Molte volte mi rendo conto che fatico a spiegare ai miei studenti (o a quelli che lo vogliono sapere) perché sono convinto che la pratica etnografica (per quanto poco "operazionalizzabile", o proprio per questo motivo) sia uno strumento di ricerca fondamentale se si vogliono capire alcuni meccanismi nascosti delle culture, e anche ora, che sto cercando di fare una ricerca sui consumi di mass media e social networks, mi trovo a dover giustificare la stramberia di un metodo che non ha metodo, e spiegare perché facendo questo lavoro tante volte vale la pena di perdere tempo. Ci sono ovviamente bellissimi libri che spiegano cos'è l'etnografia, ma in poche righe Michaels racconta concretamente (ecco: etnograficamente) perché non ci sarà mai survey che possa fornire la ricchezza di un'etnografia fatta con tutto il tempo che ci vuole:
In generale, mi sono tenuto alla larga dalle interviste. Porre domande in forma diretta è considerato estremamente maleducato secondo l'etichetta aborigena (von Sturmer 1981). Gli individui legati alla tradizione si premuniscono di assicurare che solo gli anziani autorevoli "parlano a riguardo" di questioni specifiche, così che i singoli individui, interrogati con diverse domande, diranno di non sapere nulla sull'argomento. Il ricercatore può essere indirizzato alla persona adatta, oppure semplicemente ignorato, che in termini tradizionali può essere un modo cortese per non enfatizzare la maleducazione dell'intervistatore. Ma gli anziani autorevoli, per essere tali, dimostrano la loro autorità mantenendo il controllo del dialogo pedagogico. Si viene istruiti secondo una sequenza prestabilita, che è determinata dalla tradizione e non dal desiderio del ricercatore di riempire le caselle di un questionario o di perseguire i suoi specifici obiettivi di ricerca. La maggior parte di quel che so è costituito da quello che le persone hanno scelto di insegnarmi. E quando, nella mia impazienza, ho imposto le mie domande o ho forzato alcune tematiche, le risposte che ne ho ricavato si sono rivelate inaffidabili e sospette, a prova dell'innata cortesia degli aborigeni e del loro desiderio di cooperare, rivelando più sulla natura arrogante dell'intervista che non sulle conoscenze dell'intervistato [...] La gran parte di quel che so e presento in questo rapporto mi viene dall'aver lavorato assieme agli aborigeni per tre anni e dall'aver condiviso le mie attività con loro. Si è trattato soprattutto di lavoro con i video, ma ha incluso anche battute di caccia, partecipazione a cerimoniali, commissioni varie, prendere parte alle danze comunitarie e alle assemblee (Eric Michaels, Aborigenal Invention of Television.Central Australia 1982-86, Canberra, Australian Institute of Aborigenal Studies, 1986, p. xviii).
Certo, non tutti sono aborigeni e non tutti quindi condividono questo sistema culturale, così specifico riguardo alla comunicazione. Ma il punto è proprio questo: il concetto di "intervista" è altrettanto specifico e altrettanto culturalmente determinato, nasce dentro un'ottica dell'elicitazione dell'informazione che non è sicuramente universale. Come si può pretendere di applicarla in generale come modo per raccogliere informazioni attendibili? Chiunque ha praticato l'intervista sa benissimo che la persona intervistata immediatamente cambia postura, si mette nell'ottica dell'intervistatore, cerca di "accontentarlo", il che significa che fornisce risposte quasi sempre fuorvianti.
La ricerca etnografia, invece, si fonda sullo scambio comunicativo, sulla conversazione. E una conversazione, per essere tale, ha bisogno di tempo, di molto tempo. Per questo l'etnografia è fuori moda. Per questo può offrire risultati a cui nessun altro metodo di indagine può neanche sognarsi di aspirare.
La ricerca etnografia, invece, si fonda sullo scambio comunicativo, sulla conversazione. E una conversazione, per essere tale, ha bisogno di tempo, di molto tempo. Per questo l'etnografia è fuori moda. Per questo può offrire risultati a cui nessun altro metodo di indagine può neanche sognarsi di aspirare.