Chi la legge in italiano tenga conto che è scritta da un americano, che vagheggia di un non-viaggio in Italia, e quindi la traduzione diventa quasi inevitabilmente un paradosso. Ma spero lo stesso piaccia, come è piaciuta me. La dedico a tutti quelli che, quest'estate, hanno dovuto per i più diversi motivi rinunciare a un viaggio esotico, e a tutti gli antropologi che hanno dovuto rinunciare a qualche tappa di fieldwork. Dovrei essere sulla nave che da Otranto porta a Valona, in questo momento, e non sono potuto partire per un'impegno sopravvenuto. Allora la dedico anche a me.
Consolation
How agreeable it is not to be touring Italy this summer,
wandering her cities and ascending her torrid hilltowns.
How much better to cruise these local, familiar streets,
fully grasping the meaning of every roadsign and billboard
and all the sudden hand gestures of my compatriots.
There are no abbeys here, no crumbling frescoes or famous
domes and there is no need to memorize a succession
of kings or tour the dripping corners of a dungeon.
No need to stand around a sarcophagus, see Napoleon's
little bed on Elba, or view the bones of a saint under glass.
How much better to command the simple precinct of home
than be dwarfed by pillar, arch, and basilica.
Why hide my head in phrase books and wrinkled maps?
Why feed scenery into a hungry, one-eyes camera
eager to eat the world one monument at a time?
Instead of slouching in a café ignorant of the word for ice,
I will head down to the coffee shop and the waitress
known as Dot. I will slide into the flow of the morning
paper, all language barriers down,
rivers of idiom running freely, eggs over easy on the way.
And after breakfast, I will not have to find someone
willing to photograph me with my arm around the owner.
I will not puzzle over the bill or record in a journal
what I had to eat and how the sun came in the window.
It is enough to climb back into the car
as if it were the great car of English itself
and sounding my loud vernacular horn, speed off
down a road that will never lead to Rome, not even Bologna.
Billy Collins
Consolazione
Com’è piacevole, quest’estate, non fare un viaggio in Italia,
senza andare in giro per le sue città né risalire i suoi torridi paesi collinari.
È di gran lunga meglio percorrere queste strade, locali e familiari,
cogliendo in pieno il senso di ogni segnale stradale e di ogni insegna pubblicitaria
e dell’improvviso gesticolare dei miei compatrioti.
Qui non ci sono abbazie, niente affreschi che si sgretolano o famosi
palazzi e non c’è bisogno di mandare a memoria una successione
di re o di visitare i recessi sgocciolanti di una catacomba.
Nessun bisogno di stare attorno a un sarcofago, di vedere
il piccolo letto di Napoleone all’Elba o le ossa in un santo sottovetro.
È molto meglio controllare il semplice confine domestico
che sentirsi annichiliti da colonne, archi e basiliche.
Perché ficcar la testa in un libro di frasi tradotte e dentro mappe spiegazzate?
Perché ingozzare di scenari la mia affamata e ciclopica macchina fotografica
che ha voglia di mangiarsi il mondo un monumento alla volta?
Invece di infilarmi in un caffè senza sapere come si dice “ghiaccio”,
me ne andrò dritto al mio solito bar, dal cameriere
che si chiama Dot. Scivolerò nel flusso del giornale
del mattino, crollate tutte le barriere linguistiche,
fiumi di parole che scorrono liberi, le uova a seguire, pronte in arrivo.
E dopo colazione, non dovrò trovare qualcuno
che mi faccia una foto mentre poso il mio braccio sulle spalle del padrone.
Non impazzirò sul conto né registrerò sul mio diario
quel che ho dovuto mangiare e come il sole entrava dalla finestra.
Basterà risalire in macchina
quasi fosse la grande macchina della lingua inglese
e io, lì, a suonare il mio fragoroso clacson colloquiale, lentamente
lungo una strada che mai condurrà a Roma, e neppure a Bologna.
Traduzione di Piero Vereni