2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

giovedì 20 marzo 2008

Ben mi sta


Come antropologo, so benissimo che molto spesso mi trovo a sintetizzare il pensiero dei miei “informatori”, magari condensando in un paio di frasi una discussione che si è protratta per ore, o giorni. Cerco quindi di stare attento al mio lavoro interpretativo, e visto che l’antropologia è vedere le cose “dal punto di vista dei nativi”, la domanda che mi pongo spesso è: siamo sicuri che il mio informatore sarebbe d’accordo con la sintesi che sto facendo del suo pensiero?
Comunque sia, sento spesso nel sottobosco delle mie ricerche l’arroganza della nostra disciplina, che pretende comunque di parlare “in vece di” e facilmente prevarica. Mi sono sempre chiesto cosa si prova a sentirsi pubblicamente interpretati in un modo inaspettato, secondo modalità non tanto “errrate” quanto sentite come non proprie. Bene, ora lo so.
Stavo facendo una cosa che - mi dicono - non si dovrebbe fare, e cioè stavo guggolando il mio nome (guggolare è un calco fonetico che mi sono inventato io, dall’inglese to google = fare una ricerca su internet tramite il motore di ricerca per antonomasia) quando è uscito questo:

Gli adulti molto spesso hanno una famiglia o comunque un lavoro, quindi si “alienano” in internet in modo molto diverso rispetto ai giovani; essi ad esempio hanno ritmi di vita che li impossibilitano a stare troppe ore sulla Rete e sempre per il principio della “desiderabilità sociale” tendono, molto più che i giovani, a giustificare la loro alienazione spesso affermando che è l’unico modo per sfuggire ai problemi quotidiani, a cui comunque, in un modo o in un altro, provano di fanno fronte. Un classico esempio che dimostra questa tendenza è il blog di Piero Vereni, editor, antropologo e ricercatore a tempo determinato all’università della Calabria. Quest’uomo, divorziato con una figlia da mantenere, non ha una vita agiata, anzi al contrario lavora 15 ore al giorno, 7 giorni su 7 e tiene un blog nel quale racconta la sua vita e i suoi problemi. Egli sostiene che scrivere i post è un modo per sfuggire dalla routine quotidiana e dai problemi economici che incombono alla fine di ogni mese. Tra le sue parole si può leggere l’amarezza, il desiderio di essere da un’altra parte, di essere qualcun altro, egli sostiene di non avere il tempo per una seconda vita su internet e quindi giustifica i suoi post sostenendo che sono l’unico “spiraglio di originalità” della sua vita poiché i suoi 3 lavori non gli permettono di mostrare tutta la sua “verve intellettuale”. In qualche modo egli cerca di giustificare la sua presenza in Internet come unico momento di fuga dalla realtà, come unico luogo in cui può essere veramente se stesso, imputando la colpa ai suoi lavori. Se così fosse il blog gli sarebbe di grande aiuto, proprio perché diventerebbe l’unico strumento con cui soddisfare la sua voglia di scrivere e la sua originalità, l’unico modo per esprimere il suo vero essere; bisognerebbe però vedere se quello che scrive è vero o sono solo parole dette per giustificare i suoi lunghi post con i quali, come lui stesso ammette, toglie tempo alla sua vita e alla sua bambina. Pietro si ritrae come un uomo a cui il proprio lavoro non piace, o meglio 2 dei suoi 3 lavori, egli afferma di lavorare per il denaro e di fare l’editor per passione, critica la sua società e nel blog non fa altro che giustificare le sue parole come momento di evasione: cerca in tutti i modi di dimostrare ai lettori dei suoi post che la sua presenza nel blog non è una perdita di tempo, ma una necessità; il tema del tempo e della sua scarsità è uno degli argomenti più sentiti all’interno dei blog visitati dagli adulti. Per il principio della “desiderabilità sociale” l’uomo medio è un uomo che non ha tempo da perdere, che deve lavorare, guadagnare e portare a casa uno stipendio degno, quindi un uomo che in teoria non dovrebbe essere su un blog perché ciò sarebbe una disdicevole perdita di tempo, per questo motivo i blog degli adulti appaiono proprio come un insieme di post nei quali essi parlano del loro lavoro e giustificano la loro presenza in Rete, come se fosse necessario giustificare il loro esserci con persone che stanno, in fondo, facendo proprio la stessa cosa.


