Nei primi minuti della lezione abbiamo anticipato
quel che dovremo dire sul ruolo del NAZIONALISMO nell’intensificare la
convinzione (per altro indotta proprio dal nostro rapporto cognitivo con il
mondo, per via della forma peculiarmente incompleta del nostro cervello e della
sua capacità di relazionarsi con il mondo) che la CULTURA È CONDIVISA. Abbiamo
detto che riprenderò questo punto importante con una lettura extra, connessa proprio
alla lezione 06 (CONDIVISA DE CHE? CULTURA, APPARTENENZA, DIFFERENZA) e che
caricherò appena sarà pronta.
[MINUTO
05:46] Poi ho aggiunto un’ulteriore promessa, che cioè dovrò
tornare sulla parte teorica del saggio di Geertz sulla THICK DESCRIPTION e
proverò a trovare il tempo per discutere una lunga serie di slide che ho
dedicato a quel saggio, così centrale per capire cosa sia diventata l’antropologia
culturale come scienza del simbolico (dopo essere nata come scienza dell’altro
e dell’altrove, una specie di scienza del primitivo e del rurale, come
ricordate).
[MINUTO
07:50] Da questo punto inizia la presentazione del saggio Gli
usi della diversità, un saggio molto importante che ho cercato di spiegare
in dettaglio rispetto all’idea di fondo che lo sostiene, che è in sostanza che L’ETNOCENTRISMO non
aiuta certo la convivenza, non HA ALCUNA LEGITTIMAZIONE MORALE e non è
affatto un COMPORTAMENTO NATURALE. Dopo aver detto alcune cose sulla biografia
di Geertz, parlo rapidamente [minuto 23:30] di un
pezzo del mio blog in cui indirettamente mi sono trovato a citare questo
saggio, in una polemica con ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, che in un suo
editoriale sul Corriere
della Sera del 20 gennaio 2020 aveva giustificato l’etnocentrismo
(distinguendolo dal RAZZISMO) sulla base di un vecchio saggio di CLAUDE LÉVI-STRAUSS
(il più influente antropologo del secondo dopoguerra) che proprio Geertz aveva
criticato in questo saggio che stiamo per leggere. Ricopio qui di seguito una
mia sintesi di molti anni fa, che so può essere utile per guidare la lettura (Faccio
solo notare che i rimandi alle pagine si riferiscono all’edizione che qui
commento e che non è la stessa, come impaginazione, di quella assegnata agli
studenti e alle studentesse del corso, che dovranno semmai trovare le pagine corrispondenti
nell’edizione a loro disposizione).
GUIDA ALLA LETTURA DI “GLI USI DELLA
DIVERSITÀ”, DI CLIFFORD GEERTZ, [1994, IN R. BOROFSKY (ED.), ASSESSING CULTURAL
ANTHROPOLOGY, MCGRAW-HILL, PP.454-467]
1) LE
DUE STRADE DELL’ANTROPOLOGIA L’antropologia si è
sempre mossa tra universalità e particolarità, tra generalizzazione e
idiosincrasia: “strutture e archetipi” da un lato, “cavoli e re” dall’altro
(71).
2) OMOGENEIZZAZIONE
CULTURALE E LEGITTIMAZIONE DELL’ETNOCENTRISMO Oggi
molto spesso vi viene paventato il rischio dell’omogeneizzazione culturale:
finiti i cacciatori di teste, finiti i cannibali… Anche se questo di per sé non
costituisce un problema per l’antropologia in quanto disciplina scientifica, G.
nota che questa “attenuazione del contrasto culturale” (“softening of variety”)
ha prodotto una legittimazione (spesso implicita) dell’etnocentrismo da parte
di quegli stessi intellettuali (cioè antropologi e filosofi) che più di tutti
avrebbero il compito di difenderci dalle sue grinfie [L’etnocentrismo è
quell’atteggiamento in base al quale la cultura, le abitudini e i valori sono
considerati dal soggetto che li possiede naturalmente e intrinsecamente
superiori a quelli dei soggetti di altri culture: la “mia” cultura è giusta, la
“loro” è sbagliata].
