Il Laboratorio di Pratiche Etnografiche (LaPE) segue con attenzione
la questione scoppiata con le dimissioni
di Christian Raimo dal suo ruolo di Consulente
per il Salone del Libro di Torino.
In particolare, condivide la visione di Luca Sofri
(e altri) che le diverse risposte che stanno emergendo (non vado; vado) siano egualmente argomentabili dentro una
visione politica che rimane comunque antifascista
e non dovrebbero portare a gettare discredito su quelli che, conti alla mano,
stanno dalla stessa parte e non è
proprio il caso che si frammentino con l’aria che tira. Siamo sinceramente dispiaciuti che un collega prezioso
come Claudio
Sopranzetti abbia deciso di non andare a Salone, ma non ci sono da parte
nostra giudizi negativi sulla sua scelta, solo il rammarico che la graphic novel che ha scritto
(che cerca di spostare l’antropologia
culturale su nuovi piani comunicativi) non possa beneficiare di una platea
così attenta e curiosa.
Non siamo però sicuri che le giustificazioni finora avanzate
per sostenere una posizione (non vado per non
legittimare i fascisti) o l’altra (vado per non dare ai fascisti più rilevanza di quanta già non abbiano)
tengano nella giusta considerazione un
punto “simbolico” che ci pare vada invece enfatizzato. Altaforte, l’editore dichiaratamente fascista di cui si discute, esiste
da prima del Salone, e pubblica testi ispirati all’ideologia fascista da tempo
(anche se il catalogo
del servizio bibliotecario nazionale, cioè l’insieme delle biblioteche
pubbliche italiane, contiene due soli volumi di questo editore, segno di una
sua scarsa penetrazione sul piano istituzionale, almeno). La sua presenza al
Salone non sarebbe dunque legittimante in
senso politico (i fasci esistono,
e pubblicano da mo’, in effetti), ma lo è senz’altro in senso spaziale (i fasci ammessi nello stesso spazio finora detenuto dall’imprenditoria intellettuale).
(Una riflessione a
parte andrebbe fatta sull’oggetto del contendere, vale a dire libri e case editrici, che si trascinano dietro un’aura sacrale dovuta a un tempo antico, in cui fare i libri era un
impegno materiale notevole che quindi si poteva compiere
solo a patto che il contenuto ne
valesse la pena. Oggi basta un portatile con un paio di programmi taroccati per
impaginare alla perfezione, a costo
letteralmente zero, quel che ha tutta l’apparenza
di un libro, ma non è detto contenga una briciola di pensiero, scrittura, redazione
editoriale, programmazione, promozione, stampa e distribuzione. Intendo dire
che l’elettronica non ha creato solo gli ebook, ma anche prodotto un aumento
impensabile dei titoli-fantasma di
case editrici fantasma, veri zombie
del mercato editoriale che non
vedono l’ora si scateni qualche casino per acchiappare un goccio di visibilità).
Molta della vita politica (quale che sia l’orientamento) si
svolge attraverso la delimitazione di confini
noi/loro. E non parliamo di confini “simbolici” in senso morale, ma di confini
veri e propri che stabiliscono dove
si possa fisicamente stare, quali
spazi si possano occupare e quindi produrre culturalmente con il proprio
esserci. Abitare, e anche solo “stare lì
(e non altrove)” sono azioni simboliche complessissime, che sottendono la
natura territoriale dell’identità,
la nostra concezione spaziale dell’appartenenza.
(Le orrende rimostranze contro l’assegnazione di case o di spazi abitativi
a “migranti” e “rom” sono un sintomo evidente di questo principio).
Quel che una certa concezione della politica (che noi
troviamo del tutto legittima, non stiamo contestando, stiamo descrivendo) non
tollera è la compresenza nel medesimo
spazio di soggetti percepiti come Altro,
come Nemico. Vista da Roma (dove questa
concezione dello spazio come risorsa
limitata che va accuratamente gestita per evitare il contagio dell’impurità è particolarmente forte per pure ragioni urbanistiche) questa postura
spaziale (mai nello stesso spazio con il nemico) è interessante perché
sembra, soprattutto, poco efficace
nell’obiettivo, se l’obiettivo è il contrasto
al fascismo, e non solo la salvaguardia
di una propria comfort zone.
Si accetta l’Esistenza
dell’Altro, ma non si accetta la sua Prossimità,
in una specie di primitivo “aiutamoli a casa loro” che securitizza il nostro
spazio non dall’esistenza, ma dalla presenza di questo Altro. È la concezione igienica dello spazio
domestico che prevede un dentro/fuori marcato
con nettezza. Con tutto il bene che gli vogliamo, Christian Raimo pensa ad
Altaforte al Salone nella stessa modalità
spaziale con cui nostra nonna pensava alle formiche nel suo salotto.
La nonna non contestava la possibilità che il
mondo potesse avere delle formiche, ma negava con tutta la forza del suo apparato detergente che le formiche
potessero coabitare con lei nello spazio
domestico, quello che concepiva sotto la sua assoluta giurisdizione.
Lo ripetiamo, a scanso di equivoci: Christian Raimo, Claudio
Sopranzetti, Zerocalcare e quanti hanno deciso di non andare a Torino
raccolgono tutta la nostra comprensione,
ma ci chiediamo, come antropologi interessati a comprendere le dinamiche del qui
e ora, se sia una mossa politicamente
efficace. Il LaPE è antifascista ma pensiamo che l’antifascismo dovrebbe
essere una prassi politica de-territorializzata
e non territorializzante: c’è un’atmosfera fascistoide che prende piede,
che si legittima nei corpi e nelle voci delle persone, non negli spazi di rappresentazione in quanto
tali. Essere anti-fascisti oggi significa inseguire quell’atmosfera e combatterla a viso aperto, non pretendere di presidiare
come fortini nel deserto spazi che non
hanno più nulla di sacro, simulacri intercambiabili
che confermano, forse, solo l’atteggiamento difensivo di una sinistra timorosa del clima attuale.
Fare la resistenza è importante, ma abbiamo bisogno di presidiare di nuovo il senso comune,
più che il Salone del Libro o qualunque altro tempio fasullo (fasullo perché qualunque versione spazializzata delle identità e delle appartenenze è comunque
destinata a subire i colpi del primo account twitter o instagram manovrato con
cura). Riprendiamoci la legittimità di dire cose banali, nel senso che siano colte dal senso comune come ovvietà per
tutti, e non ci sarà più bisogno
di zittire la propria voce come
segnale simbolico perché una volta sradicato dal senso comune il fascismo non avrà spazio al Salone. Il fascismo
fa schifo, ecco, ma lo fa sempre, mica solo se parla da dentro il Lingotto Fiere di Torino e se ci parla
a pochi metri di distanza. Lo fa,
soprattutto, quando entra nei discorsi da bar, nei modi di dire, nelle posture
dei selfie, nella programmazione televisiva generalista. È lì che dobbiamo
agire, è quello lo spazio da presidiare,
non impendendo all’altro di esserci,
ma imponendo la forza della voce che dà forma alle nostre idee.