Abbiamo iniziato la lezione ricordando i due
punti raggiunti finora: la cultura è APPRESA,
e la cultura è SIMBOLICA. Dovremo quindi
oggi chiederci in modo esplicito se la cultura sia anche CONDIVISA secondo quel
che ci sembra ovvio quando pensiamo ai gruppi, alle etnie, alle nazioni (ci
sono un Francese, un Tedesco e un Italiano…)
[MINUTO
05:00] Abbiamo però prima ripreso la questione della nascita
dell’antropologia (e delle scienze sociali) e il mutamento che l’antropologia
ha attraversato negli ultimi settant’anni.
Siamo quindi partiti dalla MODERNITÀ come il superamento
progressivo di una concezione del potere come emanato da un centro e irraggiantesi
il più lontano possibile da quel centro con intensità sempre minore, fino a sovrapporsi
all’influenza di un altro centro di potere. Questa concezione “a mandala” del
potere come gioco geometrico di centri che inglobano centri minori
in costante mutamento è stata progressivamente sostituita proprio
nel passaggio della modernità da una concezione invece del nuovo potere dello
STATO NAZIONALE, che si esercita nel modo
più uniforme possibile in tutte le porzioni di spazio controllate.
Questa geometrizzazione dell’appartenenza (si è sempre più chiaramente o
francesi o italiani, a seconda di dove cada il confine, ora; con margini sempre
più ridotti per appartenenze ibride) produce modifiche anche sulla concezione
di SOGGETTO e
INDIVIDUO: come gli stati perdono la loro
permeabilità, anche i soggetti si fanno IN-DIVIDUI, vale a dire compatti
e separati, (in-dividuo in greco è a-tomo). Questa concezione del
soggetto è in gran parte nuova, e abbiamo accennato a MARYLIN STRATHERN,
antropologa britannica che ha lavorato in Melanesia, e che parla di “dividuo”
per intendere proprio un soggetto la cui identità non è ristretta nel suo
proprio corpo, ma è sentita come condivisa tra più soggetti, in
particolare quelli collegati attraverso forme sentite come naturali di
appartenenza, come “la parentela” (tema su cui avremo molto modo di
tornare nelle prossime lezioni).
Così attorno all’idea di modernità si
coagula una nuova concezione del potere statale, della psicologia dell’individuo,
del mercato come spazio autoregolato gestito da attori anonimi: la filosofia
politica, la sociologia, la psicologia e l’economia
nascono proprio per fare i conti con questo mutamento attivato dal
passaggio nella modernità.
Vista alla luce della modernità, nell’Ottocento
progressivo e in espansione tecnologica e militare, la diversità culturale
umana appare come disporsi lungo un’unica SCALA EVOLUTIVA,
con il nord bianco posto nel presente e tutte le altre culture, verso Est e
verso Sud sempre più relegate in un altrove spaziale che diventa un PRECEDENTE
CRONOLOGICO, come se i nostri contemporanei, nella misura in cui erano
percepiti come diversi, fossero anche “antecedenti” cronologicamente, residui
di un passato “barbaro” o “primitivo”. Quindi, mentre tutto il
mondo si muoveva (nella concezione ideologica della modernità che stiamo analizzando)
verso un futuro dominato dalla “civiltà Occidentale” che prima di tutte
stava affrontando la crisi della modernizzazione, bisognava capire che farsene
di quelli “rimasti indietro”, nelle campagne non urbanizzate,
nelle colonie ovviamente “arretrate” e nel mondo “primitivo” ancora
sconosciuto.
In questo senso l’antropologia nasce come
scienza del RESIDUALE.
Sul piano metodologico, l’antropologia nasce
come figlia naturale del Positivismo ottocentesco, convinta che il
lavoro primario sia quello di produrre una documentazione adeguata di
mondi (rurali o esotici) segnati dal destino dell’estinzione, che vanno
quindi recuperati o almeno registrati per quanto possibile, prima che sia troppo
tardi.
[MINUTO
19.30] Per descrivere questo mondo arcaico o primitivo, si
usa il PRESENTE STORICO perché non sono considerati soggetti storici, ma
ancora naturali. JOHANNES FABIAN, Il tempo e gli altri (1983).
La crisi epistemologica di questa
visione empirica si condensa nel passaggio progressivo dell’attenzione dell’antropologia
dalle CAUSE ai SIGNIFICATI rispetto ai fenomeni studiati.