3) CLAUDE
LÉVI-STRAUSS: L’ETNOCENTRISMO È UN PRESERVATIVO NECESSARIO
Il primo esempio di questo atteggiamento è preso da Lévi-Strauss, che afferma:
“per non dissolversi, [le culture] hanno bisogno che… sussista tra loro una
certa impermeabilità” (p. 73). L’etnocentrismo avrebbe quindi almeno un aspetto
positivo, nella misura in cui previene l’omogeneizzazione rendendo le culture
relativamente impermeabili le une alle altre. L’etnocentrismo, questa
prospettiva lévi-straussiana, è un preservativo che ci protegge dal virus della
globalizzazione culturale. Dato che esiste il virus, i preservativi sono utili.
“Sarebbe pertanto illusorio non soltanto pensare che l’umanità possa liberarsi
del tutto dall’etnocentrismo… se ciò accadesse, non sarebbe affatto una buona
cosa” (p. 73). Poniamoci la seguente domanda: quale concezione della cultura è
implicata da un simile apprezzamento dell’etnocentrismo?
4) IMPERMÉABILITÉ
COME UNA VIA D’USCITA TRA RELATIVISMO E ASSOLUTISMO L’impermeabilità
si rivela quindi, secondo Lévi-Strauss, un atteggiamento morale verso altre
culture: mi tengo alla larga dalle altre forme culturali per non negare la mia
propria, e soprattutto per non danneggiare la creatività insita nella mia
cultura. Secondo Geertz, questa accettazione dell’etnocentrismo attraverso il
distacco dall’altro è la conseguenza di uno stallo morale: “Non potendo
abbracciare né il RELATIVISMO né l’ASSOLUTISMO – il primo perché inibisce la
facoltà di giudizio, il secondo perché la rimuove dalla storia – i nostri
filosofi, storici e scienziati sociali sembrano optare per quella sorta di
imperméabilité dei noi-siamo-noi, voi-siete-voi raccomandata da Lévi-Strauss”
(p. 75).
5) RICHARD
RORTY: ABBIAMO BISOGNO DELL’ETNOCENTRISMO PERCHÉ ABBIAMO BISOGNO DI COESIONE
SOCIALE E SOLIDARIETÀ DI COMUNITÀ La posizione del
filosofo Rorty è leggermente differente, ma egualmente orientata a enfatizzare
gli aspetti positivi dell’etnocentrismo. Rorty è un filosofo che unisce nella
sua scrittura l’approccio ermeneutico (tedesco) e il pragmatismo (americano)
[cfr. ad esempio il suo La filosofia e lo specchio della natura, del 1979]. Ha
avuto un ruolo centrale nel diffondere un’idea di filosofia come genere
letterario che rinuncia al compito di fondare la legittimazione della
conoscenza e si accontenta di offrire una sponda intellettuale all’espressione
di simpatia e solidarietà che i membri di una comunità hanno gli uni verso gli
altri (Contingence, irony and solidarity, 1989). Questo sentimento nei
confronti della propria comunità è completamente de-teorizzato e sottratto a
qualunque implicazione di tipo universalistico (o, se è per questo, anche
relativista). All’interno di questa struttura di solidarietà coi propri simili,
le culture degli altri costituiscono nulla più che lo sfondo su cui si staglia
“la dignità relativa di un gruppo… per effetto di contrasto, per via del
confronto con altre, peggiori comunità” (cit. pp. 76-77). Insomma, la
conoscenza dell’altro è utile nella misura in cui conferma la nostra
superiorità.
6) DIFFERENZE
TRA QUESTI DUE MODI DI LEGITTIMAZIONE DELL’ETNOCENTRISMO
G. ha quindi presentato a chi legge due approcci all’etnocentrismo. Secondo il
primo (antropologico e razionale), l’etnocentrismo è utile perché preserva
l’integrità culturale, mentre per il secondo (filosofico e pragmatico)
l’etnocentrismo rafforza il sentimento di appartenenza collettiva. Uno insiste
sulle implicazioni intellettuali dell’etnocentrismo (se non ignoriamo l’altro,
non possiamo salvare la nostra specificità intellettuale), l’altro su quelle
emotive (abbiamo bisogno di disprezzare l’altro
per tenere unita la nostra comunità attraverso un senso di superiorità).
