2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

martedì 22 gennaio 2019

Fare politica, fare scuola di politica


Ormai da diversi anni mi occupo di antropologia urbana, un trucco un po’ da imbonitori per dire che mi occupo di quel che mi pare a Roma, che è la città dove vivo da (ormai troppi) anni. In questo quadro, mi sono occupato di rappresentazioni mediatiche degli immigrati albanesi, di uomini del Bangladesh, di occupazioni a scopo abitativo e di uomini in carcere, ma non ho smesso di seguire le vicende dell’area balcanica (dove mi sono formato come antropologo professionista) o di provare ad aprire qualche pista ulteriore di riflessione nel campo dell’antropologia economica. Di fatto, vengo da una formazione di antropologia politica (identità etniche e nazionali in Macedonia, tensioni politiche e sociali sul confine tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda) che mi ha portato fuori dall’Italia, mentre l’antropologia urbana è stata vissuta come un ripiego una volta che gli impegni professionali (e ancor più quelli familiari) mi hanno tenuto ancorato alla Città Eterna: visto che sto qui, e non si schioda, meglio fare di necessità virtù e riciclare le mie competenze in nuove direzioni.
In realtà, questo strabismo tra antropologia politica e antropologia urbana dipende da un malinteso di cui sono stato vittima fino a quando la Scuola di politica “Confini al Centro” del polo ex Fienile non mi ha riportato alla radice etimologica del politico e dell’urbano, che è semanticamente la stessa, vale a dire lo spazio della città, le cose della città, i luoghi della città. Città intesa come correlativo oggettivo dell’esigenza di socialità dell’umano. Fare antropologia urbana e fare antropologia politica sono, dunque, esattamente la stessa cosa, una declinata in latino, l’altra in greco. Resta la comune sostanza: cercare di comprendere quali sono i concetti e i riferimenti valoriali che le persone usano e articolano per vivere il loro stare assieme, confliggere, cercarsi, respingersi, cooperare e competere.
Fare una “scuola di politica”, dunque, è un progetto necessariamente ancorato all’urbano, dato che fare politica (diversamente dalla guerra che è un puro agire) è l’articolazione di un discorso sulle forme possibili, perseguibili o deprecabili della vita associata (insieme = nella città come spazio comune). Fare politica è, dunque, prima di tutto, un parlare (con buona pace dei sostenitori della prassi) e parlare in un contesto educativo (scuola vuol dire quello) è ipso facto un’azione politica.
Chi può parlare, in una scuola di politica? Quelli della mia parte? I miei avversari? Persone non schierate? Scrupolosi osservatori oggettivi? Fanatici oltranzisti invasati? Per quel che mi riguarda, a una scuola partecipo perché ho bisogno di imparare, ed è più facile che io possa imparare se a insegnarmi sono – oltre che consolidati maestri che avranno ancora mille cose da insegnarmi che non so – anche persone da me ideologicamente lontane o addirittura avversari politici dichiarati. Da un sodale, da un vicino, posso imparare sempre tantissime cose se ha le risorse per farlo, ma da un avversario imparerò sempre e comunque, perché dovrò apprendere un modo per me inconsueto di individuare connessioni, di dare per scontate alcune cose e non altre, e di valorizzare cose e idee che per me, dentro il mio guscio, possono essere triviali finche non le vedo dalla prospettiva straniante impostami a uno sguardo molto diverso dal mio.
La Scuola di politica Confini al Centro ha questo intento, quindi: è una scuola di politica nel senso che non finge di essere super partes o di non avere una presa sul reale sociale, limitandosi a scrutarlo con lo sguardo asettico e disinfettato di un entomologo; ma è una scuola di politica anche perché accetta voci di ogni sorta, non pretende di orientare con la voce e il pensiero dei suoi relatori il pensiero di chi vi partecipa. Non sarà mai la singola lezione a caratterizzare la scuola di politica, ma solo l’articolato fluire delle lezioni costituisce una grammatica, una cassetta degli attrezzi dell’argomentazione politica. Chi cerca partiti presi, quadri impostati e posture ortodosse nella Scuola di politica Confini al Centro lasci perdere e segua piuttosto le scuole dei partiti politici (se ancora se ne fanno). Parimenti, stia alla larga dalla Scuola di politica chi vuole invece analisi “scientifiche” e “spassionate”, una scuola di scienza della politica che proprio non ci interessa e non ci riguarda.
Siamo una scuola di politica, e come in ogni scuola passiamo al setaccio le parole del vocabolario, tutte, quelle che ci piacciono, quelle che ci fanno innamorare, quelle che fanno schifo e, quando serve, perfino le parolacce.