BRONISLAW MALINOWSKI
aveva descritto questo punto insistendo sul fatto che l’antropologia studia le
cose “dal punto di vista dei nativi”, non indaga cioè quali siano i
criteri universali di bellezza femminile, ma cerca di capire cosa significhi il
concetto di Ochobo per i giapponesi.
[MINUTO
27:27] La crisi epistemologica che induce a ripensare
l’oggettiva datità del mondo, ora visto sempre più nitidamente come una rete
di significati da districare con pazienza e umiltà, si accompagna nel secondo
dopoguerra anche a una crisi politica fortissima: la tragedia degli
stermini di massa, le sacrosante lotte per l’indipendenza di molte colonie e il
ripensamento delle gerarchie sociali e di genere dentro le culture Occidentali
impongono un cambiamento radicale (nel doppio senso di fondamentale, ma
anche profondamente antagonistico) dei modi canonici di condurre la
ricerca sociale.
Si contesta il canone del sapere ricevuto,
si ipotizzano MODERNITÀ MULTIPLE, vale a
dire percorsi peculiari verso la modernità, che non seguono necessariamente il
modello della secolarizzazione+libero mercato+democrazia parlamentare,
ma che trovano, ad esempio anche sbocchi nel FONDAMENTALISMO
come esito paradossale di un percorso alternativo verso la modernità.
[MINUTO
30:55] A questa crisi che è epistemologica
(cosa crediamo di sapere), metodologica (come
possiamo arrivarci) e politica (che cosa ci facciamo
con quel sapere) l’antropologia risponde in vari modi, ma soprattutto comprende
che il suo ruolo non è necessariamente relegato ai margini della modernità. L’antropologia
diventa così lo studio della costruzione simbolica dei sistemi di
valore, e diventa ad esempio antropologia URBANA e DELLA CONTEMPORANEITÀ.
Nei saggi di FABIO DEI e UGO
FABIETTI che abbiamo aggiunto nelle letture (file 007 e 008) si parla di
questo mutamento del metodo e del senso profondo della nostra disciplina.
[MINUTO
37:55] Un rapido accenno alla DIFFERENZA tra FILOSOFIA e ANTROPOLOGIA, partendo dalla sintesi che ne ha
dato TIM INGOLD: L’antropologia è filosofia con la gente dentro.
[MINUTO
44:20] iniziamo davvero ad affrontare la questione centrale
di questa lezione, cioè quanto e in che senso la cultura sia condivisa.
L’abbiamo fatto partendo da uno spezzone di un documentario che ho realizzato
anni fa (con la regia dell’allora mio studente Federico Gnemmi, che ha
fatto la sua tesi realizzando questo video). Si vede una anziana signora trasteverina
che racconta quando il suo quartiere sia cambiato.
Questo video iniziale (spero prima o poi di
poterlo montare online in qualche modo) ci consente di introdurre proprio la questione
dell’appartenenza e della compresenza della diversità, confrontando la
vita della signora Giuliana con quella di suo nipote ventenne e con quella di
una ipotetica signora ucraina che fa la badante in una casa dello stesso
quartiere: quale vita somiglia più a quale altra? La comune appartenenza
nazionale e addirittura un legame diretto di parentela sono garanzie di
somiglianza tra le persone? Viceversa, la diversità di nazionalità è una condizione
sufficiente per ipotizzare senza verifiche una differenza abissale tra due
persone?
Il modo in cui ci aggreghiamo, in
cui ci sentiamo parte di un gruppo, sono le più varie e non è facile stabilire
a priori quali siano le variabili che ci fanno sentire parte di quel
gruppo. In questo video, l’identità
collettiva, cioè il senso di condivisione, è ben raffigurata nella
sua complessità, e comprendiamo che non dovrebbe essere ridotta a una o due
variabili, ma dovrebbe essere compresa nella sua costante mutevolezza.
Noi tendiamo a pensare “spontaneamente” (in
realtà dipende da due fattori determinanti) che tutte le culture
si possano suddividere in modo che tutti i membri di una specifica
cultura siano nettamente distinti da tutti i membri di qualunque
altra cultura, e che tra loro non vi siano sovrapposizioni.
In realtà, questa fantasia del CONFINE NETTO tra noi e loro dipende proprio dalla
necessità di dare solidità cognitiva al mondo che ci circonda, e uno dei mezzi
più efficaci che la cultura ha trovato per fare questo (non ti preoccupare,
il mondo è proprio così, come lo vedi “naturalmente”, e soprattutto è sempre
stato così, per noi) è insistere sul concetto di TRADIZIONE, sull’idea cioè che quel modo di essere o fare è radicato
nella profondità storica e la sua origine si perde nella notte dei
tempi.
