, e ha continuato: voi conoscete solo questa specie di Albanesi, ma non siamo tutti così, così come voi pensate.
Remigio e Matilda hanno due cugini, figli della sorella minore di Ylber. Ho conosciuto il più piccolo: si chiama Alban, ha nove anni, un po’ di denti storti e due occhi veloci e scuri scuri. Studia l’italiano da un anno e lo parla già ottimamente. Se anche gli manca un vocabolo, non gli mancano certo i mezzi per azzeccare perifrasi adatte e mi ha raccontato quel che fa a scuola e tutto sulle lezioni di karatè della palestra che frequenta da qualche mese. Mi ha assicurato che la sorella, più grande di un tre anni, parla l’italiano quanto lui, ma è troppo timida per conversare con gli stranieri. Mentre chiacchieravo con Alban mi tornavano in mente le parole del vecchio Dhori sulla necessità si smettere di essere Albanesi, ai discorsi con Ylber, a quel che avevo visto fino ad allora. Per un po’ m’è tornata la voglia di trovare un senso, di mettere ordine. Mannaggia: di spiegare. Poi mi sono calmato, mentre Alban mi faceva vedere l’ultima “mossa” di karatè che aveva imparato. In palestra? No, alla televisione, guardando un film di Bruce Lee su Italia1.
Albania 4: La chiesa di Voskopoji
(giugno 1995) Ho già accennato alla povertà di Voskopoji. Il paese attuale è fatto di case sparpagliate, senza un centro riconoscibile se non uno spiazzo con le rovine di qualche edificio del regime e un monumento che ricorda i partigiani uccisi dai nazi-fascisti durante la seconda guerra mondiale. Conserva però un segno del periodo passato, di quel mitico “una volta” che ho sentito sempre nelle conversazioni con le persone che ho incontrato. E’ un “wongar” (mi pare che De Martino chiami così questo tempo mitico nel saggio che sta in appendice al Mondo Magico, ma non importa se non è così) che a volte è localizzabile nel periodo che va tra il 1912, anno dell’indipendenza dai Turchi, e l’inizio della seconda guerra mondiale, e altre volte si sposta più indietro. Per Voskopoji questo tempo che viene chiamato “una volta” si identifica con la fase di maggior splendore della città vecchia, subito prima della distruzione turca alla fine del XVIII secolo (chiedo scusa per il tono didascalico, ma cerco solo di contestualizzare le mie emozioni, dato che io le ho vissute mentre Gilles, Ylber, Medo e gli altri mi raccontavano queste cose). C’erano dodici chiese all’epoca. Alcune sono state distrutte dai Turchi, ma la maggior parte sono state trasformate in granai e magazzini quando l’ateismo divenne religione di stato. Solo una chiesa (che è dedicata a S.Nicola, se ricordo bene) per ragioni misteriose non è stata assegnata a questo compito ed è stata semplicemente chiusa e abbandonata. Dopo il ‘91 è stata riaperta. Ho potuto visitarla la prima sera. Con Gilles e Medo siamo andati a portare il saluto al prete del villaggio, che però si era già spostato alla chiesa di S. Giovanni per preparare la celebrazione del giorno seguente. Allora ci ha accompagnato alla chiesa la sua giovane figlia, assieme al marito. Alle undici di sera ha preso le chiavi e ci ha aperto il portone, illuminando la chiesa con quel poco di luce elettrica di cui il villaggio dispone. E’ una chiesa del Settecento, completamente affrescata: non c’è un centimetro delle pareti e della volta che non racconti la storia di qualche santo, o qualche passo della storia sacra. Solo vicino all’altare maggiore ci sono dei buchi che ti guardano come le orbite di un teschio: sono gli spazi occupati dalle icone, depredate al tempo dell’ateismo di stato e vendute sottobanco in Grecia e in Italia. La chiesa è bellissima e in completa rovina. Come ho messo il piede dentro ho sentito rimbombarmi in testa un unico, enorme, verissimo: “Una Volta”. Tutto ripete queste frase: gli affreschi scrostati ma ancora in grado di mostrare la loro bellezza, il pulpito in legno lavorato con perizia e mangiato dai tarli, i buchi neri delle icone depredate. Se il rito è anche una riattualizzazione del mito, questa chiesa non ha bisogno di funzioni religiose per assolvere il suo compito, è in se stessa un rito, ricorda, risveglia la ferita, è il sale, che non saprò mai se disinfetta o se fa marcire definitivamente. Finché ci saranno chiese come quella di Voskopoji, l’Albania avrà di che soffrire e di che sperare. È un bene o un male — direbbe Ylber — questo groppo inscindibile di dolore e aspettativa, di deserto e miraggio? Ancora una volta, abbasso gli occhi e so che ogni risposta sarebbe volgare, o presuntuosa.
Albania 3: Dhori
Voskopoji è un villaggio oggi piccolo e povero. Fiorente centro valacco fino a fine del Settecento, fu distrutto dal governo turco quando l’autonomia culturale di cui godeva minacciò di diventare anche amministrativa. Oggi della vecchia città non restano che rovine. Siamo andati a Voskopoji perché il 24 giugno, san Giovanni, si celebra una grande festa cui partecipa tutto il paese e gente che viene dai villaggi vicini. Festeggiano anche se la gran maggioranza della popolazione è musulmana. Stavamo nella casa dei suoceri di un cugino di Ylber, Medo, che era venuto con noi assieme alla moglie, Monda, e ai tre figli Marin, Edwin e Belinda. Dopo essere stati accolti dai suoceri di Medo a suon di raki (la bevanda nazionale, una grappa profumatissima e ad alta gradazione, ottenuta dalla distillazione di una prugna locale, bevanda che consumano anche a pasto), siamo andati a fare un giro in paese. Ero particolarmente colpito dall’evidente povertà del posto e cercavo tra me e me qualche possibile paragone con i posti più miseri che avevo visto di persona. (Cercavo anche di far andare d’accordo il raki con le mie gambe.) Per la strada, Medo si ferma perché vuole salutare un amico. Ci viene incontro un vecchio, dell’età apparente di 65-70 anni. E’ vestito con abiti logori e anche se fa ancora caldo (siamo a 1200 metri sul mare, ma di giorno il sole picchia duro) indossa sopra la camicia un golfino di lana blu che mi ricorda quelli che vedevo indossati dagli zii di mio padre, in campagna, quand’ero bambino. Ha in braccio un moccioso di circa un anno. Ci si avvicina e già mi aspetto i soliti rituali, con Gilles pronto a fare da interprete e Medo a far gli onori. Mentre sono già pronto a tenermi in disparte e ad ascoltare una conversazione di cui non capirò nulla, il vecchio, appena saputo che Gilles è francese gli si rivolge con cortesia nella sua lingua. Poi anche a me parla in francese e mi chiede di dove sono. Io dico di essere Italiano, di Venezia. “Ah, Venezia! - attacca lui nella mia lingua - e come mai vi trovate da queste parti?”. Come uno stupido, rivelo tutto il mio stupore, cosa di cui certo un po’ si compiace, e gli chiedo dove ha imparato la mia lingua. In un italiano pulitissimo, senza inflessioni e dal suono antico (userà sempre il “voi” per rivolgersi a me, e io contraccambio volentieri questa forma di rispettosa cortesia) mi racconta che nel 1939, dopo aver fatto due anni alla scuola francese, con l’arrivo degli Italiani, ha seguito i corsi del ginnasio italiano. E’ stato in Italia, a Rimini, per tre mesi. Dopo la fine della guerra non ha più parlato la nostra lingua con nessuno, ma ha conservato qualche libro e ascoltava la radio di nascosto, quando poteva. Suo padre, per le sue idee politiche, è stato perseguitato prima dai fascisti e poi dal governo albanese. Lui ha accettato il suo ruolo di intellettuale e per 34 anni ha insegnato matematica ai ragazzini del paese, dove è rispettato e amato da tutti. Ora, in pensione, si prende cura del nipote, il figlio del suo primo figlio, che lavora in Grecia con la moglie. L’altro figlio, invece, è in Italia, a Riccione, ha il permesso di soggiorno e lavora in una fabbrica. È venuto in Italia con la grande ondata del 1991, con i disperati delle navi cariche di centinaia di persone. È stato lui, il vecchio Dhori, a convincere il figlio ad andare a Durazzo e imbarcarsi sulla prima nave per Brindisi, dato che in Albania non c’erano speranze.
