Visto che questa lezione avrebbe dovuto essere sul motivo per cui durante queste prime lezioni non ho presentato quasi mai esempi “esotici” e ho invece fatto soprattutto riferimenti alla “nostra” cultura, ho rapidamente introdotto la questione storica che ha fatto sì che l’antropologia culturale OGGI è prima di tutto la scienza della dimensione simbolica del reale sociale, mentre è nata in realtà con tutt’altro fine, vale a dire come lo spazio di riflessione sul residuale della modernità. Le scienze sociali in effetti sono nate nel corso dell’800 per affrontare il grande tema della MODERNITÀ, con i problemi connessi dell’urbanizzazione, della secolarizzazione, dell’anomia, e in generale della frammentazione della cultura TRADIZIONALE. L’antropologia, come scienza minore, inizia dunque a occuparsi di quel che è RESIDUALE rispetto a questo cammino della modernità, vale a dire la cultura RURALE e le culture PRIMITIVE. Ma riprenderemo questo tema nella prossima lezione.
[MINUTO
05:00] Anche se finora ho raccontato più che altro
un’antropologia dedita allo studio della “nostra” cultura, per non dimenticarci
da dove viene l’antropologia e perché vale la pena di apprezzarne l’archivio, abbiamo
di fatto aperto la lazione traducendo [MINUTO 07:00] qualche battuta di un’intervista che MARSHALL
SAHLINS (1930-2021) ha rilasciato a un suo giovane allievo, in cui
riprendeva un suo saggio degli anni 80 (Raw Women, Cooked Men and Other
“Great Things” From Fiji, «Le Débat», 19, 2, 1982, pp. 121-145) e ricostruiva
le strane parole di un vecchio capo delle isole Fiji, raccolte da un
antropologo negli anni Venti del Novecento. Il capo voleva offrire un dono ai
suoi maestri d’ascia per la superba canoa doppia che gli avevano costruito, e se
ne uscì con queste parole: “Nei bei tempi antichi, vi avrei ringraziato donandovi
un uomo cotto o una donna cruda, ma ora il Cristianesimo ha rovinato
tutto!”. Sahlins spiega che, se si passa abbastanza tempo in quelle isole, si
capisce che l’uomo cotto è la vittima sacrificale di un rituale cannibalico, e
ha la funzione, in quanto dono agli dei, di favorire la fertilità di chi
lo mangiava. Con “donna cruda”, invece, il capo intendeva la figlia vergine di
un capo, che parimenti era molto efficace nel consentire al gruppo che l’acquisiva
di riprodursi nel tempo con i frutti del suo ventre. Uomo cotto e donna
cruda, dunque, significano in entrambi i casi un dono che, in modo diretto
(donna) o indiretto (uomo) consente a chi lo riceve di investire sul proprio futuro
come gruppo che continuerà a riprodursi.
Sahlins dice che esempi come questo sono
la prova che il mondo degli antropologi e quello dei fisici sembrano
funzionare in direzioni opposte: un fisico parte dall’ovvietà delle percezioni
sensoriali (un tavolo che suona pieno sotto le dita) per arrivare a
scoprire che invece c’è un sacco di vuoto tra nucleo e elettroni e addirittura,
su scala quantistica, a farsi una rappresentazione del mondo del tutto incomprensibile
per il senso comune, mentre l’antropologia fa la strada opposta: parte
da una stranezza incomprensibile (uomini cotti e donne crude) per
arrivare lentamente a renderla sensata ricostruendone il contesto
culturale di occorrenza.
[MINUTO
15:10] L’acqua benedetta e l’acqua di rubinetto sono
indistinguibili per un chimico o un fisico, ma per un antropologo, che cerca di
ricostruire come vedono le cose “gli altri”, sono ben diverse. Si può dire che
il senso dell’antropologia stia tutto qui, nell’imparare a distinguere l’acqua
benedetta che ogni cultura produce,
[MINUTO
17:08], visto che a Tor Vergata non c’è più
nessuno che insegni SEMIOTICA, dobbiamo toccare un poco la questione del
SEGNO, e come si incrocia in profondità
con quella di CULTURA.