Qui trovate il link al pezzo intero, che credo sia una relazione per una tesina universitaria.
Mi sono visto non tanto “oggettivato”, quanto reso pubblico e quindi fruibile come immagine da parte di terzi. Ho cioè cominciato a pensare che forma assuma il segno “pierovereni” nella testa del docente che quella tesina ha corretto. È questa incontrollabilità della mia immagine che più trovo spaesante. Non metto in discussione la legittimità dell’autrice del pezzo a vedermi così, né il suo diritto di riportare il mio pensiero secondo le sue necessità, ma vedermi rappresentato, come dire, con la barba lunga e la camicia fuori dai pantaloni sulla schiena mi sta facendo impressione. Come antropologo, mi pare una bella lezione di metodologia della ricerca.

Libri, nazioni e boicottaggi

Si è concluso bene il Salon du Livre, ospite d’onore Israele. Il boicottaggio, di fatto, non ha avuto successo e tutto è filato liscio, con numerose presenze. Ne approfitto per riprendere un tema cui tengo.
Ho letto con interesse le considerazioni di Diego Andreucci sul mio post dedicato al boicottaggio della prossima Fiera del libro di Torino. Ho molto apprezzato lo stile razionale e la voglia di argomentare con precisione. Ci sono alcuni aspetti della mia posizione che il suo post mi consente di chiarire.
La non coincidenza di antisionismo e antisemitismo è il classico argomento avanzato in queste circostanze, ma è un argomento al quale non credo: sono infatti convinto che l’antisionismo sia la forma moderna dell’antisemitismo e da questo provenga come emanazione diretta. La delirante lista dei 162 professori ebrei che costituirebbero una lobby filosionista è solo l’ultima riprova di questo collegamento. In molti ambienti dell’estremismo politico (senza che sia possibile distinguere tra sinistra e destra) vi è la nitida convinzione (che passa per senso comune, per una cosa ovvia che solo gli sciocchi possono non sapere) che chi è ebreo difende la politica di Israele e quindi è di fatto un nemico.
Le considerazioni di Diego sulla possibile non eticità dei festeggiamenti sul sessantesimo dello stato di Israele sono, a mio modo di vedere, un’ulteriore conferma in questo senso.
Ogni 14 luglio la Francia festeggia la presa della Bastiglia e la sua nascita come stato moderno. Non mi risulta che l’eticità della cosa venga posta da alcuno nei termini di sdegno scandalizzato che hanno caratterizzato alcuni proclami contro la presenza di Israele a Torino, anche se molti “sommersi” avrebbero parecchio da ridire sul fatto che l’esistenza della Francia sia stata un bene. Pensate a tutte le ex colonie in Africa e in America, oppure a come la Francia moderna abbia omologato con estrema violenza la sua differenza interna (chiedete a bretoni, baschi, corsi, alsaziani e occitani se la grande Francia è stata tutto un “libertà uguaglianza e fratellanza”).
Per quanto riguarda l’Italia, il caso del Meridione come “colonia interna” è stranoto. Giusto qualche giorno fa ho trovato sul CdS una citazione da Gramsci che vale la pena di riportare. Scriveva su Ordine nuovo:

Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti.