Gli ho chiesto cosa ne pensa del suo paese, adesso. Mi ha risposto che la miseria per certi aspetti è peggiore di prima: “Ma io sono contento, perché adesso posso dire quello che penso”, e ricordo perfettamente il lampo nei suoi occhi mentre mi diceva questo. La dignità di chi ha piegato la testa perché non c’era altro da fare, ma non ha dimenticato cosa vuol dire vivere. Mentre eravamo in un bar a bere qualcosa tutti assieme avevo, letteralmente, la pelle d’oca nell’ascoltare quest’uomo, in un villaggio miserabile in mezzo ai monti albanesi, raccontarmi col suo italiano libresco e forbito alcuni cenni della sua vita. Continuo ad essere un ingenuo, a commuovermi, a stupirmi, ma di fronte a persone come questa, spero di non perdere mai questo vizio. Avrei voluto avere più tempo, per ascoltarlo. Non c’era nel mio atteggiamento nessun gusto per l’esotico. Ho sentito tante di quelle volte mia nonna (fiera dei suoi 90 anni) raccontarmi le storie della sua infanzia che mi ero completamente dimenticato qualsiasi riferimento ai risvolti antropologici della nostra conversazione. Io ero semplicemente imbambolato ad ascoltare. Purtroppo il tempo è stato poco, e non l’ho potuto rivedere se non di sfuggita, il giorno dopo, mentre andava alla festa del paese. Con il nipote sempre in braccio, nipote che ormai lo riconosce come padre, dato che i genitori veri non li vede da quando aveva cinque mesi, se ne è andato prima di noi, verso casa, dicendomi che non sa se il suo paese sopravviverà a questa crisi, e che lui non avrà comunque il tempo di vederlo. Ha chiesto a suo figlio in Italia di far di tutto per dare la cittadinanza italiana ai figli che eventualmente nasceranno, perché si rende conto che lo spirito di un popolo dipende in buona parte dalle sue condizioni economiche, e non vede come un paese prostrato come l’Albania possa dare forza ai suoi figli, la forza per continuare in questo difficile mondo. Meglio, ha detto, dimenticarsi per un poco di essere Albanesi, diventare qualche cosa d’altro, Italiani, Francesi o Americani. Solo dopo, quando il paese si sarà ripreso, i nostri figli potranno tornare e si ricorderanno di essere Albanesi, perché, in fondo, non l’avranno dimenticato mai veramente.
Gli ho chiesto cosa ne pensa del suo paese, adesso. Mi ha risposto che la miseria per certi aspetti è peggiore di prima: “Ma io sono contento, perché adesso posso dire quello che penso”, e ricordo perfettamente il lampo nei suoi occhi mentre mi diceva questo. La dignità di chi ha piegato la testa perché non c’era altro da fare, ma non ha dimenticato cosa vuol dire vivere. Mentre eravamo in un bar a bere qualcosa tutti assieme avevo, letteralmente, la pelle d’oca nell’ascoltare quest’uomo, in un villaggio miserabile in mezzo ai monti albanesi, raccontarmi col suo italiano libresco e forbito alcuni cenni della sua vita. Continuo ad essere un ingenuo, a commuovermi, a stupirmi, ma di fronte a persone come questa, spero di non perdere mai questo vizio. Avrei voluto avere più tempo, per ascoltarlo. Non c’era nel mio atteggiamento nessun gusto per l’esotico. Ho sentito tante di quelle volte mia nonna (fiera dei suoi 90 anni) raccontarmi le storie della sua infanzia che mi ero completamente dimenticato qualsiasi riferimento ai risvolti antropologici della nostra conversazione. Io ero semplicemente imbambolato ad ascoltare. Purtroppo il tempo è stato poco, e non l’ho potuto rivedere se non di sfuggita, il giorno dopo, mentre andava alla festa del paese. Con il nipote sempre in braccio, nipote che ormai lo riconosce come padre, dato che i genitori veri non li vede da quando aveva cinque mesi, se ne è andato prima di noi, verso casa, dicendomi che non sa se il suo paese sopravviverà a questa crisi, e che lui non avrà comunque il tempo di vederlo. Ha chiesto a suo figlio in Italia di far di tutto per dare la cittadinanza italiana ai figli che eventualmente nasceranno, perché si rende conto che lo spirito di un popolo dipende in buona parte dalle sue condizioni economiche, e non vede come un paese prostrato come l’Albania possa dare forza ai suoi figli, la forza per continuare in questo difficile mondo. Meglio, ha detto, dimenticarsi per un poco di essere Albanesi, diventare qualche cosa d’altro, Italiani, Francesi o Americani. Solo dopo, quando il paese si sarà ripreso, i nostri figli potranno tornare e si ricorderanno di essere Albanesi, perché, in fondo, non l’avranno dimenticato mai veramente.
Albania 2: Ylber
(giugno 1995) Gilles questi mesi è vissuto a casa sua, a Bilisht, a cinque chilometri dal confine greco. Ylber ha 38 anni, è sposato con Eva e ha due bambini: Arolda detta Olda, di 7 anni e Albi, di due e mezzo. Laureato in francese, parla questa lingua perfettamente. Poi parla benissimo inglese, greco e italiano. Mi ha detto che il tedesco lo sa poco, ma dato che anche l’italiano, secondo lui, lo conosce poco, sospetto che in realtà se la cavi benissimo anche con il teutonico. Conosce a fondo la cultura francese (Gilles, che non è uno sprovveduto in fatto di letteratura, mi ha detto di essere rimasto impressionato dalla profondità e vastità di quel che sa), fa parte del consiglio comunale del suo paese e si interessa con passione delle sorti politiche ed economiche del suo paese. Per hobby per molti anni ha suonato la chitarra e ha composto canzoni, soprattutto di tema politico. Oggi è troppo impegnato e preoccupato per dedicarsi a questo passatempo, e ha venduto la sua chitarra. Il suo nome, in albanese, significa “arcobaleno” e suo figlio piccolo, nato dopo la caduta del regime, il disastro economico del paese e l’ingresso degli Albanesi sulla scena mondiale come peones d’Europa e d’Italia, si chiama Albi perché non abbia mai a vergognarsi di essere un Albanese. Per sette anni Ylber ha insegnato francese in un piccolo villaggio a diversi chilometri da Bilisht, andando a scuola tutti i giorni a piedi, dato che non c’erano bus e anche la bici, su quello strade, è inutile. Poi, per quattro anni, ha insegnato all’università di Korçë, che si trova a 27 Km da Bilisht. Doveva star fuori tutta la settimana, dato che era impossibile andare su e giù tutti i giorni e con lo stipendio di professore universitario non poteva di certo permettersi di comprare e di mantenere un’automobile. All’inizio di quest’anno ha allora deciso di mettersi in proprio. Dopo un breve periodo in cui ha mantenuto il posto all’università lavorando per sé al pomeriggio, adesso ha costruito in paese un piccolo ufficio prefabbricato dove esegue lavori di traduzione da tutte le lingue che conosce. Fa inoltre il dattilografo e ha una piccola fotocopiatrice. Neanche a dirlo, si è coperto di debiti per iniziare l’attività. Intellettuale costretto a diventare imprenditore delle sue competenze, a mettersi sul mercato dagli eventi e dal desiderio di migliorare il tenore di vita della sua famiglia, vive in maniera consapevole e dolorosa questa contraddizione. Ora ha l’opportunità di andare negli Stati Uniti, i suoceri già vivono lì, ma continua a chiedersi se questo sarebbe un fuggire dalle sue responsabilità nei confronti della sua patria e della sua comunità. Del resto, sente che rimanendo a Bilisht potrebbe fare ben poco, per sé, la sua famiglia e la sua terra. A volte è convinto ad andare negli States, lavorare sodo per qualche anno e tornare in Albania. In America, è pronto a fare qualsiasi lavoro, dal manovale al cameriere, e quando gli ho chiesto, con la mia idiota ingenuità, se non riteneva possibile utilizzare le sue competenze negli USA in qualche dipartimento di studi letterari europei, prima mi ha guardato come fossi un marziano, poi mi ha detto che sa come vengono giudicati gli Albanesi nel resto del mondo. Come se sapesse di non potersi aspettare di più per il semplice fatto di essere catalogato nel girone degli Albanesi.