7) IL
VERO PROBLEMA DELL’ETNOCENTRISMO: SOFFOCA L’IMMAGINAZIONE
A questo punto Geertz espone il punto centrale della sua argomentazione:
“vorrei dire che una facile resa ai comfort dell’essere semplicemente noi
stessi, del coltivare la sordità e del rendere grazie per non essere nati tra i
vandali o tra gli ik, sarebbe fatale per entrambe [le discipline,
l’antropologia e la filosofia]” (p. 77).
Il vero problema dell’etnocentrismo non
sta nel fatto – dice Geertz – che ci imprigionerebbe nelle credenze e nelle
pratiche della nostra cultura e della nostra comunità (per definizione, siamo
già intrappolati nella nostra rete semiotica, e non abbiamo certo bisogno
dell’etnocentrismo a questo fine) ma piuttosto il fatto che soffoca la nostra
capacità e la nostra voglia di immaginare (afferrare, com-prendere nel primo
senso del termine) qualunque sensibilità che ci sia aliena: “…i problemi
sollevati dal fatto della diversità culturale hanno a che fare più con la
capacità di percepire alla nostra maniera sensibilità aliene, stili di vita che
non ci appartengono… e che neppure ci apparterranno, che non con la possibilità
di sfuggire al fatto che preferiamo quel che preferiamo” (p. 78).
8) RIFIUTARE
L’ETNOCENTRISMO SIGNIFICA IN PRIMA ISTANZA RICONOSCERE LA DIVERSITÀ ALL’INTERNO
DELLE NOSTRE SOCIETÀ Un’immediata conseguenza
del prendere in considerazione questo aspetto sterilizzante (e non solo
protettivo o contrastivo) dell’etnocentrismo è che si smette di pensare alle
culture o alle comunità come se fossero unità indipendenti e dai confini
nitidi. Se uno ha ancora voglia di immaginare “come sia essere un pipistrello”
(Thomas Nagel, 1974 What it is like to be a bat?), immaginare cioè la diversità
culturale, immediatamente prenderebbe consapevolezza del fatto che la diversità
non inizia lontano, lontano da “noi”, ed è invece ben all’interno di noi. Nel
momento in cui la diversità non è solo qualcosa che sappiamo che esiste ma
dalla quale ci teniamo alla larga per rimanere più aderenti ai nostri principi
(come vuole Lévi-Strauss), e non è neanche un semplice sfondo di conoscenza
peggiore e di equivoci valori morali che confermano la nostra superiorità e
unità (come vuole Rorty), ma è qualcosa che veramente ci interessa; nel momento
in cui la diversità culturale non solo uno strumento per i nostri scopi
(proteggere la mia cultura, unire la mia comunità), la sua presenza e
pervasività diventa evidente
9) LINGUAGGIO,
SOCIETÀ E RAPPRESENTAZIONI MONADICHE DELLE CULTURE Com’è
stato quindi possibile presentare come plausibile questa concezione monadica
delle culture (i treni, nella metafora di Lévi-Strauss)? È stato possibile
perché si è applicata in modo scorretto l’idea che il significato sia costruito
socialmente, nel senso che c’è un forte legame tra linguaggio e conoscenza o,
per dirlo meglio, tra significato e società. Questa idea (che le idee e i
significati non sono “nella testa” delle persone, ma circolano nella società
attraverso i simboli della cultura) è stata interpretata in modo restrittivo
“nel senso che i limiti del mio mondo sono i limiti del mio linguaggio”,
offrendo quindi legittimazione alla chiusura culturale e all’isolamento morale,
mentre per Geertz “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” (p.
80). Non si tratta di un gioco di parole più o meno insulso, e dovrebbe essere
analizzato con attenzione. La prima frase, infatti, legittima l’indifferenza
verso la diversità, mentre la seconda conduce alla curiosità, all’immaginazione
e all’apertura mentale.
