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domenica 22 marzo 2020

#IoStoAllaLarga


Da antropologo, cerco di notare gli scarti di senso, cioè quei punti in cui “culture come discorso” e “culture come pratiche” non coincidono e producono un effetto di distorsione che si nota però più “da fuori”, con lo sguardo straniante dell’antropologia, che non da dentro, nella vita quotidiana di chi quella cultura vive. Con la crisi medica e sociale in corso, mi pare evidente che c’è uno scarto tra quel che la nostra società dice di voler fare, e quel che di fatto realizza, forse obbedendo a logiche motivazionali di ordine morale più che economico-funzionale.
Dobbiamo contenere la diffusione del coronavirus e questo obiettivo primario va perseguito non nel bloccare il virus (obiettivo di fatto impossibile, quindi da escludere), ma nel rallentarne la diffusione, in modo da evitare un sovraccarico sul sistema della sanità che in certe zone si sta già realizzando e che devasta non solo le vite dei malati e dei loro cari, ma in generale distrugge alle fondamenta l’idea stessa di vita associata.
Dobbiamo, con tutte le forze, rallentare la diffusione. La parola d’ordine, allora, è diventata #IoStoAcasa, perché “stando a casa” quanto più possibile, cioè sempre tranne che nello stretto tempo necessario al vettovagliamento, si diminuirebbero le possibilità di diffusione e quindi si realizzerebbe il contenimento sperato. Sembra una logica razionale, ma mi pare evidente che ci sono sintomi chiari che non sia così.
1 la crescente insofferenza, che a volte sfocia in odio aperto, verso i runner;
2 l’indifferenza sociale verso le aziende che hanno tenuto aperte fabbriche non indispensabili alla fornitura dei servizi essenziali;
3 la riduzione degli orari di apertura dei supermercati e
4 la riduzione dei mezzi di trasporto pubblico
sono quattro “pratiche sociali” (vale a dire sistemi di azione che dipendo da istituzioni di diversa natura [senso comune, decisori politici, amministratori locali] ma che hanno l’effetto di sembrare ovvie e dettate dalla loro intrinseca utilità) che si possono comprendere solo a patto di rileggere quel #ioStoAcasa non come un’approssimazione di “cerco di ridurre il più possibile la diffusione del virus”, ma piuttosto di un principio culturale immotivato e alquanto difficile da spiegare in termini pratici che mi pare dica “dentro si sta sicuri, fuori si sta in pericolo”.
Che una persona corra da sola come un ossesso o come un guru o come uno sportivo, a me ha sempre fatto una certa impressione, ma qual è la natura oggettiva del pericolo di essere un runner solitario? Non c’è. Punto. Neanche se corre a kilometri da casa.
Che degli imprenditori sconsiderati possano voler lucrare ulteriormente su commesse da realizzare in un regime di concorrenza del tutto falsato è certo molto razionale in termini economici, ma come non si può notare che costringere i lavoratori a contatti ravvicinati è semplicemente idiota se non criminale? E come si può anche solo pensare di tenere aperte le fabbriche come si è fatto nel bergamasco, se non illudendosi mentendo a sé stessi che “la fabbrica” in quando “dentro” sia equiparabile alla “casa” come spazio sicuro?
E come si può pensare che ridurre i tempi di accesso ai supermercati possa aumentare la sicurezza quando è geometricamente inevitabile che una riduzione dei tempi aumenti il numero di persone che occupano lo spazio nel medesimo tempo residuo, riducendo così quella rarefazione sociale che dovrebbe essere lo scopo da raggiungere? Non si tratta di elucubrazioni, ma di un minimo di spirito di osservazione: da quando nel Lazio i supermercati sono aperti solo dalle 8.30 alle 19.00, si sono formate delle code assurde (ho contato 120 persone lungo una coda di oltre 300 metri fuori dalla mia Coop, a Roma) che hanno aumentato di molto la pericolosità dell’andare a fare la spesa. In alcuni supermercati si sta di fatto instituendo un laissez faire negli accessi, per cui se non stai in coda per un’ora e mezzo, ma solo per venti minuti, poi dentro ti trovi gomito a gomito nelle corsie come mai prima, e cassieri e tutto il personale sono sottoposti a condizioni lavorative molto più pericolose.
Che poi si siano ridotti i treni e gli autobus negli spazi urbani e interurbani è parimenti incomprensibile, se la logica pratica fosse davvero quella del raggiungimento dell’obiettivo razionale, vale a dire il calo dei contagi riducendo le potenzialità di diffusione del contagio. Meno autobus ma fabbriche aperte, meno autobus ma supermercati aperti in tempi ridotti, meno autobus e quindi mobilità pubblica ridotta non può che significare far aumentare il numero delle persone compresenti negli autobus residui. Fare di una risorsa necessaria una risorsa competitiva diminuendo l’offerta non riduce il consumo, aumenta la competizione, che negli spostamenti significa affollamento e vicinanza di corpi, l’opposto di quel che si diceva di voler fare. E allora andiamo in macchina! E allora, notizia di ieri, fermiamo tutte le macchine con le pattuglie, così avremo una nuova occasione di assembramenti, e una bella ondata di carabinieri e poliziotti infetti che faranno da untori per i prossimi automobilisti fermati e controllati, cioè tutti, visto che tutti verranno fermati e controllati.
