Trovo del tutto inadeguato (e a tratti sconfortante)
il modo in cui si sta cercando di spiegare o raccontare il cosiddetto movimento
delle sardine perché, finora, quel che ho letto sono solo spiegazioni di ordine
politico, nel senso peggiore del termine. Cioè, tranne rarissime
eccezioni, la modernità occidentale ha vissuto “la politica” in chiave weberiana
normativa, vale a dire come una sfera del sociale che deve staccarsi
e autonomizzarsi da tutte le altre (l’economia, la religione, la
parentela, le relazioni sociali, l’arte, il diritto e così via). Secondo questo
principio “La politica” è l’arte di gestire la cosa pubblica per il bene
comune o per il bene della propria parte, secondo forme concordate di competizione
per risorse che sono concepite come limitate. I politici, dunque, sono
prima di tutto degli economisti politici, orientati alla massimizzazione
dei vantaggi per la loro parte, vantaggi che sono di ordine anche simbolico (essere
“onorevole”, cioè letteralmente degno di onore) ma che fondano questo
simbolico su un ordine pratico (posti di lavoro, impiego delle risorse,
alleanze con altre parti del corpo sociale).
Applicata al caso delle sardine, questa lettura non arriva
da nessuna parte, dato che le sardine non stanno diventando tali su questa base
razionale dell’agire politico, e si muovono piuttosto lungo una concezione
non più moderna (chi vuole la chiami postmoderna, io preferisco parlare
di concezione classica) della politica e dell’agire politico. Secondo questo
modello classico (Lévi-Strauss parlava di pensiero selvaggio, che non è
il pensiero “dei selvaggi”, ma il pensiero che si condensa secondo logiche
simboliche o mito-logiche) fare politica è prima di tutto,
etimologicamente, dichiarare la propria provenienza, lo spazio
della polis che simbolicamente si occupa come “noi”, contrapposto a “loro”.
La politica delle sardine è una politica delle definizioni,
delle appartenenze, e io ritengo del tutto non casuale che il fenomeno
prenda forma secondo una categorizzazione di tipo totemico (le sardine,
oggi rinforzata dai gattini di Salvini). È su questo piano che diventano
importanti i tecnicismi dell’antropologia culturale, la scienza sociale più
attrezzata per inseguire i percorsi simbolici di questa concezione della
politica.
Le appartenenze, nel lessico della mia disciplina, si
organizzano lungo un duplice asse, producendo quindi un piano delle identità.
Lungo un asse c’è la categorizzazione, vale a dire il quadro delle
classificazioni: quello che si dice che gli altri siano. Lungo l’altro
asse c’è invece l’identificazione, quello che si dice che noi si
sia. Ho usato la forma impersonale “si dice” perché in questo gioco
classificatorio è centrale sapere/capire se il soggetto (che categorizza o si
identifica) è un “noi” o un “loro”. Ci sono, in pratica, quattro possibili combinazioni:
1.
quello che noi diciamo di essere
2.
quello che noi diciamo che gli altri
sono
3.
quello che gli altri dicono di essere
4.
quello che gli altri dicono che noi
siamo
Le fazioni politiche ovviamente si occupano di tutte e
quattro queste posizioni, ma è anche possibile utilizzare questa matrice
per una sorta di tipologia approssimativa delle aggregazioni politiche.
Storicamente, i partiti politici canonici sono una
forma di 1.: conta quello che noi partito diciamo di essere, il partito
dei lavoratori, il partito della borghesia, il partito dei contadini. Invece 3.
configura il riconoscimento interpartitico: un tavolo canonico è un
tavolo dove si siedono tanti 1. che si accettano reciprocamente secondo
il principio che 3. è vero per ciascuno, cioè che ciascuno si identifica
con quel che vuole. Noi siamo il partito dei lavoratori e sappiamo che dall’altra
parte del tavolo c’è il partito della borghesia imprenditoriale, per esempio.