lunedì 14 gennaio 2019

Altro giro, altra corsa Macro Asilo, #Umano, #StanzaDelleParole

Continua il percorso #Umano al Macro Asilo di Roma. Nel prossimo appuntamento di mercoledì 16 gennaio ore 11:00 Daniele Casolino ci pianta un casino di quelli clamorosi: amore, morte, dolore, gioia, secrezioni, deiezioni, nulla verrà lasciato al disumano, tutto verrà umanizzato, umidificato, umettato, e tutto sarà umido e urticante assieme. Il nostro viaggio dentro la #StanzaDelleParole prosegue, questa volta pieno di amorevole follia.


Per questo giro, al Macro, ci sarà UN PUNTO disponibile per gli studenti, e si prenderanno per la prima volta le firme in entrata e in uscita.



venerdì 11 gennaio 2019

Cultura delle sicurezza (sicurezza della cultura, mejo)

Allora, la cosa comincia quest'estate, quando mi chiama il prorettore alla didattica del mio Ateneo (persona squisita per cortesia e modo) chiedendomi di partecipare a un workshop sulla "Cultura delle sicurezza" che si sarebbe dovuto tenere in autunno. Faccio notare che il tema non è esattamente nelle mie corde di antropologo, e che semmai potrei partecipare con la solita modalità "decostruttiva", e subito ho pensato a Purezza e pericolo, capolavoro di Mary Douglas come punto di partenza, vale a dire la sicurezza come risposta culturale alla percezione (parimenti culturale, creazione, quindi) del pericolo, incastrata nei concetti opposti di sporco/pulito e nelle loro controparti morali puro/impuro.
Quando mi hanno fatto capire che il workshop si sarebbe svolto nell'aula Moscati (vale a dire nell'aula di rappresentanza, il salotto buono della nostra facoltà) di Lettere a Tor Vergata, ma che l'audience sarebbe stata costituita prima di tutto da personale delle Forze dell'ordine e altro personale pubblico interessato professionalmente alla sicurezza, ho cominciato a capire che non sarebbe stata un'idea grandiosa, quella di partecipare.
Ho provato a defilarmi, dato che il workshop era stato posticipato in un paio di occasioni, accampando un po' di impegni veri e un po' di resistenze diplomatiche, ma il prorettore ha gentilmente insistito per avere la mia presenza.
Ora, mettetevi nei miei panni: parlare di sicurezza, non in quanto ingegnere o informatico o addetto a qualche forma di sicurezza, ma da antropologo, vale a dire da rompicoglioni professionista e patentato. Parlare di sicurezza di fronte alle "guardie", parlare di sicurezza di fronte a persone che da sei mesi sono alle dirette dipendenze di un signore che ha fatto della sicurezza il trono del suo successo, il pettine del suo pelo sullo stomaco, la sciabola della sua versione di Duro e Puro. Come potevo restare indifferente rispetto a questa succulenta occasione? Non ho resistito, in effetti. Per la prima metà del mio intervento, quella teorica, la platea (esausta da una mattina di relazioni, ero l'ultimo, la ciliegina sulla torta) era distratta e avrà capito ben poco. Ma appena l'espressione matteosalvini ha iniziato a comparire nel mio discorso, il silenzio si è fatto più denso, e a un certo punto avevo veramente un centinaio di occhi e d'orecchie che tagliavano lo spazio denso che si era creato tra la mia voce e la platea. Ho detto queste cose, se volete leggerle. Vi dico solo che il prorettore alla fine non è stato proprio entusiasta delle mie parole.