Ylber ha gli occhi limpidi e i modi gentili. Parla in maniera pacata ma si capisce che si accalora quando si tratta del suo paese. E’ molto legato alla sua famiglia (e si rende benissimo conto di quanto il tessuto familiare sia per lui anche un tessuto di sostegno economico) e, senza manifestare stupore, quando gli ho raccontato un po’ della mia vita spaesata (l’ha colpito il fatto che a 32 anni non fossi sposato) mi ha chiesto: Forse stiamo andando verso un mondo in cui i rapporti familiari contano sempre di meno, in cui ognuno è per forza di cose, per forza di economia, sradicato dalla sua terra anche quando continua a viverci, in cui ognuno ha più possibilità di cambiare la sua vita ma lo deve fare con le sue sole forze, un mondo in cui i legami familiari contano sempre di meno e in cui ognuno deve trovare la sua strada da solo. E’ un bene o un male, questo, secondo te?
Io, ho guardato lui e poi, guardando dentro il mio bicchiere di birra, gli ho detto che non lo sapevo, che per ognuno di noi sarà diverso, secondo come gli andranno le cose. Era, il mio, un augurio che le cose gli vadano bene. Conto di tornare in Albania questo autunno. Voglio portare a Ylber, se non sarà già partito per l’America, una chitarra.
Ylber ha gli occhi limpidi e i modi gentili. Parla in maniera pacata ma si capisce che si accalora quando si tratta del suo paese. E’ molto legato alla sua famiglia (e si rende benissimo conto di quanto il tessuto familiare sia per lui anche un tessuto di sostegno economico) e, senza manifestare stupore, quando gli ho raccontato un po’ della mia vita spaesata (l’ha colpito il fatto che a 32 anni non fossi sposato) mi ha chiesto: Forse stiamo andando verso un mondo in cui i rapporti familiari contano sempre di meno, in cui ognuno è per forza di cose, per forza di economia, sradicato dalla sua terra anche quando continua a viverci, in cui ognuno ha più possibilità di cambiare la sua vita ma lo deve fare con le sue sole forze, un mondo in cui i legami familiari contano sempre di meno e in cui ognuno deve trovare la sua strada da solo. E’ un bene o un male, questo, secondo te?
Io, ho guardato lui e poi, guardando dentro il mio bicchiere di birra, gli ho detto che non lo sapevo, che per ognuno di noi sarà diverso, secondo come gli andranno le cose. Era, il mio, un augurio che le cose gli vadano bene. Conto di tornare in Albania questo autunno. Voglio portare a Ylber, se non sarà già partito per l’America, una chitarra.
Albania 1: bunker
(giugno 1995) Ma lungo le strade che collegano le cittadine e i villaggi, almeno nella zona che ho visitato io, zona di confini, i poliziotti sono solo una delle costanti del panorama. L’altra è costituita dai bunker. Fatti costruire dalla “Guida Luminosa della Rivoluzione” sono il segno più ridicolo e sfacciato di un sistema di potere che quando ti viene raccontato anche solo per rapidi accenni ti domandi come abbia fatto a dar vita, nonostante tutto, a esseri umani. I campi coltivati sono pieni di questi bunker e tra i contadini vengono usati come misura agraria. Quando la terra è stata privatizzata ogni contadino aveva diritto a una certa quota, che molto spesso era conteggiata in bunker. Sono costruzioni di cemento armato emisferiche, a prima vista ricordano il Caracol dei Maya, solo che gli Albanesi, invece di scrutare le stelle, per anni hanno scrutato da quelle postazioni il nemico, per impedire che venisse ad invadere il paese più avanzato del mondo, per sottrargli il segreto del suo benessere e per ridurlo alla schiavitù del capitalismo (non è ironia, cito testualmente quel che dicevano le voci ufficiali dell’epoca. Ho capito un po’ come potessero essere prese per vere le panzane sulle orrende case popolari spacciate dal governo come “le migliori case in cui essere umano abbia mai abitato” e altre simili bugie clamorose quando ho detto a Ylber che fino alla fine degli anni Ottanta io non sapevo praticamente nulla dell’Albania e lui mi ha risposto: Voi non sapevate nulla di noi, ma noi non sapevamo assolutamente nulla del resto del mondo). Oggi i bunker sono utilizzati come depositi per l’immondizia. Quando sono colmi si dà fuoco al pattume che sta all’interno. Una volta che il bunker è rovente, viene bagnato rapidamente con acqua fredda. Lo sbalzo termico fa crepare il cemento, dal quale è possibile così recuperare senza eccessivo sforzo il ferro che costituiva l’armatura, ferro che è ovviamente prezioso e viene utilizzato direttamente o rivenduto. Questa distruttività benefica mi è parsa allo stesso tempo simbolica e sintomatica, un gesto di incazzata vendetta che non si accartoccia in se stesso, ma produce effetti materiali e simbolici assieme, un po’ come se a dire “cornuto!” all’arbitro fosse l’amante di sua moglie, e insistesse a cornificarlo durante le partite.
Albania 0: introduzione
Tra il 1995 e il 1997, e poi nel 1999, ho vissuto in Macedonia occidentale greca, a circa 50 km dal confine albanese. Ne ho quindi approfittato diverse volte per visitare un paese che aveva acquisito uno specifico ruolo nell'immaginario collettivo italiano ed europeo. Dato che ho appena inviato alla rivista Achab un mio pezzo sul ruolo dei mezzi di comunicazione di massa nella rappresentazione dell'identità albanese, ho ripreso in mano gli appunti di quegli anni. Ho ritrovato anche una serie di minietnografie (la definizione è di Pietro Clemente, allora il coordinatore del mio dottorato di ricerca) che hanno ancora un loro senso. Le rendo qui pubbliche per la prima volta, anche come "contesto di lettura" del pezzo su Achab.
Decidere.net
Mi sa che è la volta che ricomincio a interessarmi di politica politicante, anche se qualche amico potrà storcere il naso. Daniele Capezzone mi è sempre piaciuto, e il suo endorsement dell'agenda Giavazzi era stato il motivo che mi aveva fatto tornare a votare dopo più di dieci anni di astensione. La telenovela con Pannella non mi ha entusiasmato, ma credo sia stato tirato per i capelli e ancora adesso si comporta da signore. Ho visto i 13 cantieri da lui proposti. Alcuni non li capisco per ignoranza, ma dal 5 al 13 li condivido tutti, in particolare il 12 (superamento degli albi professionali) e il 13 (abolizione del valore legale del titolo di studio e valutazione dei docenti). Dategli un'occhiata. Sarà la sorpresa alle prossime elezioni, scommettiamo?
PS Devo ammettere, per completezza dell'informazione, che ogni volta che mi sono avvicinato a un partito/movimento politico, quello vedeva bene di crollare miseramente poco dopo...
PS Devo ammettere, per completezza dell'informazione, che ogni volta che mi sono avvicinato a un partito/movimento politico, quello vedeva bene di crollare miseramente poco dopo...
sabato 21 luglio 2007
Effetto qwerty?
Matteo Bordone (l'ho scoperto tramite Luca Sofri) tira un bel pippone a Repubblica. Sostanzialmente, dice, fate un giornale di merda, vi occupate solo di politica interna sparando un sacco si balle su cosa si son detti Tizio e Caio alla riunione segreta, troppe tette, nessuna capacità di capire la cultura attuale (internet, televisione) e un monte di stronzate spacciate per notizie. La versione online è ancora peggio.
Segue una lunga lista di post di questo tenore: "Sottoscrivo in pieno".
