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lunedì 28 ottobre 2019

Un invito serio per una festa sul serio



   Un amico mi diceva l’altra sera: E fattela una risata ogni tanto, Piero. 
Giusto. Ogni tanto tendo a incupirmi, anche se credo di avere le capacità di guardare al lato comico, o almeno a quello grottesco, di molti aspetti della vita. La disciplina che pratico in effetti dovrebbe aiutare ad assumere quello sguardo straniante che porta al sorriso, ma non sempre mi riesce. 
Questa volta, però, vorrei insistere sulla leggerezza, più che sulla comicità, con quello sguardo che Calvino ci ha insegnato nella sua memorabile Lezione americana. C’è una questione di cui non si parla mai, negata costantemente pur se è una delle pochissime cose che accomuna tutti gli umani, e questa questione è la MORTE. La festa di Ognissanti e la ricorrenza cattolica del 2 novembre sono l’unico barlume pubblico del nostro rapporto coi morti. Halloween no, non lo è più, come sappiamo. Ma feste dei morti ce ne sono state sempre nel nostro paese, occasioni anche semi-pagane, in cui i morti si affacciavano e i bambini imparavano la paura. Dalle parti mie allora mangiavamo “gli ossi da morto”, dei biscotti secchi, e “le fave dei morti”, delle specie di amaretti. Poco dopo arrivava san Martino, che era in effetti una cosa molto simile a Halloween dato che i ragazzini andavano in giro a fare casino sbattendo tamburi fatti coi fustini di detersivo e cantando una filastrocca in veneziano su San Martino (San Martin xe andà in sofita...) e facendosi dare qualche dolcetto dalle signore delle case lì attorno. 
L’ultima cosa a cui tengo è la “tradizione”. Mi annoia spesso la tradizione, sono decisamente a favore dell’innovazione se la tradizione è senza senso o finge di essere più vecchia di quel che è e magari è stata introdotta dalla Proloco del Comune. Ma il rapporto con i morti, no, non è una tradizione, è una necessità umana: assieme al fuoco per cucinare e al tabù dell’incesto una delle pietre miliari della comparsa dell’uomo come animale culturale. 
Non sappiamo più che farci, con i nostri morti, perché parlano un linguaggio perduto, che non vogliamo più ascoltare (anche se Tiziano Scarpa ci ha raccontato che noi parliamo grazie alle parole che ereditiamo dai morti), siamo troppo presi a fingerci vivi per avere ancora il coraggio di parlare coi morti. Questa riduzione dei morti a sacchi vuoti, questa nostra totale incapacità di relazionarci con loro è il punto più basso della crisi morale del nostro mondo. 
E l’antropologia non ce la fa a stare tutta dentro l’analisi; se non diventa prassi, almeno secondo me, non è buona antropologia. 
Quindi, arriva il 31 ottobre, il mondo finge di essere allegramente spaventato, i nostri bambini – giustamente eh – vanno fare dolcetto o scherzetto nel condominio ma a noi resta un senso di vuoto, un’incompiutezza del tipo che hai scritto una lettera ma l’hai lasciata nel cassetto, mai spedita. 
Allorafacendomi forte della mia disciplina, con un gruppo di studenti abbiamo messo in scena una serata “rituale” di comunicazione coi morti, al polo ex Fienile di Torbellamonaca, in largo Mengaroni 29. Dalle 18.30 si possono venire ad ascoltare storie e raccontare storie.  All’ingresso gli ospiti ricevono un foglietto adesivo su cui scrivere i dati della persona che intendono ricordare quella sera. Buona parte della serata sarà dedicata ad ascoltare le voci dei morti che ciascuno vorrà portare: una poesia, un brano di un libro, un’improvvisazione, un ricordo personale, una canzone importante. Ci sarà un angolo dove raccoglieremo anche le ricette “dei bei tempi antichi”, quel che si faceva al paese di nonna per i morti. E si mangerà tutti assieme. Tor Vergata mette a disposizione gratuita un piccolo catering ma sarà bello anche condividere qualche torta rustica, qualche tramezzino, un’insalata di pasta o qualunque altra cosa si voglia portare da casa, da mangiare o bere. 

In un angolo apposito sarà possibile farsi, tramite una app messa a punto dai ragazzi del LaPE  (il Laboratorio di Pratiche Etnografiche senza il quale tutto questo non avrebbe mai potuto neppure essere concepito) dicevo farsi una foto virata seppia da affiggere su una lapide virtuale con tanto di scritta scolpita sul marmo. 
Quando avremo mangiato e ben bevuto, dopo esserci raccontati gli uni gli altri le tante storie dei nostri morti, concluderemo la serata con un piccolo rituale collettivo. Ognuno potrà scrivere un messaggio su un foglietto a una persona cara, e lo brucerà sul fuoco che avremo acceso in comune, provando, quindi, a parlare coi morti dopo tanti anni di silenzio. 
Come tutti i rituali, c’è bisogno della comunità per renderli veri. Venite a fare comunità, vi aspettiamo molto volentieri.