E faccio notare che si riferiva all’Italia PRIMA del fascismo…
Senza scomodare le gloriose campagne coloniali del Novecento, devo raccontare quel che lo stato italiano ha fatto alla minoranza slovena durante il fascismo? O quel che hanno dovuto patire in termini di umiliazione culturale gli altoatesini di lingua tedesca ben dopo la fine della seconda guerra mondiale?
Ogni stato (ripeto: ogni stato) nasce in nome e in forma della violenza e non importa quanto “democratico” e “liberale” si ponga. Possiamo essere utopisti e sperare di giungere un giorno a un sistema mondiale che superi lo stato nazionale moderno, e io mi unisco alla speranza di questa utopia ben sapendo che rimane un orizzonte materialmente non perseguibile, una specie di punto di riferimento che si sposta con il nostro procedere, un orizzonte morale più che un obiettivo politico. Ma allora in questo utopismo lo Stato di Israele ha lo stesso identico ruolo di qualunque altro stato (anche del nascente Stato di Palestina) e non può essere attaccato più di quanto non si possa attaccare la Romania per l’oppressione degli ungheresi di Transilvania o la Polonia per l’assimilazione dei lituani
Il punto, in soldoni, è che i promotori del boicotaggio della Fiera del libro di Torino hanno parlato di “rifiuto esistenziale di Israele”, un’espressione criptica che posso disambiguare solo se penso alla “esistenza” dello Stato di Israele che viene rifiutata.
In definitiva, il vocabolario di chi chiede il boicottaggio di Israele alla fiera di Torino è per me pericolosamente affine a quello dei più biechi antisemiti. Se si guggola “boicotaggio Israele” escono fuori siti di estrema sinistra e siti di estrema destra. Scusate, ma quando tutte le vacche sono grigie io credo che valga la pena di fare un po’ di chiarezza.
Finisco con le parole di Avraham B. Yehoshua riportate dalla Stampa di Torino, che meglio di qualunque altro argomento riassumono il mio stato d’animo:

Quest'anno, in occasione del sessantesimo anniversario della sua fondazione, sarà Israele l'ospite d'onore al Salone del Libro di Torino. L'augurio è che l'anno prossimo lo sia la Palestina, in occasione del primo anniversario della sua nascita. Noi, scrittori e poeti israeliani, parteciperemo a quell'evento con gioia e con convinzione.

Il fattore culturale


Faceva impressione leggere sul CdS del 4 marzo le interviste a Piero Ichino e Roberto Maroni, interpellati separatamente sull’incidente di Molfetta che ha provocato la morte di cinque persone. Entrambi sostengono un punto in modo netto: le leggi ci sono, e sono buone. Il problema è che manca una chiara disposizione alla loro applicazione. Dice Ichino, professore di diritto del lavoro:

In Paesi con livelli di cultura civica più alti la frequenza di infortuni cala… In Italia la cultura delle regole è poco radicata… Va radicata nella nostra cultura l’idea che rispettare le regole è un gioco a somma positiva… Occorre rafforzare cultura e prassi della legalità.

Gli fa eco Maroni, ex ministro del lavoro:

Temo che il problema sia più di cultura della sicurezza che di normativa… In casi come quello di Molfetta il lavoratore deve essere abituato a fare la cosa giusta.

Da posizioni politiche diverse entrambi riconoscono uno scarto netto tra piano legislativo e piano della prassi, e sostengono che quest’ultimo è determinato, più che dalle leggi disponibili, dalla “cultura” delle persone, intesa come insieme di pratiche incorporate, cioè abitudini. Bene, come antropologo non posso che concordare, ma mi chiedo allora quale sia la concezione di cultura che circola, quale sia cioè la cultura culturale, per così dire, il modo in cui concepiamo il concetto di cultura. Da dove viene il livello civico di cultura, più alto in alcuni paesi rispetto al nostro? Come si può incrementare lo spazio per una cultura della cooperazione (gioco a somma positiva) opposta a una cultura della competizione (gioco a somma zero, mors tua vita mea)? Come si diffonde una cultura della legalità se non conosciamo i meccanismi di diffusione della cultura dell’illegalità? Dove si apre lo spazio per innestare una cultura della sicurezza se non si fanno i conti con i modelli di corpo disponibili in quel contesto? Intendo dire che forse (e ripeto: forse) c’è una correlazione tra un certo modello di mascolinità sfrontata (i Modi bruschi di cui parla Franco La Cecla) e certe leggerezze sul lavoro: ho bene in mente un operaio macedone che saldava quasi sempre senza maschera, perché gli sembrava una cosa “da froci”, fin quando ha perso un occhio. Può essere quindi che la sicurezza sul lavoro si leghi direttamente a certi modelli del corpo (maschile/femminile) che può/non può sentire freddo, paura, dolore? E può essere che la quota di cultura civica disponibile dipenda anche dal modo in cui si configura lo spazio che l’individuo sente proprio sulla linea casa/non casa, per cui quel che è “non casa” viene percepito come totalmente estraneo o addirittura “dell’altro” e quindi può essere rubato/vandalizzato/ignorato senza avere la sensazione di subire una perdita? Può essere che una cultura dell’illegalità si nutra dell’antitesi noi/voi che si sedimenta attorno a rigidissime linee di parentela/clientela?
Sto dicendo che per capire bene cosa si può veramente fare per diminuire i morti sul lavoro c’è bisogno di scardinare la parola magica (“cultura”) per farla diventare quel che dovrebbe essere: il tentativo di ricostruire la rete di significati che fa sì che diventi comprensibile un comportamento che dal nostro punto di vista appare azzardato o addirittura incosciente. Senza incolpare chi muore e senza pretendere che basti una legge per cambiare le cose. Se è la cultura a dover cambiare, l’unico modo per farlo è capire nei dettagli i suoi meccanismi di funzionamento e le connessioni simboliche che permette di istituire tra diversi campi della vita. Solo conoscendo la natura di quelle connessioni potremo provare a lavorare per riconfigurarle secondo i nostri obiettivi.

