2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

giovedì 25 novembre 2010

Contemporary Rome: Changing Faces of the Eternal City

Domani mattina ci saro' anch'io, e il programma si preannuncia succoso! (Qui trovate il file del programma completo).

Bilingual Conference (English and Italian)
The American University of Rome - The Auditorium - Via Pietro Roselli, 16 Rome

26-27 November 2010

Keynote Speakers
Michael Herzfeld, Harvard University & Alessandro Portelli, Università degli Studi di Roma, La Sapienza

The city of Rome, the Caput Mundi of Antiquity, has been studied predominantly as a historical monument. But what of contemporary Rome; its people, its politics and economy, its environment, the challenges of globalization? Both within and outside Rome’s historic centre, a variety of transformations are currently underway. Recent decades have seen the arrival of large numbers of immigrants, many of whom are becoming permanent residents and are changing the outlook of the city. This new multicultural reality is affecting the arts, Rome’s nightlife, its economy, and neighborhoods. It has also become a highly contested issue in local politics. Mobility is not restricted to Rome’s newcomers and the city is undergoing gentrification, labor market transformations, geographic expansion. Conditions in its peripheries are now the subject of intense study and urban planners are seeking new approaches to developing the city for a sustainable future. The issues of pollution, congestion and calls for decentralization are more urgent than ever. Rome’s identity as national capital is also an issue for debate as moves for increased regional autonomy and questions concerning the role of the nation state itself develop. The fast-changing urban realities of Italy’s biggest city and capital are the focus of this two-day conference which will bring together Italian and English-speaking scholars from a variety of disciplines.

PANEL 1 - 10:00 - 11:30AM Global Politics, Local Realities
Chair: Bjørn Thomassen, AUR

Pierluigi Cervelli, (Università di Roma la Sapienza) “Rome as a Global City: Mapping New Cultural and Political Boundaries”
Adriana Goni Mazzitelli, (Università degli Studi "Roma Tre") “‘Se ci sei battiti:’ Cultural Urban Movements of Resistance in a City for Sale”
Piero Vereni, (l'Università di Roma Tor Vergata) “Diversly Globalized Rome”

martedì 16 novembre 2010

Servizi essenziali

Non mi era mai successo. L'universita' americana dove insegno (e da dove scrivo questo post, ecco la mancanza delle vocali accentate) sta in un punto meraviglioso di Roma, in cima all'Aventino. Arrivo verso le 17.30 con la moto, parcheggio e faccio il piccolo pezzo a piedi che porta all'ingresso del College. Qualche volta vedo i domestici straneri che portano a spasso i cani (quasi sempre di piccola taglia) dei loro padroni. Padroni dei filippini, penso, e padroni dei cani. Ho sempre trovato abbastanza umiliante portare a spasso il cane di un altro, e abbastanza idiota affidare a un proprio dipendente il proprio cane da portare a spasso. Ma questo e' il sistema delle relazioni e il sistema di produzione corrente, ho sempre pensato, non posso che prenderne atto ed evitare di trovarmi mai in una delle due posizioni, di passeggiatore di cani altrui e di affidatario dei cani miei.
Pero' stasera ne ho vista una nuova, almeno per me. Sulla discesa del college, vedo avanzare una strana coppia verso di me: un uomo tozzo e piuttosto impacciato trascinato da un altro, segaligno e scuro.  Mentre si avvicinavano cercavo, come spesso mi capita, di immaginare la relazione tra queste due persone. Sembravano di eta' troppo ravvicinata per essere padre e figlio, ed erano troppo diversi somaticamente per essere fratellli.
Quando il lampione me li ha messi a fuoco, ho capito che si trattava di un inserviente straniero (asiatico meridionale, forse pachistano o bangladese, sulla quarantina) che portava a passeggio un uomo a occhio poco piu' giovane con un evidente handicap psichico, un ritardo mentale.
L'inserviente portava a spasso l'uomo con evidente distrazione, stando avanti a lui di un passo buono e letteralmente trascinandosi dietro il braccio dell'altro, a cui era appeso il resto del corpo. Era una scena allucinante nella sua fredda razionalita'. Ho pensato ai genitori di quel ritardato, che proprio non ce la fanno piu' e hanno anche loro diritto a un attimo di quiete. E la pagano, quella quiete, affidando la loro dolorosa croce al badante sbadato.
Se siamo a questo punto, se veramente dobbiamo pagare qualcuno per condividere un dolore, mi sa che siamo proprio nella merda.