In verità, sappiamo che questa dimensione tradizionale
ha sempre una componente ideologica, è insomma anche una costruzione,
volta proprio a garantire valore morale e psicologico per quelle cose
tradizionali. Esempi [MINUTO
58:40] del tè inglese, della pasta col pomodoro italiana e della nduja
calabrese. Riferimento a ERIC HOBSBAWM e TERENCE RANGER, L’invenzione
della tradizione, un libro del 1983 anche criticabile e criticato, ma
comunque un testo che ha costretto tutti a riflettere in modo nuovo sul concetto
di TRADIZIONE, non più concepita come una pratica dotata necessariamente
di una profondità storica, ma piuttosto una pratica socialmente condivisa che è
stata assunta come tale, vale a dire come propria del gruppo che
la pratica anche se la sua introduzione può essere relativamente recente.
[MINUTO
1:10:20] Questi processi di patrimonializzazione,
di riconoscimento di tradizioni, sono essenziali per individuare le appartenenze,
che non sono incluse una nell’altra come scatole cinesi, ma si incrociano
a diversi livelli. Dobbiamo insomma sempre avere chiarezza del fatto che l’identità
è sempre la risultante di un incrocio tra IDENTIFICAZIONE INTERNA, cioè il modo in cui definiamo noi
stessi, e la CATEGORIZZAZIONE ESTERNA (cioè il modo in cui classifichiamo “gli
altri”).
[MINUTO
1:16:50] questo ci deve rendere consapevoli che
quando diciamo che “la cultura è condivisa” stiamo dicendo una cosa molto complicata
dal punto di vista oggettivo, dato che la condivisione è sempre dipendente
dall’interrelazione, da quanto cioè le persone che “da fuori”
categorizziamo come appartenenti allo stesso gruppo (“gli extracomunitari”) al
loro interno possono essere i portatori di una complicatissima varietà
che non si riconosce affatto nell’etichetta che noi abbiamo dato loro. I gruppi
culturali e anche le culture in generale sono flussi magmatici che si
muovono nel tempo e nello spazio, e che in determinati tempi e
determinati luoghi noi tendiamo a vedere come statiche, come se
facessimo una fotografia di una fiume in movimento e poi chiamassimo quell’onda
la cultura X e quell’altra la cultura Y.
[MINUTO
1:23:55] Vi è quindi una tendenza generale a SOVRASTIMARE
LA CONDIVISIONE CULTURALE, ci viene facile pensare che gli italiani siano mediamente
molto diversi dagli ucraini e che quindi, prendendo un italiano a caso (la
signora Giuliana) e un ucraino a caso (la badante di Trastevere) ci troveremo
di fronte a differenze comunque maggiori che non tra due italiani o due
ucraini qualunque. Questa sovrastima, come anticipavamo all’inizio, dipende da due
fattori:
1. Il primo è già stato indicato ed è proprio
la nostra necessità di affidarci, in quanto animali culturali, a schemi
e filtri che ci consentano di ridurre in formato maneggevole le troppe sollecitazioni
cognitive del mondo in cui siamo immersi. Non possiamo tener conto di tutto,
tracciare tutto, cercare di capire tutto, e quindi necessariamente tagliamo fuori
dal nostro interesse quel che non ci pare consono, adeguato, “normale”, oppure
lo etichettiamo come pericoloso, ponendolo in rilievo. L’evitazione
produce quindi la tendenza a marcare enfaticamente dal punto di vista
cognitivo ciò che è diverso, per produrre specularmente una sorta di ottundimento
cognitivo, con cui diamo per assodato che attorno a noi le “solite” percezioni
siano sempre più o meno le stesse, e quindi sottovalutiamo percettivamente
e cognitivamente differenze che altrimenti dovremmo riconoscere.
2. Il secondo motivo è invece di ordine politico:
negli ultimi duecento anni sempre più umani sono cresciuti dentro lo spazio
dello stato nazionale dato come scontato, e lo spazio nazionale, per
ragioni che non possiamo riassumere in questa lezione ma che abbiamo affrontato
nel saggio inedito Dal punto di
vista dei nazionalisti, è uno spazio sociale che pretende l’uniformità
interna, e quando (come sempre) non la trova, semplicemente inizia a lavorare
(in un processo di costruzione della nazione) per produrla, un tema importante su
cui spero potremo tornare in una sintesi video che conto di pubblicare a breve,
una bonus track per questa lezione.