Che dire? Sottoscrivo pure io, ma ho smesso di leggere Repubblica nel 1992, quando iniziarono la storia dei gadget (era il corso d'inglese, allora) e quando iniziarono a mettere lady Diana tra le notizie di prima pagina (ok, ero giovane e ingenuo, lady D. in prima pagina mi sembrava veramente troppo, allora). E da allora mi fa ribrezzo solo tenerne una copia in mano, quando Vale mi chiede di comprargliela. E mi viene anche da dire all'edicolante: "Guardi che non è per me!". Sì, ci scrive ogni tanto Adriano Sofri, ma se ho smesso di leggere il Foglio, dove ci scrive ogni giorno, posso bene cercarmi i suoi pezzi online.
Allora la mia domanda è di quelle ingenue: se fa cagare come dite (e non ho dubbi in proposito) perché continuate a comprarla? E se il sito è un cesso di tette e refusi e allarmi contro la pedofilia e i mostri di internet, che cavolo ce l'avete tra i bookmarks?
Ho la forte impressione che sia un effetto qwerty. Oggi usiamo la tastiera con quella strana disposizione di tasti perché all'epoca delle macchina da scrivere bisognava trovare un sistema che evitasse che le levette comandate dai tasti si "ingarbugliassero", e la disposizione qwerty si era rivelata la più adatta. Questo accorgimento tecnico non ha più ragione d'essere da quarant'anni (da quando hanno inventato le macchine elettriche con le testine e poi con le tastiere dei pc) ma dato che a scrivere a macchina si imparava e si insegnava con la tastiera qwerty, nessuno si è mai preso la briga di fare lo sforzo di imparare con un altro tipo di tastiera.
Sì, non rompetemi che forse le cose non sono andate esattamente così per la tastiera qwerty e forse la versione vera è un'altra, è il concetto che conta: facciamo un sacco di cose perché una volta andavano bene, e continuiamo a farle anche quando non hanno più senso.
Quando uscì Repubblica io stavo in terza media e ricordo la faccia soddisfatta di Vittorio Marchiori (un ragazzo in gamba della seconda liceo, che io vedevo come un role model) che in autobus parlava con un amico di questo nuovo giornale, come era nuovo e come parlava di politica in modo che nessuno faceva prima.
Tutto vero. Repubblica è stata un apripista dell'informazione in Italia, non fosse altro che per il formato tabloid, che hanno imposto loro. Ma da quanti anni è diventata il covo del peggior conservatorismo "se sinistra"? A me pare da molto tempo il giornale più squallido che si possa immaginare: pieno di bieco rancore spacciato da progressismo, inutile per informarsi e patetico nella sua pretesa di costituire un movimento di opinione. Repubblica è il luogo del lamento politically correct, è italiota nel modo più subdolo (Libero almeno non fa finta di essere intelligente) e imbarazzante dalla prima all'ultima pagina. Ho appena riletto per un articolo che sto scrivendo i corsivi di Repubblica dedicati alla crisi albanese del 1997 (quella delle piramidi finanziarie) ed è raccapricciante leggere così tante cattiverie e giudizi razzisti su un giornale che pretende di essere il portavoce della parte illuminata del paese.
Se anche a voi appare così, perché diavolo continuate a comprarla? Avete provato il Corriere? O il Sole 24ore, l'unico che faccia inserti degni di questo nome? Anche la Stampa o il Messaggero sono meglio. Pensateci, cambiare non è così drammatico. Smettetela di fare come quelli che parlano male della televisione e poi la guardano sei ore al giorno. L'unico modo per migliorare Repubblica è farle capire che fa schifo così com'è, e questo lo capisce solo se smettete di comprarla.
Segue una lunga lista di post di questo tenore: "Sottoscrivo in pieno".
Che dire? Sottoscrivo pure io, ma ho smesso di leggere Repubblica nel 1992, quando iniziarono la storia dei gadget (era il corso d'inglese, allora) e quando iniziarono a mettere lady Diana tra le notizie di prima pagina (ok, ero giovane e ingenuo, lady D. in prima pagina mi sembrava veramente troppo, allora). E da allora mi fa ribrezzo solo tenerne una copia in mano, quando Vale mi chiede di comprargliela. E mi viene anche da dire all'edicolante: "Guardi che non è per me!". Sì, ci scrive ogni tanto Adriano Sofri, ma se ho smesso di leggere il Foglio, dove ci scrive ogni giorno, posso bene cercarmi i suoi pezzi online.
Allora la mia domanda è di quelle ingenue: se fa cagare come dite (e non ho dubbi in proposito) perché continuate a comprarla? E se il sito è un cesso di tette e refusi e allarmi contro la pedofilia e i mostri di internet, che cavolo ce l'avete tra i bookmarks?
Ho la forte impressione che sia un effetto qwerty. Oggi usiamo la tastiera con quella strana disposizione di tasti perché all'epoca delle macchina da scrivere bisognava trovare un sistema che evitasse che le levette comandate dai tasti si "ingarbugliassero", e la disposizione qwerty si era rivelata la più adatta. Questo accorgimento tecnico non ha più ragione d'essere da quarant'anni (da quando hanno inventato le macchine elettriche con le testine e poi con le tastiere dei pc) ma dato che a scrivere a macchina si imparava e si insegnava con la tastiera qwerty, nessuno si è mai preso la briga di fare lo sforzo di imparare con un altro tipo di tastiera.
Sì, non rompetemi che forse le cose non sono andate esattamente così per la tastiera qwerty e forse la versione vera è un'altra, è il concetto che conta: facciamo un sacco di cose perché una volta andavano bene, e continuiamo a farle anche quando non hanno più senso.
Quando uscì Repubblica io stavo in terza media e ricordo la faccia soddisfatta di Vittorio Marchiori (un ragazzo in gamba della seconda liceo, che io vedevo come un role model) che in autobus parlava con un amico di questo nuovo giornale, come era nuovo e come parlava di politica in modo che nessuno faceva prima.
Tutto vero. Repubblica è stata un apripista dell'informazione in Italia, non fosse altro che per il formato tabloid, che hanno imposto loro. Ma da quanti anni è diventata il covo del peggior conservatorismo "se sinistra"? A me pare da molto tempo il giornale più squallido che si possa immaginare: pieno di bieco rancore spacciato da progressismo, inutile per informarsi e patetico nella sua pretesa di costituire un movimento di opinione. Repubblica è il luogo del lamento politically correct, è italiota nel modo più subdolo (Libero almeno non fa finta di essere intelligente) e imbarazzante dalla prima all'ultima pagina. Ho appena riletto per un articolo che sto scrivendo i corsivi di Repubblica dedicati alla crisi albanese del 1997 (quella delle piramidi finanziarie) ed è raccapricciante leggere così tante cattiverie e giudizi razzisti su un giornale che pretende di essere il portavoce della parte illuminata del paese.
Se anche a voi appare così, perché diavolo continuate a comprarla? Avete provato il Corriere? O il Sole 24ore, l'unico che faccia inserti degni di questo nome? Anche la Stampa o il Messaggero sono meglio. Pensateci, cambiare non è così drammatico. Smettetela di fare come quelli che parlano male della televisione e poi la guardano sei ore al giorno. L'unico modo per migliorare Repubblica è farle capire che fa schifo così com'è, e questo lo capisce solo se smettete di comprarla.
Nostalgia (poesia di Billy Collins)
Questa avrebbe bisogno di qualche nota di contestualizzazione per noi ignoranti che non sappiamo bene cosa successe nel 1572, ma lo spirito si coglie lo stesso. La mia traduzione è dedicata a Rebecca, che a cinque anni già conosce questo sentimento (e io cerco spudoratamente di sradicarglielo dal cuore) e a Pietro, che a 63 ancora la insegna con grande maestria, glielo riconosco.
Come al solito, prima l'originale e poi la mia versione.
Nostalgia
Remember the 1340's? We were doing a dance called the Catapult.
You always wore brown, the color craze of the decade,
and I was draped in one of those capes that were popular,
the ones with unicorns and pomegranates in needlework.
Everyone would pause for beer and onions in the afternoon,
and at night we would play a game called "Find the Cow."
Everything was hand-lettered then, not like today.
Where has the summer of 1572 gone? Brocade sonnet
marathons were the rage. We used to dress up in the flags
of rival baronies and conquer one another in cold rooms of
stone.