venerdì 12 novembre 2010

Immigrati italiani

Come si fa a non parlare di quel che è successo a Brescia e di quel che sta succedendo in tante parti d’Italia, di diritti negati, di clandestità artate per dare in pasto alla belva un po’ d’odio d’accatto, raschiando sul fondo del barile elettorale la vergogna della nostra inciviltà?
Io mi sento male,  e allora racconto un episodio che mi è stato raccontato ieri (cambio i nomi dei protagonisti), da una maestra di una delle scuole “multiculturali” di Roma. Qualche saccente sostenitore dello “scontro di civilità” mi taccerà, come ha già fatto, di “irenismo”, ma non sa che mi farà un complimento.
In una quarta elementare dove i bambini vengono da tutto il mondo la maestra propone un esercizio di reciproca descrizione. Uno alla volta, i bambini si avvicinano alla cattedra e i compagni cercano di raccontarne a voce i tratti salienti.
E’ la volta di Stephan, romanissimo figlio di filippini.
Com’è Stephan? chiede la maestra.
- Ha i capelli neri e lisci lisci.
- Ha la pelle olivastra.
- E’ magro e ha i denti bianchissimi.
Greta (una bambina “italiana”) aggiunge: - Ha gli occhi a mandorla!
La maestra approfitta di quest’ultimo tratto per provare a parlare di diversità, per provare a spiegarla: - Perché Stephan ha gli occhi a mandorla, Greta?
- Perché sorride sempre!

(Grazie a A.T. e alle sue colleghe, che insegnano ai bambini a guardare i sorrisi dei compagni di classe)

Ultime notizie

Sto diventando terribilmente conservatore, e in questa metamorfosi comincio a rivalutare il peso del nostro passato sconosciuto. Per il mio lavoro sull’impatto della globalizzazione a Roma mi sono fatto dare quest’estate da mio suocero la sua copia di Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica, di Italo Insolera (Einuadi, 1962 seconda edizione). In quel libro si fa spesso riferimento a Roma capitale. Dal Risorgimento alla crisi dello stato liberale, di Alberto Caracciolo (Edizioni Rinascita, 1956), un libro che non parla solo della dimensione urbanistica di Roma e  che mi sembrava molto interessante dai riferimenti che ne fa Insolera. Del tutto casualmente, ho trovato una copia intonsa di Roma capitale in una piccola libreria di usati la scorsa settimana a Prati e ho iniziato a leggerla con estremo interesse.
Alle pagine 61 e 62 riporta la posizione di Quintino Sella, piemontese fino al midollo e uomo della Destra, su quale dovesse essere il ruolo dell’allora nuova Capitale del Regno, Roma. E’ un pezzo memorabile, che porta inevitabilmente alla comparazione con la classe politica attuale. Mentre oggi Giulio Tremonti, il nostro Ministro dell’Economia, massacra l’Università (due conti: dare un miliardo dopo che si è tagliato un miliardo e mezzo non significa investire, ma tagliare mezzo miliardo) e fresco fresco dice che “la cultura non si mangia”, e mentre il governo di questo paese è condizionato in modo determinante dal programma politico dalla Lega Nord, una forza reazionaria e antinazionale che ha sdoganato il peggior familismo localista sbraitando contro “Roma ladrona”, i padri della nazione avevano tutt’altro spessore culturale e politico, e anche quand’erano conservatori concepivano sempre in modo chiaro il duplice necessario senso del ruolo della cultura e dell’unità nazionale.
Ecco il passo in cui Caracciolo (uomo di sinistra, per altro) riporta la posizione di Quintino Sella:

Cosa deve rappresentare questa città dalla storia secolare? Essa dovrà essere il luogo della scienza e del dibattito intellettuale. “Il cozzo delle idee, bene inteso, se vi ha luogo in cui debba dare buoni risultati, questo deve essere in Roma”, afferma Quintino Sella già nel 1872. Pertanto “qui deve essere un centro scientifico di luce, una Università principalissima, informata soprattutto ai princìpi delle osservazioni sperimentali che sono sempre imparziali e senza idee preconcette”. Farne un centro della scienza significa attribuire a Roma una missione universale, egli spiega nella famosa intervista al Mommsen. “Ma vuol dire anche che deve aversi in essa il cervello supremo della nazione”, preciserà in una discussione parlamentare qualche anno dopo. “In Roma hanno sede il governo e il Parlamento. Giova ad essi - avverte ancora in altra occasione - giova al paese, giova alla scienza, che si crei e si costituisca nella capitale del Regno un ambiente di alta scienza, il quale abbia sull’ambiente politico, legislativo e amministrativo quella parte d’azione che meritatamente gli spetta”.

lunedì 1 novembre 2010

Ma che colpa abbiamo noi?

Da quando ne è diventato direttore Gianni Riotta, anche l’inserto domenicale del Sole24ore ha preso “il web” a capro espiatorio di qualunque malefatta e nel numero di ieri (domenica 31 ottobre 2010) c’è una doppietta in fila indiana che merita un momento ulteriore di riflessione, anche per la sua natura paradossale.
In prima pagina il direttore in persona recensisce l’ultimo romanzo di Umberto Eco, Il cimitero di Praga, che ha per oggetto il falso e la sua proliferazione nel mondo degli uomini attraverso la vita fittizia del protagonista, spia e falsario, immaginato, tra l’altro, come autore del famigerato Protocollo dei Savi di Sion, un falso su cui ha campato (e in parte ancora campa) per un secolo l’antisemitismo internazionale.
Il romanzo si svolge nell’arco di tempo che va dal 1830 al 1898 (testuali parole di Umberto Eco ieri intervistato a Fabio Fazio), ma questa precisa collocazione temporale decisamente pre-elettronica non impedisce a Riotta di partire subito a questo modo: “Secondo le “teorie della cospirazione”, sul web, tutto quel che crediamo di sapere è falso...” e poi via elencando la consueta sfilza di scemenze sulle Torri Gemelle o sulla religione di Obama. Sul web? Perché sul web come se prima non ci fosse alcuna teoria della cospirazione, come se prima del web il mondo fosse cristallino nel trasmetterci informazioni pure? Il libro di Eco (e come dimenticare Il pendolo di Foucault) sta lì a ricordarci che l’ossessione paranoide, il gusto di produrre notizie a vanvera per spargere panico o sperare di orientare le masse di qui o di là, la pretesa di individuare un senso nella pratica politica, che spesso è banalmente insensata, insomma “le teorie della cospirazione” ci sono da ben prima del web. Avrò avuto una decina d’anni quando dalla parrucchiera di mia mamma (dove mi portavano a farmi i capelli dato che il barbiere di nonno aveva una visione piuttosto spartana del taglio maschile) rimasi impressionato dalle foto sgranate e in bianco e nero riportate in un settimanale che strillava la notizia che “John Kennedy non è morto!”. Eravamo una ventina d’anni prima del web, ma il mondo era già pieno di scemenze veicolate dal mondo dell’informazione.
Alla pagina successiva dello stesso numero del Domenicale un articolo di Sergio Luzzatto parte da un libro di Michele Battini (Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei, Torino, Bollati Borighieri) per estendere di molto il discorso al “rapporto che la società di oggi intrattiene con il vero e con il falso”, per finire però con il collegarsi idealmente al modello di Riotta, che vede “sul web” annidarsi la peggior strumentazione della propaganda e della falsificazione. Si parla cioè ancora dei Protocolli (un documento russo della fine dell’Ottocento) per arrivare alla fatidica conclusione: “Come pensare che le fortune odierne del negazionismo non incrocino le fortune della fabbricazione di bufale in rete?”. Di nuovo: perché in rete? Prima le bufale non si producevano? I Protocolli sono una strana eccezione? E’ proprio Luzzatto a ricordare (senza citarlo per esteso) il saggio di March Bloch dedicato alla costruzione di false notizie durante la prima guerra mondiale (La guerra e le false notizie, Roma, Donzelli, 1994; ed. or. 1921: ma non vi fidate, ho trovato questo riferimento bibliografico “sul web”, per cui sicuramente è falso) e io potrei aggiungere il quadro generale degli studi di storia sociale e di storia della mentalità, in cui il tema della costruzione dell’immaginario collettivo è stata studiata fin dai primi del Novecento (tutti conosceranno almeno per sentito dire il famosissimo La grande paura di Georges Lefebvre, pubblicato nel 1932 e riferito all’episodio di panico collettivo del 1789, qualche tempo prima delle bufale in rete).
Insomma, perché “Il web” dovrebbe essere la sentina di tutti i mali della comunicazione quando è accertato storicamente che la falsificazione e l’ideologia complottarda e paranoica veleggiavano tra gli esseri umani da sempre?
La risposta a questa mia domanda retorica si trova nello stesso articolo di Luzzatto. Il web sarebbe la fonte del falso perché non produrrebbe alcuna coscienza critica in senso filologico:

Oggi, chiunque sia insegnante - dalle scuole medie all’università - sa che i ragazzi hanno un unico criterio di verità: “L’ho trovato su internet!”. Oggi, il digital divide non separa soltanto chi ha l’accesso a internet d chi non ce l’ha: separa una generazione (la nostra) che ancora si è formata, bene o male, sulla forma-libro e sulla critica dei testi, da una generazione (quella dei nostri figli) il cui nativismo digitale significa un’impreparazione spesso totale rispetto alle insidie conoscitive della rete...

Insegno all’università dall’anno accademico 1999/2000, ma devo ammettere che non mi ero mai accorto dell’unico criterio di verità giovanile individuato da Luzzatto. Dev’essere una mia mancanza, non so. I miei studenti rubacchiano dalla rete quando pensano di poterlo fare (infatti smettono non appena li sgamo e faccio vedere loro che quando si tratta di reperire fonti in internet sono ancora più bravo di molti di loro), esattamente come come molti di noi rubacchiavano da studenti prendendo pezzi interi da libri che speravano il professore non conoscesse. Del resto è lo stesso Eco che, da qualche parte in Come si fa una tesi di laurea, suggerisce agli svogliati di trovarsi una tesi sul loro argomento in qualche ateneo lontano da casa e copiarla, sel’unico loro problema è quello di risolvere la pratica burocratica detta tesi di laurea.
E, per ribaltare l’argomento, ricordo lo sgomento stuporoso, misto a timor panico, con cui qualche compagno di liceo mi sussurrava che il nuovo prof di filosofia “ha fatto un libro! Ti rendi conto, ha fatto un libro!”, come se avesse camminato sulle acque o fosse risuscitato dai morti.
Insomma, quando noi “genitori” eravamo studenti, non eravamo, mediamente, più istruiti nelle raffinatezze della “critica dei testi” di quanto i nostri figli non lo siano oggi nella “critica delle fonti su internet”. La gran parte di noi e di loro si è arrabattata con timore reverenziale di fronte alla Cultura, perpecita come un luogo distante e ostile di preservazione del sapere, dove andare a saccheggiare qualcosa per la propria vita. Alcuni di noi, pochi, hanno invece elaborato (allora e oggi) un’idea della cultura come spazio di produzione del sapere, e quindi hanno allora imparato a maneggiare criticamente i libri e il loro contenuto come oggi maneggiano criticamente i siti e quel che dentro contengono.
La rete ha certo bisogno di guide, di punti di riferimento, ma non perché di suo sia più infida di una biblioteca, e la bliblioteca ha bisogno di essere approcciata criticamente non per consentire a chi la frequenta di sentirsi migliore dei poveri fessi connessi, ma perché la biblioteca è un luogo terribile, pieno di menzogne e paranoie, sempre più pieno anzi di pagine vuote di qualunque cosa che non sia l’ego malato di chi li ha scritte.
Resto comunque stupefatto dal paradosso che questo approccio impone: cercando di dimostrare come il passato ha inventato un capro espiatorio, un ebreo adatto per qualunque colpa, si riproduce curiosamente lo stesso meccanismo di discriminazione, adattandolo al contesto odierno: se prima era “il sionismo” il nemico della verità, non vorrei che tra qualche tempo ci toccasse di difendere “il web” da attacchi ancora più violenti, parimenti frutto di paranoie del tutto preconcette.