Abbiamo distinto un SEGNO GENERICO
o Segno1 (qualcosa
che sta al posto di qualcos’altro da qualche punto di vista) da un SEGNO IN
SENSO STRETTO o Segno2 (che invece è la correlazione univoca tra un SIGNIFICANTE e un
SOLO SIGNIFICATO). Il Segno2 si oppone al
SIMBOLO (che
è invece costituito da un significante che può assumere molteplici
significati). La distinzione tra Segno2 e Simbolo si dispone lungo un continuo,
con il che si intende che i segni ordinari non sono né Segno2 perfetto, né Simbolo
perfetto, ma qualcosa a metà. Mentre i linguaggi formali (come quello
della matematica) utilizzano solo Segni2 (il segno ≠
significa una cosa sola “diverso da”) il linguaggio religioso o politico
utilizza simboli molto ampli (la croce per il cristianesimo, per esempio, o il
segno “democrazia” per la politica).
Fatta questa premessa, per i nostri scopi
introduttivi parleremo solo di Segni in senso generico, e
[MINUTO
23:58] Distinguiamo in modo tecnico tra SIGNIFICANTE e SIGNIFICATO. Il primo è semplice: si tratta della componente
materiale del segno, del suo supporto fisico. Non siamo angeli, e siamo
dunque costretti a comunicare facendo trasportare i significati da mezzi fisici:
le onde sonore, il gesso, l’inchiostro, ma anche il metallo di un anello, o i petali
di un fiore, se il fiore è un dono. Oppure il movimento del corpo in un passo
di danza.
Il SIGNIFICATO invece è più complicato da spiegare. Diciamo che per
molti secoli è prevalsa una TEORIA REFERENZIALE del significato, che dice che il significato è
costituito dal referente materiale o dall’immagine mentale del
segno, ma questo modello teorico può funzionare molto bene per la comunicazione
animale (che in effetti, come abbiamo visto, è sostanzialmente referenziale: guarda,
lì ci sono banane, andiamo! Oppure: guarda, lì c’è un leone, scappiamo!) mentre
è una teoria incompleta se riferita al linguaggio umano, che molto
spesso non è affatto referenziale, ma tratta di concetti come “Ochobo”, che non
hanno alcun referente materiale immediato, oppure di connettivi come “quindi”, “oppure”,
che non producono alcuna immagine mentale, o di concetti/simboli troppo
complessi per poter essere indicati (guarda, la “democrazia”, andiamo a
prenderla! Oh, ecco la “violenza”, scappiamo!)
Così, la riflessione filosofica e
linguistica dell’ultimo secolo ha elaborato (abbiamo ancora nominato LUDWIG
WITTGENSTEIN [1889-1951]) una TEORIA DELL’USO,
per cui il significato di un segno dipende interamente dall’uso che se ne fa
entro quella comunità linguistico-culturale. Il significato è quindi costituito
dall’insieme degli script, delle potenziali sceneggiature entro
cui potrei usare quel segno.
[MINUTO
40:50] questa teoria dell’uso possiede una qualità
interessante: ogni segno, dunque, è collegato ad altri segni che lo “definiscono”,
che costituiscono il quadro dei suoi script, delle cose che si possono dire con
quel segno. Così si comincia a vedere la “rete di significati” di cui
parlava MAX WEBER: ogni cultura tesse attorno a noi una rete complicata
di segni interrelati in QUEL MODO SPECIFICO, e il lavoro dell’antropologia
è proprio la ricostruzione di “altre” reti di segni prodotte fuori dalla
rete ordinaria cui l’antropologa sente di appartenere.
In realtà, non ci sono due reti
individuali di segni che si sovrappongano perfettamente, ma chiamiamo “culture”
quei raggruppamenti che prevedono almeno alcune sovrapposizioni parziali,
nel continuo semiotico del sociale. Come dice RALPH DANTO, “la diversità
inizia lì dove finisce la mia pelle” e questa tensione costante tra la rete di
significato in cui noi siamo individualmente immersi e qualunque altra rete di
significato, una volta assunta a oggetto specifico di analisi, costituisce il fondamento
della ricerca antropologica. In un certo senso, quando comunichiamo stiamo
sempre, misteriosamente, condividendo le nostre reti di significato, ma il
lavoro dell’antropologia è la presa in carico ESPLICITA e CONSAPEVOLE
di questo lavoro, che altrimenti e comunemente facciamo subconsciamente,
vivendo la nostra vita ordinaria.
L’antropologa al lavoro sa invece che la
sua rete di segni è molto, molto distante dalla rete di segni delle persone
con cui interloquisce, e il suo lavoro consiste proprio nel ricostruirne
almeno qualche porzione ragionevole.
