2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

martedì 7 maggio 2019

Fascismi, libri e produzione dello spazio


Il Laboratorio di Pratiche Etnografiche (LaPE) segue con attenzione la questione scoppiata con le dimissioni di Christian Raimo dal suo ruolo di Consulente per il Salone del Libro di Torino. In particolare, condivide la visione di Luca Sofri (e altri) che le diverse risposte che stanno emergendo (non vado; vado) siano egualmente argomentabili dentro una visione politica che rimane comunque antifascista e non dovrebbero portare a gettare discredito su quelli che, conti alla mano, stanno dalla stessa parte e non è proprio il caso che si frammentino con l’aria che tira. Siamo sinceramente dispiaciuti che un collega prezioso come Claudio Sopranzetti abbia deciso di non andare a Salone, ma non ci sono da parte nostra giudizi negativi sulla sua scelta, solo il rammarico che la graphic novel che ha scritto (che cerca di spostare l’antropologia culturale su nuovi piani comunicativi) non possa beneficiare di una platea così attenta e curiosa.

Non siamo però sicuri che le giustificazioni finora avanzate per sostenere una posizione (non vado per non legittimare i fascisti) o l’altra (vado per non dare ai fascisti più rilevanza di quanta già non abbiano) tengano nella giusta considerazione un punto “simbolico” che ci pare vada invece enfatizzato. Altaforte, l’editore dichiaratamente fascista di cui si discute, esiste da prima del Salone, e pubblica testi ispirati all’ideologia fascista da tempo (anche se il catalogo del servizio bibliotecario nazionale, cioè l’insieme delle biblioteche pubbliche italiane, contiene due soli volumi di questo editore, segno di una sua scarsa penetrazione sul piano istituzionale, almeno). La sua presenza al Salone non sarebbe dunque legittimante in senso politico (i fasci esistono, e pubblicano da mo’, in effetti), ma lo è senz’altro in senso spaziale (i fasci ammessi nello stesso spazio finora detenuto dall’imprenditoria intellettuale).

(Una riflessione a parte andrebbe fatta sull’oggetto del contendere, vale a dire libri e case editrici, che si trascinano dietro un’aura sacrale dovuta a un tempo antico, in cui fare i libri era un impegno materiale notevole che quindi si poteva compiere solo a patto che il contenuto ne valesse la pena. Oggi basta un portatile con un paio di programmi taroccati per impaginare alla perfezione, a costo letteralmente zero, quel che ha tutta l’apparenza di un libro, ma non è detto contenga una briciola di pensiero, scrittura, redazione editoriale, programmazione, promozione, stampa e distribuzione. Intendo dire che l’elettronica non ha creato solo gli ebook, ma anche prodotto un aumento impensabile dei titoli-fantasma di case editrici fantasma, veri zombie del mercato editoriale che non vedono l’ora si scateni qualche casino per acchiappare un goccio di visibilità).

Molta della vita politica (quale che sia l’orientamento) si svolge attraverso la delimitazione di confini noi/loro. E non parliamo di confini “simbolici” in senso morale, ma di confini veri e propri che stabiliscono dove si possa fisicamente stare, quali spazi si possano occupare e quindi produrre culturalmente con il proprio esserci. Abitare, e anche solo “stare lì (e non altrove)” sono azioni simboliche complessissime, che sottendono la natura territoriale dell’identità, la nostra concezione spaziale dell’appartenenza. (Le orrende rimostranze contro l’assegnazione di case o di spazi abitativi a “migranti” e “rom” sono un sintomo evidente di questo principio).

Quel che una certa concezione della politica (che noi troviamo del tutto legittima, non stiamo contestando, stiamo descrivendo) non tollera è la compresenza nel medesimo spazio di soggetti percepiti come Altro, come Nemico. Vista da Roma (dove questa concezione dello spazio come risorsa limitata che va accuratamente gestita per evitare il contagio dell’impurità è particolarmente forte per pure ragioni urbanistiche) questa postura spaziale (mai nello stesso spazio con il nemico) è interessante perché sembra, soprattutto, poco efficace nell’obiettivo, se l’obiettivo è il contrasto al fascismo, e non solo la salvaguardia di una propria comfort zone.

Si accetta l’Esistenza dell’Altro, ma non si accetta la sua Prossimità, in una specie di primitivo “aiutamoli a casa loro” che securitizza il nostro spazio non dall’esistenza, ma dalla presenza di questo Altro. È la concezione igienica dello spazio domestico che prevede un dentro/fuori marcato con nettezza. Con tutto il bene che gli vogliamo, Christian Raimo pensa ad Altaforte al Salone nella stessa modalità spaziale con cui nostra nonna pensava alle formiche nel suo salotto. La nonna non contestava la possibilità che il mondo potesse avere delle formiche, ma negava con tutta la forza del suo apparato detergente che le formiche potessero coabitare con lei nello spazio domestico, quello che concepiva sotto la sua assoluta giurisdizione.

Lo ripetiamo, a scanso di equivoci: Christian Raimo, Claudio Sopranzetti, Zerocalcare e quanti hanno deciso di non andare a Torino raccolgono tutta la nostra comprensione, ma ci chiediamo, come antropologi interessati a comprendere le dinamiche del qui e ora, se sia una mossa politicamente efficace. Il LaPE è antifascista ma pensiamo che l’antifascismo dovrebbe essere una prassi politica de-territorializzata e non territorializzante: c’è un’atmosfera fascistoide che prende piede, che si legittima nei corpi e nelle voci delle persone, non negli spazi di rappresentazione in quanto tali. Essere anti-fascisti oggi significa inseguire quell’atmosfera e combatterla a viso aperto, non pretendere di presidiare come fortini nel deserto spazi che non hanno più nulla di sacro, simulacri intercambiabili che confermano, forse, solo l’atteggiamento difensivo di una sinistra timorosa del clima attuale.

Fare la resistenza è importante, ma abbiamo bisogno di presidiare di nuovo il senso comune, più che il Salone del Libro o qualunque altro tempio fasullo (fasullo perché qualunque versione spazializzata delle identità e delle appartenenze è comunque destinata a subire i colpi del primo account twitter o instagram manovrato con cura). Riprendiamoci la legittimità di dire cose banali, nel senso che siano colte dal senso comune come ovvietà per tutti, e non ci sarà più bisogno di zittire la propria voce come segnale simbolico perché una volta sradicato dal senso comune il fascismo non avrà spazio al Salone. Il fascismo fa schifo, ecco, ma lo fa sempre, mica solo se parla da dentro il Lingotto Fiere di Torino e se ci parla a pochi metri di distanza. Lo fa, soprattutto, quando entra nei discorsi da bar, nei modi di dire, nelle posture dei selfie, nella programmazione televisiva generalista. È lì che dobbiamo agire, è quello lo spazio da presidiare, non impendendo all’altro di esserci, ma imponendo la forza della voce che dà forma alle nostre idee.