10) LE
CULTURE ERANO VERAMENTE PURE E LE SOCIETÀ VERAMENTE OMOGENEE PRIMA DELLA
RECENTE IBRIDAZIONE? FORSE GEERTZ STA ESAGERANDO? In
un mondo in cui le differenze segnavano i limiti dell’appartenenza in modo
nitido, era forse ancora possibile pensare alle culture come treni. Ma ora
siamo di fronte a prospettive del tutto inedite: “le questioni morali sollevate
dal fatto della diversità culturale… che un tempo sorgevano, quando sorgevano
soprattutto tra le società… sorgono oggi soprattutto al loro interno” (pp.
81-82). Questo è forse un punto che potremmo spingerci a criticare
nell’argomentazione geertziana. Per presentare lo stato attuale di ibridazione
culturale, lo contrappone a un passato di uniformità, quando invece sappiamo
che la diversità è stata la situazione normale
nella storia dell’umanità, se si eccettua l’enorme sforzo di
uniformazioni nazionali occorso dalla fine del Settecento alla fine della
seconda guerra mondiale.
11) UN
APOLOGO DALLA MORALE INCERTA: L’INDIANO UBRIACONE E IL RENE ARTIFICIALE, OVVERO
L’INCAPACITÀ DI IMMAGINARE L’ALTRO Per fornirci un
esempio sia della “diversità entro una società” sia della sordità al richiamo
di altri valori e dell’inutilità di un approccio di allegro distacco dall’altro,
Geertz ci racconta la storia dell’indiano ubriacone e del rene artificiale. Il
valore morale della storia ha è legato a quanto questa si sviluppa a seguito
della mancanza di reciproca immaginazione, e alle conseguenze che questo
comporta: “se fallimento vi è stato… esso ha riguardato l’incapacità, da ambo
le parti, di comprendere la posizione dell’altro e, quindi, la propria… A far
sembrare questo piccolo racconto così deprimente… è il fatto che essi [indiano
e medici] non abbiano saputo escogitare, nel mistero della differenza, un modo
per risolvere un’autentica asimmetria morale” (p. 84).
12) IL
RUOLO DELL’ETNOGRAFIA NEL “COLMARE IL SALTO” DELLA DIVERSITÀ (O ALMENO NEL
PROVARCI, NELL’IMMAGINARE LE POSSIBILITÀ DI RIEMPIRLO) Possiamo
rimanere indifferenti di fronte a questi casi di diversità che intersecano la
“nostra” definizione di cosa il termine “nostro” significa o dovrebbe
includere? Geertz crede che nella maggior parte dei casi siamo chiamati a uno
sforzo di comprensione, se veramente vogliamo vivere dentro una società, e non
una mera accozzaglia di individui in soliloquio, ognuno sepolto inesorabilmente
nelle sue idiosincrasie personali. Per poter fare questo, abbiamo bisogno di
una “apertura immaginativa a (e l’ammissione di) una mentalità aliena” (p. 84).
Gli etnografi sono da tempo i professionisti delle mentalità aliene:
“Quantunque diversi fossero i nostri metodi o le nostre teorie, noi etnografi
abbiamo condiviso la medesima ossessione professionale per i mondi altri,
cercando di renderli comprensibili innanzitutto a noi stessi e, quindi, con
l’ausilio di artifici concettuali non dissimili da quelli adoperati dagli
storici e dai romanzieri, ai nostri lettori” (p. 84).
13) IL
SAPERE ETNOGRAFICO È IMPORTANTE PERCHÉ IL RELATIVISMO (CHE PUÒ SENZ’ALTRO
SORGERE DA QUEL SAPERE) È MOLTO MENO PERICOLOSO DELL’INDIFFERENZA ALLA
DIVERSITÀ Ora che la diversità è all’interno del
noi, l’etnografia, raffinando e ricalibrando i suoi strumenti e i suoi fini,
può giocare un ruolo importante: “Gli usi dell’etnografia sono per lo più
ancillari, e tuttavia reali. Come la compilazione dei dizionari o la molatura
delle lenti, l’etnografia è, o dovrebbe essere, una disciplina che serve a
qualcosa” (p. 86). L’etnografia può offrire la sua esperienza per quella che
Geertz considera una speranza per un possibile futuro: un tentativo di
reciproca comprensione tra le diversità.
