E poi, da molto tempo Amanda ha imparato a chiamare le tartarughe, a nominarle. Solo che le ha nominate decidendo lei come. La canzone di Bruno Lauzi (chi non la conosce?) parla di una tartaruga che impara a sue spese a non andare troppo veloce. Tra una strofa e l'altra c'è il classico pooo-popopò-pooo-popopò-pooo-popo-popò e da allora in poi po-po-po è diventata la parola che Amanda ha deciso significasse "musica" per cui ancora adesso (quasi un anno e mezzo) quando la mettiamo sul seggiolino in macchina pretende "po-po-po" per sopportare la tortura dell'imbracatura e la noia di restare immobile. Credo che sia partito da questa premessa il percorso battesimale della tartaruga. Nel corso della prima strofa, la tartaruga "che cosa mangerà / chi lo sa? Chi lo sa?". Anzi lo sappiamo benissimo: "due foglie di lattuga /poi si riposerà / a-a-a! a-a-a!". Bene, se "po-po-po" è la musica, ergo "a-a-a" è la tartaruga, e infatti Amanda chiama la tartaruga con questa triplice vocale ritmata (tecnicamente mi pare di poter dire che fa precedere la vocale da un piccolo colpo di glottide, che dà al tutto uno spessore sillabico nitido). Non siamo stati noi genitori a suggerirle di chiamare la tartaruga in quel modo, l'ha veramente deciso lei. Come Adamo, ha fatto come le pareva, ha battezzato la tartaruga con il suo "a-a-a" senza preoccuparsi affatto della "condivisione del segno" e di tutte le altre belle parole della semiotica. Alle prese con il linguaggio, l'ultima cosa che le è venuta in mente è stata la natura relazionale della comunicazione linguistica, la necessità di pervenire a una costruzione negoziata del segno: lei ha imposto al mondo (e alle tartarughe) il suo nome come una dittatura. Mi pare bellissimo questo rapporto vergine con il linguaggio: non chiedo in giro come si chiama quell'animale, ma io lo chiamo, io lo interpello, io lo porto all'esistenza con il mio nominarlo. Che vertigine da onnipotenza si deve provare quando si riesce ancora a ragionare così!
Ma Amanda non è sola, ha due genitori (e una sorella) che stanno sempre lì a metterla in riga, che vogliono insegnarle, che pretendono che lei impari. Dopo mesi di a-a-a in formato pupazzo, statuina, disegno, cartone animato e animale vivente, il linguaggio, tramite le relazioni sociali, ha iniziato a pretendere il conto da Amanda: non si dice a-a-a, si dice tar-ta-ru-ga.
Come si dice, Amanda?
a-a-a! Ha insistito beata, puntando il dito contro il pupazzo (statuina, disegno, cartone, animale) per portare la prova indessicale della sua competenza.
Ma il linguaggio non si arrende, insiste, è noioso fino a farti cedere. Al mio ennesimo tentativo di addomesticare la sua a-a-a, qualche giorno fa ho sentito Amanda rispondere con un groviglio di suoni che potrei trascrivere 'Unga!, che a volte diventa Kunga!
Adesso a-a-a e kunga convivono, e noi spingiamo sempre più per esiliare a-a-a, relegandola alla canzoncina, mentre tutte le altre epifanie della Ur-Tartaruga devono essere nominate kunga. Stiamo vincendo, com'è ovvio e forse com'è giusto.
Ma io penso alla a-a-a creata da Amanda, da lei voluta e amata visceralmente, e so che tra qualche mese (forse solo tra qualche settimana) non ci sarà più, sepolta dalla kunga che poco alla volta diverrà tartaruga in assetto effettivo.
Allora Amanda avrà imparato, sarà entrata con tutti noi dentro la convenzione del linguaggio, e non ricorderà più di quando chiamava le cose con il loro primo nome.
Chi scrive poesie, credo, cerca di non perdere contatto con la sua a-a-a.