Out on the dance floor we were all doing the Struggle
while your sister practiced the Daphne all alone in her room.
We borrowed the jargon of farriers for our slang.
These days language seems transparent a badly broken code.
The 1790's will never come again. Childhood was big.
People would take walks to the very tops of hills
and write down what they saw in their journals without speaking.
Our collars were high and our hats were extremely soft.
We would surprise each other with alphabets made of twigs.
It was a wonderful time to be alive, or even dead.
I am very fond of the period between 1815 and 1821.
Europe trembled while we sat still for our portraits.
And I would love to return to 1901 if only for a moment,
time enough to wind up a music box and do a few dance steps,
or shoot me back to 1922 or 1941, or at least let me
recapture the serenity of last month when we picked
berries and glided through afternoons in a canoe.
Even this morning would be an improvement over the present.
I was in the garden then, surrounded by the hum of bees
and the Latin names of flowers, watching the early light
flash off the slanted windows of the greenhouse
and silver the limbs on the rows of dark hemlocks.
As usual, I was thinking about the moments of the past,
letting my memory rush over them like water
rushing over the stones on the bottom of a stream.
I was even thinking a little about the future, that place
where people are doing a dance we cannot imagine,
a dance whose name we can only guess.
- Billy Collins
Nostalgia
Ti ricordi gli anni Quaranta del Milletrecento? Facevamo una danza chiamata la Catapulta.
Tu vestivi sempre di marrone, la mania di quel decennio,
e io mi coprivo con uno di quei mantelli alla moda,
quelli con gli unicorni e le melagrane ricamate.
Tutti facevano merenda con birra e cipolle, nel pomeriggio
e alla sera facevamo un gioco chiamata “Trova la Mucca”.
Tutto era manoscritto allora, mica come oggi.
Dov’è finita l’estate del 1572? Impazzivamo, allora, per le maratone
di sonetti in broccato. Ci vestivamo con le insegne
di baronie rivali, e ci conquistavamo l’un l’altro in fredde stanze di pietra.
Giù sulla pista, tutti ballavamo la Lotta
mentre tua sorella si esercitava con la Dafne da sola, nella sua stanza.
Prendevamo a prestito il gergo dei maniscalchi per le nostre parlate.
Oggi il linguaggio sembra trasparente, un codice svelato fino in fondo.
Gli anni Novanta del Settecento non torneranno più. L’infanzia era favolosa.
La gente faceva passeggiate in cima alle colline
e scriveva sul diario quel che vedeva, senza parlare.
Avevamo alti collari e i nostri cappelli erano morbidissimi.
Ci sorprendevamo l’un l’altro con alfabeti fatti di ramoscelli.
Era un tempo meraviglioso per essere vivi, o anche morti.
Vado pazzo per il periodo tra il 1815 e il 1821.
L’Europa tremava mentre noi sedevamo immobili a farci ritrarre.
E adorerei tornare al 1901, anche solo per un attimo,
giusto il tempo di caricare un fonografo e fare qualche passo di danza,
o rispeditemi nel 1922 o nel 1941, o perlomeno lasciatemi
riconquistare la serenità del mese scorso quando coglievamo
bacche e scorrevamo in canoa attraverso i pomeriggi.
Perfino stamattina sarebbe un miglioramento rispetto al presente.
Ero in giardino, allora, attorniato dal ronzio delle api
e dai nomi latini dei fiori, e guardavo la prima luce
che risplendeva sulle finestre inclinate della serra
e copriva d’argento i rami dei filari di scuri abeti.
Come sempre, stavo pensando ai momenti del passato,
lasciando che il ricordo ci scorresse sopra come acqua
che scorre sopra le pietre sul fondo di un torrente.
Addirittura, stavo un poco pensando al futuro, quel posto
dove si balla una danza che non riusciamo a immaginare,
una danza il cui nome possiamo solo ipotizzare.
Traduzione di Piero Vereni
venerdì 20 luglio 2007
Quando si dice curare il dettaglio
India's News Calligraphers Do It on Deadline Esiste un giornale in India che viene scritto a mano per essere stampato. Ci sono quattro calligrafi che passano tre ore a testa su ogni pagina del giornale. E' un giornale musulmano, ma è anche un bastione della parità dei diritti, dato che tra i calligrafi due sono donne. Mi sono imbattuto in questa notizia mentre traducevo una poesia di Billy Collins (tanto per cambiare) che dovrei riuscire a mettere online stasera. O domani. Forse. Spero. Boh. Però questa notizia del giornale scritto a mano mi piaceva ed eccola qui. Mi consola l'idea che uno possa prendersi tre ore di tempo per scrivere una pagina di giornale. Mi conforta nella mia convizione che c'è in giro un eccesso di fretta e di fame da cresta dell'onda.
mercoledì 18 luglio 2007
Chi non salta Gustavo è
Mi ha fregato. Avevo detto che accettavo scommesse sul fatto che le dimissioni di Gustavo Selva sarebbero state respinte dal Parlamento, corporativo come un sol uomo in questi casi. Mi ha fregato perché il mitico democristiano di AN ha visto bene di evitare il rischio (forse spaventato dalle iniziative messe in piedi contro il suo disinvolto modo di utilizzare l’ambulanza come taxi, e di raccontarlo pure, dopo) ritirando le sue dimissioni. Ma ci ha spiegato il motivo: le migliaia di lettere e email, “soprattutto dal Veneto”, che gli chiedevano di restare. Per questo l’ha fatto. Per spirito di servizio.
Un’ulteriore conferma del vuoto pneumatico che lo isola dalla realtà. Come non si è reso conto che raccontando la sua bravata in ambulanza avrebbe scatenato un casino, così ieri non si è reso conto che spacciando la stronzata delle “migliaia di lettere e email, soprattutto dal Veneto” non può che farci incazzare. Tutti. Soprattutto a chi, come me, ha la maledetta sfiga di "venire dal Veneto". Anche quelli di AN, spero.
Quel che uno sospetta, veramente, è che il sentire di Selva sia ampiamente maggioritario tra i membri della sua tribù di politici professionisti: il senso di un privilegio costante e irrefrenabile.
E a noi sempre quello resta: dacci oggi il nostro sdegno quotidiano.
Un’ulteriore conferma del vuoto pneumatico che lo isola dalla realtà. Come non si è reso conto che raccontando la sua bravata in ambulanza avrebbe scatenato un casino, così ieri non si è reso conto che spacciando la stronzata delle “migliaia di lettere e email, soprattutto dal Veneto” non può che farci incazzare. Tutti. Soprattutto a chi, come me, ha la maledetta sfiga di "venire dal Veneto". Anche quelli di AN, spero.
Quel che uno sospetta, veramente, è che il sentire di Selva sia ampiamente maggioritario tra i membri della sua tribù di politici professionisti: il senso di un privilegio costante e irrefrenabile.
E a noi sempre quello resta: dacci oggi il nostro sdegno quotidiano.
lunedì 9 luglio 2007
Non può essere un poeta
Ci sto pensando da qualche giorno (da quando l’ho scoperto, in verità, e cioè dal 30 giugno scorso) e il pensiero mi è tornato pressante quando Vale ha postato la traduzione di Forgetfulness sul suo blog (un buon blog sul versante intimista / diario, ma posta poco per diventare un’abitudine per noi leggerla). Mi è rimbalzato, il pensiero, perché ho scaricato diversi mp3 in cui Billy Collins legge le sue poesie.
Nella versione che ho scaricato io, Forgetfulness viene letta da Collins durante un workshop di poesia, e la gente che lo ascolta RIDE, ride di cuore mentre lui racconta la dimenticanza.
Anch’io, come Vale, non avevo misurato esattemente il peso dell’ironia in questo testo. Ma sentendo la lettura fatta da Collins davanti a un pubblico americano, e sentendo la sua (del pubblico) reazione, mi sono convinto che
Billy Collins (BC) non è un poeta secondo gli standard probabilmente europei, sicuramente italiani (Poeta Europeo/Italiano, PE/I).