14) CONCLUSIONI:
L’ETNOGRAFIA È AL CONTEMPO UN’ESIGENZA SCIENTIFICA E MORALE DEI NOSTRI TEMPI
Entro il complesso collage che costituisce l’attuale complessità e ibridità
culturale, il relativismo senza scopo e la comparazione autocompiaciuta con
l’altro sono due strategie del tutto inutili, anche se bisogna specificare che
quest’ultima è ben più pericolosa del primo. “La prospettiva di un mondo
popolato di persone così innamorate le une della cultura delle altre da
aspirare soltanto a celebrarsi a vicenda non mi pare proprio un pericolo
imminente; purtroppo, mi sembra di vedere invece un pericolo nella prospettiva
di un mondo di persone tutte impegnate a glorificare i propri eroi e a
demonizzare i propri nemici. Non è affatto necessario scegliere – anzi, è
necessario non scegliere – tra un cosmopolitismo privo di contenuto e un
campanilismo senza pietà. Nessuno dei due è di grande aiuto se si tratta di vivere
in un collage” (pp. 88-89).
15) ESSERE
ATTENTI AL DIVERSO È “INNATURALE” MA NECESSARIO. UN MANIFESTO DEL SAPERE
SOCIO-ANTROPOLOGICO
Comprendere quello che, in
un modo o nell’altro, ci è alieno (e tale rimarrà) senza cercare di
minimizzarlo con vuoti balbettii sulla nostra comune umanità o di
neutralizzarlo con l’indifferenza dell’a-ciascuno-il-suo, o ancora di
liquidarlo come qualcosa di affascinante, persino grazioso, ma non perciò meno
illogico – questa è un’abilità che dobbiamo faticosamente imparare; e una volta
imparata, lavorare continuamente per tenerla in vita, poiché non si tratta di
una facoltà innata, come la percezione della profondità o il senso
dell’equilibrio, sulla quale si possa fare senz’altro affidamento. Gli usi
della diversità – e dello studio della diversità – consistono proprio in
questo: nel rafforzare la nostra immaginazione, la nostra capacità di
comprendere ciò che ci sta di fronte.
Sunto
L’ETNOCENTRISMO, un tempo
vivacemente contrastato dagli intellettuali e dagli esperti di scienze sociali,
ha acquisito da qualche anno un nuovo fascino, come “una certa dose di sordità
al richiamo di valori estranei” – che consentirebbe quindi la sopravvivenza
delle differenze – oppure come “una matrice di confronto con comunità
peggiori” – una pratica che rafforza la coesione della comunità
di appartenenza. Confrontandosi con questa nuova attrattiva
dell’etnocentrismo, e con la sua legittimazione da parte di autorevoli
studiosi come Lévi-Strauss e Rorty, Geertz sostiene che un simile
approccio alla diversità culturale ci impedisce di scoprire non solo
quel che sono gli altri, ma anche quel che siamo noi, dato che la
diversità è oggi altrettanto all’interno delle società di quanto un
tempo fosse tra società. L’etnografia con il suo tradizionale pallino
per la comprensione della diversità, ci offre ancora gli strumenti
migliori per capire quel che ci è alieno, senza negarlo, renderlo
innocuo o ignorarlo. All’interno dell’impresa etnografica, gli scopi
morali e quelli scientifici si intrecciano: abbiamo bisogno di
conoscere l’altro perché è dentro di noi (obiettivo scientifico della
precisione e dell’adeguamento alla realtà) e perché solo questa conoscenza (che
richiedere un vero sforzo di immaginazione) può contrastare una tendenza
evidente a trasformare l’indifferenza verso l’altro in sospetto,
e il sospetto in inimicizia.
[MINUTO
1:27:10] Per concludere in leggerezza, abbiamo
fatto un piccolo test di verifica su alcuni temi (la cultura alta/bassa; cosa
sia un oggetto tradizionale; in che senso la cultura è condivisa) con la
piattaforma Mentimeter. Credo di non fare troppo danno se anticipo che
il vincitore di questa gara è stato Magical Rhino…