Alla fine del modulo base di antropologia
culturale, da molti anni chiedo agli studenti e alle studentesse di
comporre una tesina finale, un piccolo esercizio di seimila battute al
massimo in cui gli strumenti appresi durante il corso (teorici e
metodologici) vengono applicati a un oggetto da loro già conosciuto,
che ora viene visto da una prospettiva nuova (possibilmente
antropologica…), inedita soprattutto per chi ci ha lavorato costruendola.
Abbiamo, per esempio, imparato cosa sia la “cultura” in senso antropologico, la
“triangolazione complessa”, o la “antropopoiesi” o cosa intendiamo dicendo che
la cultura è “appresa” o “condivisa”, o in che senso diciamo che la parentela è
una “costruzione sociale”. Si tratta di una cassetta degli attrezzi
limitata (l’esercizio è condotto per un modulo introduttivo di 30 ore) ma è
molto interessante vedere i risultati. In questa
cartella, chi vuole può leggere una ventina dei molto più numerosi esempi
che ho selezionato in questi ultimi anni. Non sono tutti i migliori, l’accumulo
di tesine da leggere spesso mi costringe alla fretta e alla trasandatezza,
e nella cartella generale (non la selezione casuale che ho qui incluso) ho
raccolto soprattutto tesine esemplari, che possano cioè servire da guida
per chi non ha idee, tralasciando per forza le stesure più pirotecniche,
troppo lunghe, troppo azzardate, troppo creative per funzionare da modello
standard.
Uso questa strategia da molti anni, perché credo che l’antropologia
come sapere specialistico abbia da tempo esaurito la sua funzione originaria
(che era documentare le vestigia delle culture “altre”, lontane nell’esotismo
o vicine nelle campagne) e debba accettare di essere una scienza sociale per
la cittadinanza in generale, come la sociologia, l’economia e la psicologia
e come queste possa mantenere una professionalità solo a patto di rendersi disponibile,
con esclusivo spirito di servizio, per contribuire alla crescita delle
comunità dove produce il suo sapere. Io, cioè, parlo ancora di Macedonia,
di carcere o di Bangladesh, ma mi interessa poco (proprio poco,
ribadisco) istruire dei giovani collezionisti di stranezze e preferisco
pensare che quelle lezioni in cui parliamo della stregoneria azande o
del cannibalismo azteco possano aiutare gli studenti e le studentesse a
capire meglio il mondo dove loro vivono.
Un mondo che, ormai è chiaro, si sta di nuovo dividendo in qui
domestici e lì variamente inaccessibili ancora per molto tempo e che ci
costringerà a realizzare un salto culturale, tipico dei momenti di mutamento
sociale ed economico come quello che si prospetta. Ecco, io credo che il mio
mestiere sia anche portare, per come posso, il contributo della mia disciplina nella
comunicazione non specialistica, per sostenere l’intera cittadinanza, di
nuovo, senza prosopopee, come un idraulico a cui racconti che la caldaia
perde e lui prova, per quel che ci capisce, a darti una mano perché lui, quelle
cose, le sa.
Cosa sa l’antropologia? Sa che la realtà sociale è
intessuta di una fibra simbolica condivisa che non si può
trascurare, che è costitutiva di quella realtà sociale quanto il modo
di produzione, le forme dello scambio, le strutture del potere
costituito, il complesso biologico e chimico della materia, le inclinazioni
caratteriali e le determinazioni genetiche degli individui e dei
gruppi. Non c’è nessun altro che parla di questa rete simbolica sociale
(gli psicologi ovviamente parlano di quelle individuali e dei loro intrecci
sociali) con una competenza professionale adeguata (e molto spesso anche
noi antropologi siamo molto poco adeguati, quanto a competenza, lo so).
Ma se il Coronavirus distrugge i ritmi della vita quotidiana,
io credo che sia necessario dirlo e raccontarlo, anche
alla radio, con le nostre competenze antropologiche, che ci ricordano che
il tempo è costruito attraverso la condivisione di rituali, ciclicità
di diverso spessore sempre gestite collettivamente (i ritmi privatizzati
del tempo si chiamano nevrosi).
Se il Coronavirus frantuma la capacità di aspirare,
cioè di prospettare e progettare un futuro, io credo che questo impoverimento
culturale vada raccontato, anche in un numero di Vita, una
densissima rivista del Terzo settore.
Non certo spiegato, per l’amor di Dio, non siamo in grado di produrre teorie
esplicative di nulla, come antropologi, ma raccontato, portato cioè
alla coscienza collettiva per guardarlo e capire, poi, insieme, cosa
farci.
Se il Coronavirus sembra entrare come un cuneo potente a spezzare
ulteriormente il tessuto di pratiche che tiene assieme le generazioni
(i nonni non cucinano più per i nipoti; gli orfani adulti non hanno
potuto seppellire i loro morti) io credo che anche questo vada raccontato,
anche all’estero, alla radio (qui c’è l’audio,
qui invece trovate la trascrizione e la traduzione
in italiano) o per
iscritto, in un blog divulgativo che però racconta il tema complicato del
rapporto tra coronavirus
e mobilità, con la nostra sensibilità e con la nostra strumentazione
analitica.
Raccontato, quindi: non vezzeggiato nei nostri tic
lessicali, nei nostri argomenti esoterici da spacciare dal pulpito del prossimo
convegno per iniziati; non ora, almeno, non su quel che sta succedendo. Come scienza
teorica l’antropologia è morta (evviva; io credo anzi che la buona
antropologia non sia mai stata teorica in quel senso) ed è ora che cominci sul
serio a pensarsi come scienza sociale; sociale nel senso che ha una funzione
sociale da svolgere, prima che una teoria sociale da elaborare. Come
quelli che scrivono i software GSM con i quali ci orientiamo; oppure quelli
che fabbricano i tappetini con le bolle antiscivolo da mettere sul fondo
delle vasche da bagno nelle case degli anziani: non sarà il massimo della
creatività, ma fanno un lavoro importante perché utile, e
chiunque sia fragile sa quanto basti poco per dare un vero aiuto.
Abbiamo bisogno di un bagno di umiltà e di franchezza:
non sappiamo spiegare nulla (come un critico letterario non ti potrà mai
spiegare perché Leopardi ha scritto L’infinito) ma forse abbiamo qualche
strumento per capire, e aiutare a capire (come un critico ti porta
dentro la comprensione de L’infinito, se sa fare bene il suo mestiere, e
quel che era fuori di te, appeso a un muro o dentro una biblioteca, diventa
parte della tua vita consapevole grazie al contributo di quella lettura).
Per questo continuiamo,
con i meravigliosi membri del LaPE - Laboratorio di Pratiche Etnografiche,
a fare le dirette quando possiamo, per come possiamo. Non tutto riesce,
non sempre le mie domande sono adeguate, ma ci proviamo, e continueremo
a farlo.