Le motivazioni sono diverse:
1. Si capisce di cosa parla. Diversamente dal PE/I, BC non usa particolari neologismi, ellissi, e tutta la retorica comune del poeta. Le sue scelte lessicali sono piane, la sua strutturazione sintattica segue lo standard della lingua inglese parlata (Soggetto-Oggetto-Verbo). Un PE/I si inerpica sul linguaggio come uno scalatore sull’Everest, ne fa una questione di principio, si sente perennemente sotto sfida e per questo spesso schiaffeggia con il guanto e il linguaggio, e chi lo legge. BC sembra lasciarsi andare dentro il linguaggio con la consuetudine di chi sta a casa sua, non a casa del nemico o nel tempio di una divinità imperiosa da rabbonire. Corollario del punto 1 è la paradossale facilità con cui BC può essere tradotto. In traduzione, il rischio più comune per un professionista uso alla tradizione dei PE/I è quello di complicare senza ragione il testo originale, di forzare certe scelte lessicali, di imporre insomma gli stilemi del PE/I sul testo di BC, sentito “troppo poco poetico” e quindi meritevole di un miglioramento. Il rischio insomma è quello che di solito accompagna la traduzione di testi scientifici: il traduttore che si mette a fare l’editor.
2. Parla ai lettori. Diversamente dal PE/I, quando leggiamo una poesia di BC non ci pare di andare a frugare dentro il cassetto di uno sconosciuto, ma abbiamo l’impressione che quella poesia sia rivolta a noi. Mentre cioè il PE/I parla sostanzialmente a se stesso, ed eventualmente concede a noi l’ascolto di questa sua autocomunicazione, BC comunica direttamente ai suoi lettori/ascoltatori. Sembra preoccupato che la sua comunicazione vada a buon fine, caratteristica che lo rende del tutto peculiare rispetto al PE/I, che ha come fine evidente l’espressione, non la comunicazione. Mentre cioè il PE/I scrive sotto la pressione della seguente domanda: “io,cosa sento?”, BC prova a rispondere a quest’altra con le sue poesie: “Come posso raccontare quel che sento?”
3. È ironico e riflessivo. Il tipico PE/I ha un’enorme capacità di introspezione rispetto ai suoi stati umorali; è in grado di entrare nelle logiche del Mondo come un coltello caldo in un panetto di burro, ma sembra del tutto cieco rispetto alla retorica della propria produzione (ok, qui esistono eccezioni anche per il PE/I, ma raramente di tratta dei nomi che vanno per la maggiore, e se un PE/I fa ridere, è più facile che finisca a Zelig che su qualche rivista specializzatqa), come se lo spazio dell’espressione poetica fosse l’unico in cui il PE/I non riesce ad applicare il suo straordinario acume analitico. BC, invece, smonta costantemente con le sue poesie la concezione standard di poesia. E, grazie ai punti uno e due, lo fa senza cadere nella gratuita cripticità, ma mantenendo un contatto con il linguaggio della vita quotidiana e con i suoi lettori. Il PE/I, invece, quanto più intende scardinare la retorica della poesia (quanto più, cioè, è riflessivo rispetto al suo lavoro) tanto più fa pagare questa sua consapevolezza in termine di comprensione e comunicazione.
Ci sono probabilmente altri motivi, ma mi pare i principali siano questi. I motivi per cui BC mi piace, e molti PE/I mi danno sui nervi.
Nella versione che ho scaricato io, Forgetfulness viene letta da Collins durante un workshop di poesia, e la gente che lo ascolta RIDE, ride di cuore mentre lui racconta la dimenticanza.
Anch’io, come Vale, non avevo misurato esattemente il peso dell’ironia in questo testo. Ma sentendo la lettura fatta da Collins davanti a un pubblico americano, e sentendo la sua (del pubblico) reazione, mi sono convinto che
Billy Collins (BC) non è un poeta secondo gli standard probabilmente europei, sicuramente italiani (Poeta Europeo/Italiano, PE/I).
Le motivazioni sono diverse:
1. Si capisce di cosa parla. Diversamente dal PE/I, BC non usa particolari neologismi, ellissi, e tutta la retorica comune del poeta. Le sue scelte lessicali sono piane, la sua strutturazione sintattica segue lo standard della lingua inglese parlata (Soggetto-Oggetto-Verbo). Un PE/I si inerpica sul linguaggio come uno scalatore sull’Everest, ne fa una questione di principio, si sente perennemente sotto sfida e per questo spesso schiaffeggia con il guanto e il linguaggio, e chi lo legge. BC sembra lasciarsi andare dentro il linguaggio con la consuetudine di chi sta a casa sua, non a casa del nemico o nel tempio di una divinità imperiosa da rabbonire. Corollario del punto 1 è la paradossale facilità con cui BC può essere tradotto. In traduzione, il rischio più comune per un professionista uso alla tradizione dei PE/I è quello di complicare senza ragione il testo originale, di forzare certe scelte lessicali, di imporre insomma gli stilemi del PE/I sul testo di BC, sentito “troppo poco poetico” e quindi meritevole di un miglioramento. Il rischio insomma è quello che di solito accompagna la traduzione di testi scientifici: il traduttore che si mette a fare l’editor.
2. Parla ai lettori. Diversamente dal PE/I, quando leggiamo una poesia di BC non ci pare di andare a frugare dentro il cassetto di uno sconosciuto, ma abbiamo l’impressione che quella poesia sia rivolta a noi. Mentre cioè il PE/I parla sostanzialmente a se stesso, ed eventualmente concede a noi l’ascolto di questa sua autocomunicazione, BC comunica direttamente ai suoi lettori/ascoltatori. Sembra preoccupato che la sua comunicazione vada a buon fine, caratteristica che lo rende del tutto peculiare rispetto al PE/I, che ha come fine evidente l’espressione, non la comunicazione. Mentre cioè il PE/I scrive sotto la pressione della seguente domanda: “io,cosa sento?”, BC prova a rispondere a quest’altra con le sue poesie: “Come posso raccontare quel che sento?”
3. È ironico e riflessivo. Il tipico PE/I ha un’enorme capacità di introspezione rispetto ai suoi stati umorali; è in grado di entrare nelle logiche del Mondo come un coltello caldo in un panetto di burro, ma sembra del tutto cieco rispetto alla retorica della propria produzione (ok, qui esistono eccezioni anche per il PE/I, ma raramente di tratta dei nomi che vanno per la maggiore, e se un PE/I fa ridere, è più facile che finisca a Zelig che su qualche rivista specializzatqa), come se lo spazio dell’espressione poetica fosse l’unico in cui il PE/I non riesce ad applicare il suo straordinario acume analitico. BC, invece, smonta costantemente con le sue poesie la concezione standard di poesia. E, grazie ai punti uno e due, lo fa senza cadere nella gratuita cripticità, ma mantenendo un contatto con il linguaggio della vita quotidiana e con i suoi lettori. Il PE/I, invece, quanto più intende scardinare la retorica della poesia (quanto più, cioè, è riflessivo rispetto al suo lavoro) tanto più fa pagare questa sua consapevolezza in termine di comprensione e comunicazione.
Ci sono probabilmente altri motivi, ma mi pare i principali siano questi. I motivi per cui BC mi piace, e molti PE/I mi danno sui nervi.
mercoledì 4 luglio 2007
Dimenticanza (poesia di Billy Collins)
Forgetfulness
The name of the author is the first to go
followed obediently by the title, the plot,
the heartbreaking conclusion, the entire novel
which suddenly becomes one you have never read,
never even heard of,
as if, one by one, the memories you used to harbor
decided to retire to the southern hemisphere of the brain,
to a little fishing village where there are no phones.
Long ago you kissed the names of the nine Muses goodbye
and watched the quadratic equation pack its bag,
and even now as you memorize the order of the planets,
something else is slipping away, a state flower perhaps,
the address of an uncle, the capital of Paraguay.
Whatever it is you are struggling to remember
it is not poised on the tip of your tongue,
not even lurking in some obscure corner of your spleen.
It has floated away down a dark mythological river
whose name begins with an L as far as you can recall,
well on your own way to oblivion where you will join those
who have even
forgotten how to swim and how to ride a bicycle.
No wonder you rise in the middle of the night
to look up the date of a famous battle in a book on war.
