Il carattere "iniziatico" del campo, più volte rilevato, spesso sarcasticamente, dai commentatori della tradizione antropologica, non è soltanto una faccenda di mito o di rito, è anche, e senza dubbio soprattutto, una faccenda di apprendimento pratico, nel senso che chi apprende impara innanzitutto facendo. Bisogna aver condotto personalmente delle interviste con una traccia prefabbricata di domande per rendersi conto di quanto gli interlocutori restino inibiti da un quadro troppo stretto o troppo unidirezionale. Bisogna essersi confrontati con numerosi malintesi tra chi fa l'indagine e chi ne è oggetto per essere capaci di individuare i controsensi che cospargono ogni conversazione di ricerca. Bisogna aver imparato a padroneggiare i codici locali di cortesia e buona creanza per sentirsi infine a proprio agio nelle chiacchierate e conversazioni improvvisate, che sono spesso le più ricche di informazioni. Bisogna aver dovuto spesso improvvisare con goffaggine per diventare poco alla volta capaci di improvvisare con abilità. Bisogna, sul campo, aver perduto tempo, tanto tempo, una quantità enorme di tempo, per capireche questi tempi morti erano necessari (Jean-Pierre Olivier de Sardan, "La politica del campo. Sulla produzione di dati in antropologia", in F. Cappelletto (a cura di), Vivere l'etnografia, Firenze, Seid, 2009, pp. 27-63; la citazione è da p. 30).
Il saggio prosegue illuminando le "quattro grandi forme di produzione dei dati" (osservazione partecipante, colloquio, procedure di censimento e raccolta di fonti scritte) e articola una riflessione magistrale sulla "politica del campo". Lo consiglio vivamente (assieme a tutto il libro di Francesca Cappelletto) a quanti hanno interessa per la metodologia di ricerca etnografica, che so oggi essere non solo antropologi.