Il problema è che la politica non funziona senza 2. e 4.,
cioè le categorizzazioni, sia nostre nei confronti di loro, sia loro nei
confronti nostri. Non siamo cioè gli unici deputati a definirci e di
fatto l’identità collettiva è la risultante di un gioco (politico,
appunto) di categorizzazioni dall’esterno (quelli sono schiavi negri,
dicevano in Luisiana nella prima metà dell’Ottocento guardando un campo di
cotone) e di identificazioni dall’interno (Black is beautiful
hanno iniziato a dire i neri dei ghetti urbani nell’America degli anni Sessanta).
Mano a mano che venivano meno le determinanti sociali della composizione
in grandi classi e che la struttura sociale si complessificava con l’uscita
dalla fabbrica come standard produttivo e dalla nazione
come modello di appartenenza, ecco che 2 e 4 hanno assunto una rinnovata
predominanza. I “partiti leggeri”, i “movimenti” di vario tipo che hanno
infestato la politica pubblica italiana sono tentativi di dare la precedenza a
2 e 4. Si pensi a come Forza Italia e il MoVimento 5 Stelle siano (stati?)
prima di tutto aggregazioni politiche attorno a 2: l’anticomunismo di
Berlusconi (Comunishti!, il PCI-PDS-DS! la Sinistra brandita come spauracchio
per il panico collettivo) e l’anti-politica della genesi e del
consolidamento grillino (La Casta, i Poteri Forti, perfino Big Pharma) sono forme
di aggregazione attorno a un noi sostanzialmente vuoto, che è tale principalmente
perché è definitorio dell’Altro, perché insiste a produrre l’altro.
In questa trappola anti-X sono caduti i Girotondini e
il Popolo Viola, che hanno costruito un sentimento definitorio speculare
nell’antiberlusconismo professionalizzato e sistematico: noi siamo
quelli che pensano che Berlusconi faccia schifo.
Ecco, io dico che le sardine non puntano a 2, ma contestano
il 4 salviniano. NON aggregano attorno a una negazione dell’altro, ma si
consolidano attorno alla negazione di quel che l’altro categorizza come noi.
Le sardine sono diverse dai girotondini perché non sembrano (per ora) avere obiettivi
politici a corto raggio (com’erano l’incriminazione di Berlusconi, le
sue dimissioni, i processi e la lotta a Mediaset per i movimenti precedenti) e
puntano tutto nel dire “noi non siamo come tu ci categorizzi”. Salvini,
è evidentissimo, costruisce tutta la sua strategia politica su un 4 mascherato
da 2, cioè un discorso in terza persona sull’italianità: gli italiani
sono spaventati, sono incazzati, sono sospettosi della
diversità, sono sanamente egoisti, vogliono ordine e disciplina.
Tutta la sua comunicazione ha una funzione primariamente
pedagogico-identitaria: vieni qui bello, ti spiego io quello che pensi: tu
sei pieno di livore e paura, tu sei insicuro e frustrato, tu
sei infelice e incazzato. Dice così, Salvini, perché il sottotesto è: e
allora vota me che ti risolvo tutti i problemi perché so di chi è
la colpa.
Ecco, le sardine NON accettano questa
categorizzazione salviniana dell’italianità, e su basi esclusivamente simboliche
(i disegnini, le sardine, l’occupare piazze con aria festosa) stanno negando la
versione utilitaristica della politica (cosa ci guadagno a fare la
sardina, in pratica? Nulla) ma stanno risemantizzando la funzione simbolica
del politico (Noi non siamo come tu pretendi di descriverci). Ecco, io credo
che questo sia un vaffa che vale la pena di inseguire, perché è un
vaffa del 4, non un’ossessione del 2. È un gesto primigenio di
rifiuto, anarcoide, speranzoso, decisamente non violento, non
incazzato per definizione, perché contesta proprio con il sorriso la
versione lugubre di questo paese che sempre più spesso la destra
professionista pompa per lucrarci sopra. L’ho già detto: non ci avrete mai,
nel senso che non riuscirete mai a imporre su di noi la vostra immagine schifosa
di un paese che non ci somiglia. Neanche un po’.