No wonder the moon in the window seems to have drifted
out of a love poem that you used to know by heart.
- Billy Collins
Dimenticanza
Il primo ad andarsene è il nome dell’autore
diligentemente seguito dal titolo, dalla trama,
dal finale mozzafiato, dall’intero romanzo
che all’improvviso diventa come se non l’avessi mai letto,
nemmeno mai sentito,
come se, uno per uno, i ricordi che eri solito ospitare
avessero deciso di accasarsi nell’emisfero meridionale del cervello,
in un piccolo villaggio di pescatori dove non ci sono telefoni.
Molto tempo fa hai dato il bacio d’addio ai nomi delle nove Muse
e hai visto fare le valigie a quella equazione quadratica,
e anche adesso, che mandi a memoria l’ordine dei pianeti,
qualcos’altro scivola via, forse quale sia il fiore simbolo di uno stato,
l’indirizzo di uno zio, la capitale del Paraguay.
Qualunque sia la cosa che ti sforzi di ricordare
non ti sta certo in bilico sulla punta della lingua,
né se ne sta rintanata in qualche oscuro angolo della tua milza.
Se ne è andata galleggiando lungo un cupo fiume mitologico
il cui nome, a quanto ricordi, comincia per L,
giù lungo la strada del tuo oblio dove ti unirai a quanti
hanno scordato come si nuota e come si pedala una bici.
È normale che ti alzi nel mezzo della notte
per controllare la data di una famosa battaglia in un libro di guerra.
È normale che la luna dalla finestra sembri uscita
da una poesia d’amore che un tempo sapevi a memoria.
The name of the author is the first to go
followed obediently by the title, the plot,
the heartbreaking conclusion, the entire novel
which suddenly becomes one you have never read,
never even heard of,
as if, one by one, the memories you used to harbor
decided to retire to the southern hemisphere of the brain,
to a little fishing village where there are no phones.
Long ago you kissed the names of the nine Muses goodbye
and watched the quadratic equation pack its bag,
and even now as you memorize the order of the planets,
something else is slipping away, a state flower perhaps,
the address of an uncle, the capital of Paraguay.
Whatever it is you are struggling to remember
it is not poised on the tip of your tongue,
not even lurking in some obscure corner of your spleen.
It has floated away down a dark mythological river
whose name begins with an L as far as you can recall,
well on your own way to oblivion where you will join those
who have even
forgotten how to swim and how to ride a bicycle.
No wonder you rise in the middle of the night
to look up the date of a famous battle in a book on war.
No wonder the moon in the window seems to have drifted
out of a love poem that you used to know by heart.
- Billy Collins
Dimenticanza
Il primo ad andarsene è il nome dell’autore
diligentemente seguito dal titolo, dalla trama,
dal finale mozzafiato, dall’intero romanzo
che all’improvviso diventa come se non l’avessi mai letto,
nemmeno mai sentito,
come se, uno per uno, i ricordi che eri solito ospitare
avessero deciso di accasarsi nell’emisfero meridionale del cervello,
in un piccolo villaggio di pescatori dove non ci sono telefoni.
Molto tempo fa hai dato il bacio d’addio ai nomi delle nove Muse
e hai visto fare le valigie a quella equazione quadratica,
e anche adesso, che mandi a memoria l’ordine dei pianeti,
qualcos’altro scivola via, forse quale sia il fiore simbolo di uno stato,
l’indirizzo di uno zio, la capitale del Paraguay.
Qualunque sia la cosa che ti sforzi di ricordare
non ti sta certo in bilico sulla punta della lingua,
né se ne sta rintanata in qualche oscuro angolo della tua milza.
Se ne è andata galleggiando lungo un cupo fiume mitologico
il cui nome, a quanto ricordi, comincia per L,
giù lungo la strada del tuo oblio dove ti unirai a quanti
hanno scordato come si nuota e come si pedala una bici.
È normale che ti alzi nel mezzo della notte
per controllare la data di una famosa battaglia in un libro di guerra.
È normale che la luna dalla finestra sembri uscita
da una poesia d’amore che un tempo sapevi a memoria.
I Morti (poesia di Billy Collins)
The Dead
The dead are always looking down on us, they say,
while we are putting on our shoes or making a sandwich,
they are looking down
through the glass-bottom boats of heaven,
as they row themselves slowly through eternity.
They watch the tops of our heads moving below on earth,
end when we lie down in a field or on a couch,
drugged perhaps by the hum of a warm afternoon,
they think we are looking back at them,
which makes them lift their oars
and fall silent and wait,
like parents,
for us to close our eyes.
I Morti
I morti guardano sempre in giù, verso di noi, si dice,
mentre ci mettiamo le scarpe o prepariamo un panino,
guardano in giù
attraverso le navi dal fondo di vetro del paradiso,
mentre remano lentamente attraverso l’eternità.
Guardano le cime delle nostre teste che si muovono giù sulla terra,
e quando ci sdraiamo in un campo o sul divano,
magari storditi dal ronzio di un caldo pomeriggio,
pensano che anche noi li stiamo guardando,
e allora sollevano i remi
e tacciono e aspettano,
come dei genitori,
fino a quando chiudiamo gli occhi.
The dead are always looking down on us, they say,
while we are putting on our shoes or making a sandwich,
they are looking down
through the glass-bottom boats of heaven,
as they row themselves slowly through eternity.
They watch the tops of our heads moving below on earth,
end when we lie down in a field or on a couch,
drugged perhaps by the hum of a warm afternoon,
they think we are looking back at them,
which makes them lift their oars
and fall silent and wait,
like parents,
for us to close our eyes.
I Morti
I morti guardano sempre in giù, verso di noi, si dice,
mentre ci mettiamo le scarpe o prepariamo un panino,
guardano in giù
attraverso le navi dal fondo di vetro del paradiso,
mentre remano lentamente attraverso l’eternità.
Guardano le cime delle nostre teste che si muovono giù sulla terra,
e quando ci sdraiamo in un campo o sul divano,
magari storditi dal ronzio di un caldo pomeriggio,
pensano che anche noi li stiamo guardando,
e allora sollevano i remi
e tacciono e aspettano,
come dei genitori,
fino a quando chiudiamo gli occhi.
martedì 3 luglio 2007
Il Laccio (poesia di Billy Collins)
Un'altra poesia di Billy Collins. Se ne trovano diverse su YouTube (non tutte animate bene). Forse faccio una finestra qui a destra con la playlist di cui avete il link qui.
The Lanyard
The other day I was ricocheting slowly
off the blue walls of this room,
moving as if underwater from typewriter to piano,
from bookshelf to an envelope lying on the floor,
when I found myself in the L section of the dictionary
where my eyes fell upon the word lanyard.
No cookie nibbled by a French novelist
could send one into the past more suddenly—
a past where I sat at a workbench at a camp
by a deep Adirondack lake
learning how to braid long thin plastic strips
into a lanyard, a gift for my mother.
I had never seen anyone use a lanyard
or wear one, if that’s what you did with them,
but that did not keep me from crossing
strand over strand again and again
until I had made a boxy
red and white lanyard for my mother.
She gave me life and milk from her breasts,
and I gave her a lanyard.
She nursed me in many a sick room,
lifted spoons of medicine to my lips,
laid cold face-cloths on my forehead,
and then led me out into the airy light
and taught me to walk and swim,
and I, in turn, presented her with a lanyard.
Here are thousands of meals, she said,
and here is clothing and a good education.
And here is your lanyard, I replied,
which I made with a little help from a counselor.
Here is a breathing body and a beating heart,
strong legs, bones and teeth,
and two clear eyes to read the world, she whispered,
and here, I said, is the lanyard I made at camp.
And here, I wish to say to her now,
is a smaller gift—not the worn truth
that you can never repay your mother,
but the rueful admission that when she took
the two-tone lanyard from my hand,
I was as sure as a boy could be
that this useless, worthless thing I wove
out of boredom would be enough to make us even.
- Billy Collins
Il Laccio
L’altro giorno rimbalzavo lentamente
alle pareti azzurre di questa stanza
muovendomi come sott’acqua dalla macchina da scrivere al pianoforte
dalla libreria a una busta che stava sul pavimento
quando mi sono trovato alla lettera L del dizionario
dove i miei occhi sono caduti sulla parola laccio.