Pratiche così contraddittorie (dagli al runner, a prescindere; fabbriche aperte; negozi con l’orario contingentato, mezzi di trasporti ridotti, controlli polizieschi che servono solo a incrementare il rischio di contagio) si possono spiegare solo se sono motivate da qualcosa di diverso dalla razionalità e dall’utilità.
Qui, credo, noi antropologi qualcosa da dire ce l’abbiamo. Studiosi come Mary Douglas (Purezza e pericolo) e Marshall Sahlins (Cultura e utilità) ci hanno dimostrato or è circa mezzo secolo che la logica simbolica (cioè un sistema di associazioni che stabilisce le priorità indipendentemente dall’utilità, e che anzi determina cosa quella cultura considera utile e indispensabile) è al fondamento dell’agire sociale. Su questo gli economisti neoclassici e la loro concezione della razionalità hanno completamente mancato il bersaglio (come ci ha dimostrato l’economia comportamentista e i lavori di Daniel Kahneman e dei tanti che da lui hanno tratto ispirazione) ed è arrivato il momento di tirare un po’ le fila anche per il grande pubblico, su questi temi, che non possono restare nei circoli esoterici dei seminari specialistici.
Quando il Governo pone come obiettivo lo “stare a casa” e non “stare a distanza gli uni dagli altri” sta agendo secondo una logica simbolica che di razionale ha veramente poco. I casi della casa per anziani e del convento infettati stanno lì a dimostrare che non ci sono spazi “privati” sicuri contrapposti a spazi “pubblici” infetti. Nel mio condominio i ragazzini continuano beatamente a riunirsi a frotte (siamo novanta famiglie) e a giocare a rimpiattino nel cortile, e la risposta al dubbio di alcuni è “ma tanto stanno a casa!”.
C’è insomma un immaginario simbolico che enfatizza la frattura assoluta tra spazio privato e spazio pubblico. Ho scritto in diverse occasioni come quella frattura (che ha ristretto fino a cancellarlo lo spazio del vicinato, su cui potete leggere il libro bellissimo di Luigi Zoja) sia il frutto del parallelo sviluppo urbanistico ed economico, e non posso parlarne qui (semmai qui chi vuole può leggere le mie cose a riguardo) ma basterà dire che la logica sottostante è: il pericolo è comunque sempre “fuori”, trovati uno spazio “dentro” e starai al sicuro.
Questa logica funziona al di là degli obiettivi razionali che la società si è data (ridurre le occasioni di contagio) e, anzi, può addirittura funzionare in contraddizione con quegli obiettivi, dato che ridurre la mobilità (invece di aumentare la distanza), costringendo più persone negli stessi spazi per tempi contingentati, può solo aumentare il rischio di contagio, non diminuirlo.
Se mi posso permettere un consiglio ai decisori politici, dobbiamo cambiare slogan, e non dire più “io resto a casa” come se fosse un obiettivo pratico o utile in sé. Se resto a casa, ma quando esco per forza (perché mi costringono ad andare a lavorare o perché devo andare a fare la spesa) vado a infettarmi in spazi tutt’altro che rarefatti, e se mi illudo che “la colpa” sia dei runner o delle vecchine che non ne possono più di stare segregate e vanno due volte al giorno al supermercato a fare la spesa, non sto raggiungendo l’obiettivo, anzi.
Aumentiamo le possibilità di uscire di casa in sicurezza, lasciamo i runner liberi di girare da soli e a debita distanza se lo vogliono fare, lasciamo che gli anziani, i padroni di cani, chi vive in spazi angusti, chi non ha una casa degna di questo nome, chi soffre per tensioni in famiglia, tutti noi insomma per un motivo o per l’altro, possano uscire stando attenti a due cose, che sono molto più fondamentali di tutto il resto:
1. Manteniamo la distanza, sempre, con tutti: una distanza di almeno due metri, meglio tre, altro che metro.
2. Portiamo ad ogni uscita la mascherina e i guanti monouso, e cambiamoli ad ogni occasione di passaggio di spazio, vale a dire fuori e dentro casa, ma io penso che si dovrebbero cambiare i guanti anche all’uscita dei supermercati e dei pochi altri posti aperti, se ne sono rimasti. Stiamo veramente lontani dai medici, dai cassieri dei supermercati, dai clienti, dagli amici, insegniamolo ai bambini e anche con loro per quanto possibile evitiamo smancerie in questo periodo. Prendiamoci cura dei nostri cari, soprattutto degli anziani, con le dovute cautele, per il timore di infettarli se non abbiamo paura di essere infettati.
Chiediamo la riapertura con orario prolungato dei supermercati, dalle 6 di mattino a mezzanotte, con l’obbligo di nuove assunzioni per tutto il periodo di orario prolungato, visto che i supermercati stanno facendo affari d’oro, di questi tempi. Chiediamo ai comuni di aumentare la circolazione dei mezzi di trasporto consentendo così agli autobus e ai treni e alla metro di essere sempre poco affollati, così che i pochi passeggeri per ogni corsa potranno mantenere la distanza di sicurezza (e chissà che questo non possa attivare pratiche migliori per la mobilità nelle nostre città, in futuro).
#IlStoAllaLarga, allora, non più #IoRestoAcasa. Non è la strada il posto pericoloso, è la vicinanza tra le persone, il posto assolutamente da evitare. Così, forse, ce la potremo fare.