[MINUTO
52:57] Come si organizza, dunque, questa rete dentro
le specifiche culture? Il passaggio importante è la costruzione di CATEGORIE
CULTURALI. Come qualunque altro animale, siamo in grado di accorpare una parte
rilevante degli stimoli sensoriali in categorie naturali, (SCATOLE, le
chiama ROBERT SAPOLSKY) o TIPI, che ci consentono un ragionevole
posizionamento di noi stessi nel mondo. Ma come umani, proprio perché abbiamo
iniziato molto tempo fa (prima di diventare umani, in realtà) ad affidarci all’apprendimento
e quindi a contare sempre meno sulla trasmissione biologica anche di categorie
innate, abbiamo un bisogno disperato di CATEGORIE APPRESE, che
ovviamente verranno apprese secondo lo STILE COGNITIVO di ciascuna
cultura. Il video del bambino che “non
riesce” a categorizzare alcune figurine è piuttosto interessante (oltre che
buffo).
Di seguito [MINUTO 1:02:00], abbiamo visto un rapidissimo video in cui si spiega
proprio la distinzione tra TIPO e OCCORRENZA (TYPE e TOKEN, in
inglese)
[MINUTO
1:06:30] un rapido accenno al lavoro di DOUGLAS
HOFSTADTER, Gödel, Escher, Bach: un'eterna ghirlanda brillante, un
libro del 1979 in cui molti di questi temi su come avvenga la categorizzazione
e come gli umani facciano uso del loro dispositivo simbolico e in generale cosa
sia il SIGNIFICATO e cosa intendiamo per COMUNICAZIONE. Di
seguito, abbiamo accennato anche al libro di GEORGE LAKOFF, e MARK
JOHNSON, Metafora e vita quotidiana, in cui il rapporto tra concezione
referenziale e simbolica del linguaggio è indagato con spirito antropologico,
partendo dall’importantissima nozione di METAFORA.
Se non avessimo queste categorie, saremmo
ridotti come Funes,
il personaggio di JORGE LUIS BORGES che non dimenticava nulla e che era
costretto a sottrarsi alla vita, per non affastellare nel suo animo ulteriori
ricordi di singoli Tokens privi di qualunque Type dove
collocarli. Il grande neuroscienziato russo ALEKASDR LURIJA (1902-1977) nel
1968 aveva pubblicato uno studio su un uomo che davvero “non
dimenticava nulla”.
[MINUTO
1:13:15] Questi casi patologici, di memorie che
non hanno Tipi e che collezionano Occorrenze singole, ci spingono a riflettere
sui meccanismi che negli umani, oltre la scarna disposizione biologica, ci consentono
di elaborare CATEGORIE, MODELLI e SCHEMI DI AZIONE. Abbiamo
già detto gli animali possono basarsi su schemi di “coordinazione motoria
ereditaria” o, in inglese “FIXED ACTION PATTERNS”,
vale a dire che in moltissimi contesti gli animali “sanno già” come comportarsi.
Di fronte all’odore di un felino un topo attiva istintivamente un movimento del
corpo all’indietro, e di fronte a una montagna di sterco alcuni scarabei sanno
perfettamente come arrotolarne una pallina. Gli umani sono invece molto carenti
su questo piano (proprio perché, abbiamo visto, a un certo punto della loro
evoluzione animale hanno iniziato ad affidarsi sempre più a schemi esterni,
a modelli appresi, vale a dire alla cultura) e quindi hanno la necessità
di trovare da qualche parte questi “pacchetti di azione” (che implica
anche il giudizio, dato che anche il pensiero è una forma di
azione). Questi modelli di azione APPRESI possono essere sintetizzati
nella parola RITO. Gli uomini si creano
questi pacchetti predisposti, che trasmettono e incorporano. Abbiamo
quindi letto un passo da DANIEL A. BELL che racconta come nel testo
cinese XUNZI del Terzo secolo P.E.C. il rituale sia descritto
come un sistema che consente di superare la nostra condizione animale: “Il
principale scopo del rituale è quello di civilizzare la nostra natura
animale”.
Abbiamo accennato quindi al concetto di ANTROPOIESI,
elaborato da FRANCESCO REMOTTI per indicare proprio quella pratica
tipicamente umana di produzione dell’umanità secondo modelli condivisi
socialmente.
Se non avessimo questi modelli appresi di
azione, saremmo o totalmente imbelli o in balia del mondo e delle sue
attrattive, un po’ come Gurdulù Omobono, lo scudiero del Cavaliere
inesistente di ITALO CALVINO, che si identificava totalmente con le
cose del mondo con cui interagiva, senza avere più alcun confine indentitario.