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giovedì 9 aprile 2020

Perché parlare è importante anche quando costa fatica


Alla fine del modulo base di antropologia culturale, da molti anni chiedo agli studenti e alle studentesse di comporre una tesina finale, un piccolo esercizio di seimila battute al massimo in cui gli strumenti appresi durante il corso (teorici e metodologici) vengono applicati a un oggetto da loro già conosciuto, che ora viene visto da una prospettiva nuova (possibilmente antropologica…), inedita soprattutto per chi ci ha lavorato costruendola. Abbiamo, per esempio, imparato cosa sia la “cultura” in senso antropologico, la “triangolazione complessa”, o la “antropopoiesi” o cosa intendiamo dicendo che la cultura è “appresa” o “condivisa”, o in che senso diciamo che la parentela è una “costruzione sociale”. Si tratta di una cassetta degli attrezzi limitata (l’esercizio è condotto per un modulo introduttivo di 30 ore) ma è molto interessante vedere i risultati. In questa cartella, chi vuole può leggere una ventina dei molto più numerosi esempi che ho selezionato in questi ultimi anni. Non sono tutti i migliori, l’accumulo di tesine da leggere spesso mi costringe alla fretta e alla trasandatezza, e nella cartella generale (non la selezione casuale che ho qui incluso) ho raccolto soprattutto tesine esemplari, che possano cioè servire da guida per chi non ha idee, tralasciando per forza le stesure più pirotecniche, troppo lunghe, troppo azzardate, troppo creative per funzionare da modello standard.
Uso questa strategia da molti anni, perché credo che l’antropologia come sapere specialistico abbia da tempo esaurito la sua funzione originaria (che era documentare le vestigia delle culture “altre”, lontane nell’esotismo o vicine nelle campagne) e debba accettare di essere una scienza sociale per la cittadinanza in generale, come la sociologia, l’economia e la psicologia e come queste possa mantenere una professionalità solo a patto di rendersi disponibile, con esclusivo spirito di servizio, per contribuire alla crescita delle comunità dove produce il suo sapere. Io, cioè, parlo ancora di Macedonia, di carcere o di Bangladesh, ma mi interessa poco (proprio poco, ribadisco) istruire dei giovani collezionisti di stranezze e preferisco pensare che quelle lezioni in cui parliamo della stregoneria azande o del cannibalismo azteco possano aiutare gli studenti e le studentesse a capire meglio il mondo dove loro vivono.
Un mondo che, ormai è chiaro, si sta di nuovo dividendo in qui domestici e variamente inaccessibili ancora per molto tempo e che ci costringerà a realizzare un salto culturale, tipico dei momenti di mutamento sociale ed economico come quello che si prospetta. Ecco, io credo che il mio mestiere sia anche portare, per come posso, il contributo della mia disciplina nella comunicazione non specialistica, per sostenere l’intera cittadinanza, di nuovo, senza prosopopee, come un idraulico a cui racconti che la caldaia perde e lui prova, per quel che ci capisce, a darti una mano perché lui, quelle cose, le sa.
Cosa sa l’antropologia? Sa che la realtà sociale è intessuta di una fibra simbolica condivisa che non si può trascurare, che è costitutiva di quella realtà sociale quanto il modo di produzione, le forme dello scambio, le strutture del potere costituito, il complesso biologico e chimico della materia, le inclinazioni caratteriali e le determinazioni genetiche degli individui e dei gruppi. Non c’è nessun altro che parla di questa rete simbolica sociale (gli psicologi ovviamente parlano di quelle individuali e dei loro intrecci sociali) con una competenza professionale adeguata (e molto spesso anche noi antropologi siamo molto poco adeguati, quanto a competenza, lo so).
Ma se il Coronavirus distrugge i ritmi della vita quotidiana, io credo che sia necessario dirlo e raccontarlo, anche alla radio, con le nostre competenze antropologiche, che ci ricordano che il tempo è costruito attraverso la condivisione di rituali, ciclicità di diverso spessore sempre gestite collettivamente (i ritmi privatizzati del tempo si chiamano nevrosi).
Se il Coronavirus frantuma la capacità di aspirare, cioè di prospettare e progettare un futuro, io credo che questo impoverimento culturale vada raccontato, anche in un numero di Vita, una densissima rivista del Terzo settore. Non certo spiegato, per l’amor di Dio, non siamo in grado di produrre teorie esplicative di nulla, come antropologi, ma raccontato, portato cioè alla coscienza collettiva per guardarlo e capire, poi, insieme, cosa farci.
Se il Coronavirus sembra entrare come un cuneo potente a spezzare ulteriormente il tessuto di pratiche che tiene assieme le generazioni (i nonni non cucinano più per i nipoti; gli orfani adulti non hanno potuto seppellire i loro morti) io credo che anche questo vada raccontato, anche all’estero, alla radio (qui c’è l’audio, qui invece trovate la trascrizione e la traduzione in italiano) o per iscritto, in un blog divulgativo che però racconta il tema complicato del rapporto tra coronavirus e mobilità, con la nostra sensibilità e con la nostra strumentazione analitica.
Raccontato, quindi: non vezzeggiato nei nostri tic lessicali, nei nostri argomenti esoterici da spacciare dal pulpito del prossimo convegno per iniziati; non ora, almeno, non su quel che sta succedendo. Come scienza teorica l’antropologia è morta (evviva; io credo anzi che la buona antropologia non sia mai stata teorica in quel senso) ed è ora che cominci sul serio a pensarsi come scienza sociale; sociale nel senso che ha una funzione sociale da svolgere, prima che una teoria sociale da elaborare. Come quelli che scrivono i software GSM con i quali ci orientiamo; oppure quelli che fabbricano i tappetini con le bolle antiscivolo da mettere sul fondo delle vasche da bagno nelle case degli anziani: non sarà il massimo della creatività, ma fanno un lavoro importante perché utile, e chiunque sia fragile sa quanto basti poco per dare un vero aiuto.
Abbiamo bisogno di un bagno di umiltà e di franchezza: non sappiamo spiegare nulla (come un critico letterario non ti potrà mai spiegare perché Leopardi ha scritto L’infinito) ma forse abbiamo qualche strumento per capire, e aiutare a capire (come un critico ti porta dentro la comprensione de L’infinito, se sa fare bene il suo mestiere, e quel che era fuori di te, appeso a un muro o dentro una biblioteca, diventa parte della tua vita consapevole grazie al contributo di quella lettura).
Per questo continuiamo, con i meravigliosi membri del LaPE - Laboratorio di Pratiche Etnografiche, a fare le dirette quando possiamo, per come possiamo. Non tutto riesce, non sempre le mie domande sono adeguate, ma ci proviamo, e continueremo a farlo.