Fumo e arrosto


Leggo nell’intervista a Caparezza sul CdS del 17 marzo le seguenti parole:
Non è che se uno si droga diventa automaticamente un talento. Io sono antiproibizionista, ma non faccio uso di sostanze stupefacenti. Ammiro Frank Zappa: un genio che non usava droghe. Anzi, nei tour le vietava anche alla band

Chissà se la patente decisamente antisistema di Caparezza basterà a spostare un poco il dibattito dalle secche dell’antitesi proibizionisti/cannaroli. Si può cioè essere antiproibizionisti senza per questo far finta che la marijuana e l’hashish non abbiano un impatto profondo sulla psiche di chi li consuma, o che addirittura facciano “bene”. Personalmente, ringrazio il cielo (e la mia gioventù di ragazzo di provincia) per essere entrato in contatto con le droghe dopo i vent’anni, quando cioè avevo già raggiunto un certo grado di maturazione fisica. Sono sempre più convinto da quel che vedo in giro (e da quel che ho sperimentato su me stesso) che le droghe (anche quelle leggere) consumate durante l’adolescenza siano pericolose e seriamente dannose: gli sbalzi di umore che producono sono devastanti per un giovane che non ha ancora imparato a misurare le proporzioni di quella stanza in via di arredamento che chiamiamo “io”. E penso che anche per molti adulti la canna non sia solo un modo buffo di passare una serata. Vorrei insomma che se ne parlasse: non nuoce alla salute intesa come integrità idraulica e meccanica dell’organismo, su questo possiamo stare tranquilli, ma sono convinto che il suo uso sistematico durante l’adolescenza faccia molto male a una parte del nostro corpo che tendiamo a sottovalutare: l’anima.

Senatus Populusque Romanus (sive Gualterius sive Silvius)


Stavo leggendo un articolo che racconta come il Senato americano sia passato dal 77 a 23 a favore dell’intervento in Iraq nell’ottobre 2002 all’attuale posizione che vedrebbe i contrari vincere 57 a 43 e mi sono reso conto di una banalità: 300 milioni di statunitensi delegano il potere a 100 (leggi: cento) senatori, all’incirca un senatore ogni tre milioni di abitanti. Se si rispettasse la stessa proporzione in Italia, il senato dovrebbe avere (calcolando per eccesso: 60 milioni fratto 3 milioni =) 20 senatori, vale a dire mediamente uno per regione. Facendo gli splendidi, si potrebbe addirittura pensare di raddoppiare questo numero, e saremmo sempre a 40 senatori.
Mi chiedo: se 100 ce la fanno a governare la prima potenza del pianeta, come mai a noi ne servono 315? Ah, sì, forse è colpa di Joseph Grillus e dell’antipolitica che domina la bieca società USA…
(PS) Il presidenzialismo c’entra fino a un certo punto. Non dimentichiamoci che noi ora votiamo direttamente “il premier”, capo dell’esecutivo proprio come “the president”.