Da diversi anni nei miei corsi introduttivi di antropologia
culturale spiego un articolo
ormai vecchio di mezzo secolo ma ancora centrale, di un importante antropologo
americano, Clifford
Geertz, che parla di un vecchio mercante ebreo del Marocco intento
a raccontare all’americano una storia che gli era capitata quand’era giovane, a
inizio Novecento. Il mercante, Cohen, aveva ricevuto a casa due
potenziali clienti e quindi, come loro ospite, era responsabile della
loro incolumità e del loro benessere, come vuole tutta la tradizione mediterranea
dell’ospitalità.
Per una leggerezza dovuta probabilmente alla giovane età e
all’inesperienza, Cohen lascia entrare nella sua casa alcuni predoni
berberi che sgozzano i suoi clienti e gli devastano la casa-negozio. Scampato
alla morte, Cohen ha come unico obiettivo quello di recuperare il suo ’ar,
vale a dire, traduce Geertz, il suo “onore”. Non mi dilungo molto con
gli studenti sul senso culturale di questo concetto, perché siamo tutti
mediterranei in classe (tranne qualche studente cinese che seguo a parte,
diciamo). E poi Cohen è impressionante per come si dà da fare, con i
colonizzatori francesi, con il suo vecchio sceicco, con i concittadini e poi
direttamente con i predoni, per avere indietro il suo ’ar, che è poi
la sua faccia pubblica, la sua dignità riconosciuta, senza cui non potrebbe mai
più fare il suo lavoro di mercante.
Leggendo il testo, il significato culturale di ’ar
è tutto “performato” come si dice oggi con un brutto ma efficace
anglicismo, secondo la teoria per cui il significato di un segno è tutto nell’uso
che se ne fa. Uno, insomma, finisce l’articolo avendo capito cosa
sia l’onore in quel contesto senza bisogno di definizioni, ma solo grazie alla
forza del racconto.
Ecco, dal prossimo anno, quando vorrò introdurre il concetto
di ’ar, dirò ai miei studenti di pensare a come si è mossa in questi
dieci anni Ilaria Cucchi, che ha sfidato un mondo
senza dignità per salvaguardare la sua, di sorella di un uomo morto
ammazzato che mai avrebbe avuto giustizia altrimenti.
E a tutti i capetti e agli indignati di questo
e di quello, che si riempiono la bocca di “onore”, “dignità” e “vergogna” e altri
paroloni dico chiaro, da antropologo: piantatela di definirvi, e cercate
piuttosto quello che siete in quello che fate, per dare vera sostanza
di carne alle belle parole di cui vi ammantate. Guardate come Ilaria Cucchi
ha resistito a dieci anni di infamità, a dieci anni di parole
vergognose, sempre spinta da un’unica motivazione, ridare dignità al cadavere
sfigurato del fratello. Quello è l’onore: nei gesti misurati
con la mitezza di chi non ha nulla da perdere perché non si batte per
una battaglia solo sua; nelle parole precise come metri di titanio; nelle
azioni perseverate per arrivare alla verità. Figuratevi, nel
terzo millennio, una donna che ancora si incaponisce con questo vecchio
concetto di “verità”, e per di più per ragioni di “onore”. Dev’essere
una pazza idealista. Dev’essere una donna. Dev’essere una sorella che ha capito
che è dentro queste battaglie che si misura la nostra civiltà.