Non c’è biscotto sgranocchiato da un romanziere francese
che potesse spedire un uomo nel passato più di botto –
un passato in cui sedevo su una panca, in un campeggio
di un profondo lago Adirondack
a imparare come intrecciare lunghe e sottili strisce di plastica
per farne un laccio, regalo per mia madre.
Non avevo mai visto nessuno usare un laccio
o indossarne uno, se è così che si usavano,
ma questo non mi impedì di incrociare
un filo sull’altro ancora e ancora
finché ne feci un goffo laccio
bianco e rosso per mia madre.
Mi ha dato la vita e il latte del suo seno,
e io le ho dato un laccio.
Mi ha curato in molte stanze malate,
portando cucchiai di medicina alle mie labbra,
ponendomi pezze rinfrescanti sulla fronte,
lasciandomi poi andare all’aperto, nella luce
e mi ha insegnato a camminare e nuotare,
e io, in cambio, le ho portato in regalo un laccio.
Ecco qua migliaia di pasti, mi ha detto,
e questi sono i vestiti e la giusta istruzione.
E questo è il tuo laccio, le ho risposto,
che ho fatto io con un piccolo aiuto di un caposquadra.
Eccoti un corpo che respira e un cuore che batte,
gambe forti, come le ossa e i denti,
e due occhi chiari per leggere il mondo, mormorò,
e questo, dissi io, è il laccio che ho fatto al campeggio.
E questo, vorrei dirle ora,
è un regalo più piccolo – non la consunta verità
che non puoi mai pagare il debito con tua madre,
ma la dolorosa ammissione che quando prese
il laccio bicolore dalla mia mano,
ero sicuro, come un ragazzo può esserlo,
che quel coso inutile e senza valore che avevo intrecciato
per pura noia sarebbe bastato a pareggiare i nostri conti.
Billy Collins - traduzione di Piero Vereni
Farfur è morto, viva Farfur
Impressionante questo video che raffigura Farfur, il Topolino palestinese, della televisione Al-Aqsa TV (la tv di Hamas lanciata a inizio 2006 con l'esplicito intento di fare propaganda) ucciso a botte dagli israeliani perché non vuole dare loro la terra e i documenti. La presentatrice dello spettacolo, una bambina di 10-12 anni, riceve telefonate dal pubblico dopo la violenta dipartita del sorcio antisemita.
Ecco la trascrizione della telefonata (traduzione mia dalla sottotitolatura in inglese).
Presentatrice: Sì cari amici bambini, abbiamo perso il nostro carissimo amico, Farfur. Farfur è diventato un martire proteggendo la sua terra. Farfur è diventato un martire per mano di criminali e assassini. Gli assassini di bimbi innocenti. Avete visto che gli Ebrei hanno lasciato morire Farfur come un martire. Cosa volete dire agli Ebrei?
Shaimaa', 3 anni, al telefono: Non ci piacciono gli Ebrei perché sono cani! Combatteremo contro di loro.
Presentatrice (con tono ironico): Ma no Shaimaa', gli Ebrei sono buoni! Gli Ebrei sono nostri amici, e noi giochiamo con loro, non è vero?
Shaimaa': Hanno ucciso Farfur!
Presentatrice: E' vero, Shaimaa'. Gli Ebrei sono criminali e nemici, dobbiamo scacciarli dalla nostra terra.
Le ultime agenzie dicono che Farfur è vivo e lotta insieme a noi. Pare infatti che il successo sia tale che lo faranno tornare.
Certo, fa proprio schifo, ma non penso che sia così dannoso come vorrebbero i dirigenti di Al-Aqsa. La teoria dell'ago ipodermico (per cui qualunque stronzata venga detta dai mass media passa dall'emittente al ricevente come fosse un'iniezione) si è rivelata più volte fasulla. Anzi, sappiamo che nessuno ha mai teorizzato una sciocchezza del genere, che invece resta una speranza di molti politici, compresi quelli che si spartiscono la Rai a ogni cambio della guardia.
Zotero
Se lavorate con bibliografie consistenti e usate tanto internet, credo che dovreste dare almeno un'occhiata a questo software, partito lo scorso autunno. In sostanza è un sofware di reference management, ma lavora da dio sul web e riconosce un sacco di formati di schede librarie. Senza che dobbiate neppure copiarvi i dati del libro, Zotero capisce quali sono i campi e riempie la scheda bibliografica in modo corretto. Se lavorate con Opac/internetculturale o Library of Congress Catalog o http://www.jstor.org/, potete organizzarvi una bibliografia per temi in pochissimi minuti (forse troppo pochi? Mi troverò con centinaia di schede che NON avrò compilato e quindi rischio di venir sommerso da informazione che ho prodotto senza elaborarla, senza conoscerla?). Qui potete leggere una presentazione in italiano, dove si spiega anche che Zotero, essendo open source, lavora dentro Firefox 2.0. Credo che proverò ad usarlo e aggiornerò questa recensione di tanto in tanto. Se qualcuno lo usa mi farebbe piacere sapere che ne pensa.
Intanto, da quel che ho visto, è veramente potente. Esporta le bibliografie in moltissimi formati e consente di lavorare con schede di annotazione e tags semantici per ogni scheda bibliografica (che poi non dev'essere per forza bibliografica, potete schederare anche video, audio, pagine web). Ero un po' perplesso dal fatto che lo storage fosse sul computer, non sul web. Per uno come me, che lavora sistematicamente su tre computer (portatile, casa, ufficio) rischiava di diventare un handicap insormontabile. Invece l'esportazione dell'archivio è semplice e veloce (almeno, con le trenta schede di prova che ho fatto stanotte). Finito di lavorare, si esporta il file in formato "zotero" e lo si copia sulla chiavetta usb. Quando si cambia macchina, basta lanciare zotero e importare il file dalla chiavetta per trovarsi tutto il lavoro al punto esatto in cui lo si era lasciato. Sì, vale la pena di provare ad usarlo (anche se ai miei studenti preferisco per ora far fare la bibliografia con word, così imparano come si fa).
Mensione speciale
Ora, non farò esattamente come Luigi Secco, il mio professore di matematica del liceo, che quando un compito andava male commentava: "Se non volete studiare avete due alternative: andate a fare i contadini o andate a fare i giornalisti", ma certo fa impressione leggere per due volte (di cui una nel titolo) "mensione" invece di "menzione". In un sito che pubblicizza il suo "stage di giornalismo".
Tipico ipercorrettismo da accento centromeridionale, si dirà, per cui va a finire che la parola sembra scritta da un veneto, ciò, ghe vol paSienSa. Ma possibile che uno che stila un'agenzia su un premio letterario (per quanto oscuro) non abbia mai letto nessuna recensione precedente, dove di parla di "menzione speciale"?
Chi lo sa, forZe qualche recenZione l'ha pure letta, ma il suo cervello non ne fa menSione, tanto meno speciale.
Promemoria ortografico: menzione, s.f., voce dotta, dal latino mentione (m), da meminisse, ricordasi. Appunto, ricordarsi.
lunedì 2 luglio 2007
Cosa succede se ognuno aggiunge una parola alla storia?
Il risultato è completamente idiota, lo ammetto (e ammetto anche che ci ho sghignazzato sopra, leggendo la sequela di persone che "exploded") ma l'idea è interessante proprio perché riprende su scala 2.0 il giochino casalingo. Io ho provato a far sanguinare Chuck Norris, ma non ci sono riuscito, è venuto fuori che molestava non so chi. Se qualcuno sa di un equivalente in italiano mi informa per cortesia? Non traduco quanto segue tanto se non leggete l'inglese il link non è interessante.
This site lets you add one word to a never ending story. Submitted words which get +5 votes are added to the story. Could the story end up being any good? Or will it turn out to be a load of rubbish? Who knows...
read more | digg story
This site lets you add one word to a never ending story. Submitted words which get +5 votes are added to the story. Could the story end up being any good? Or will it turn out to be a load of rubbish? Who knows...
read more | digg story