giovedì 3 gennaio 2019

La fine della politica


Fino allo scorso anno accademico la valutazione degli studenti, per i miei moduli di Antropologia culturale, veniva effettuata con una prova scritta di dieci domande a risposta aperta su tutto il programma. Da quest’anno, visto il numero degli studenti (si sommano infatti gli ordinari studenti in corso a Tor Vergata e gli studenti del Percorso Formazione Insegnanti; ormai gli iscritti ad Antropologia culturale si contano nell’ordine delle centinaia, ben oltre ottocento lo scorso anno, siamo a quota 450 quest’anno, senza ancora gli iscritti del Percorso Formazione Insegnanti che arriveranno ora) sono stato costretto a cambiare metodo di valutazione, con un test a risposte multiple e solo due domande aperte. Ma ancora continuano a sostenere l’esame studenti residuali dello scorso anno, cui sottopongo la vecchia prova con dieci domande aperte.
Una domanda, l’ultima, dell’ultimo appello, faceva così: 
Perché la presenza straniera tra gli squatters a Roma eccede di molto la loro percentuale media sul territorio e quale ruolo attribuiscono a questa presenza i leader delle occupazioni e i mass media? 
La domanda (che in realtà ripropongo uguale ad ogni appello, visto che tratta dell’unico argomento che non ho spiegato a lezione ma che gli studenti devono affrontare per conto loro) fa riferimento a un testo che ho scritto nel 2015 (Cosmopolitismi liminari. Strategie di identità e categorizzazione tra cultura e classe nelle occupazioni a scopo abitativo a Roma”, ANUAC, 4, 2: 130-156. ISSN: 2239-625X –DOI: 10.7340/anuac2239-625X-1978) per cercare di raccontare le diverse economie morali (vale a dire i sistemi di giudizio e il loro modo di circolazione) di fronte alla presenza straniera tra gli occupanti a scopo abitativo. Il saggio parte dalla considerazione puramente statistica (un “dato”, dunque) che se a Roma ci sono circa il 12% di stranieri residenti rispetto alla popolazione, nelle occupazioni questo numero schizza ad oltre il 50%. Il numero di stranieri occupanti, dunque, non ha nulla a che fare con il modo in cui esso viene giudicato o rappresentato. La domanda infatti implica un dato di fatto (che gli squatters stranieri siano in percentuale maggiore degli stranieri tout court a Roma) e chiede che giudizio danno di quel dato di fatto da un lato i leader politici delle occupazioni a scopo abitativo (in sintesi, dico che ne danno un giudizio positivo ma tendono a sottovalutare il senso della diversità culturale di cui quegli stranieri sono portatori, per accentuare invece la loro condizione di classe) e dall’altro il sistema della comunicazione (in sintesi, dico che i media esasperano la presenza straniera nelle occupazioni e anzi alterizzano proprio l’azione dell’occupare come fosse una nuova tendenza indotta dagli stranieri, e non invece quel che è, vale a dire una tradizione italiana e anzi romanissima, visto che l’emergenza abitativa costituisce la storia di Roma da quando è capitale italiana, che ha semplicemente accolto gli stranieri come nuova massa critica).
Il saggio, dunque, su questo aspetto è lineare: c’è un dato di fatto che viene letto moralmente in modo antitetico dai suoi protagonisti politici e dai responsabili pubblici della sua rappresentazione. Ovviamente, leggo di tutto nelle risposte, spesso perché, nonostante le mie raccomandazioni, molti studenti tendono a studiare solo quel che ho spiegato in classe e reso disponibile in formato mp3. Ci sono arrampicate sugli specchi, confusioni imbarazzanti (spesso chi non ha letto pretende di spiegare perché ci siano “così tanti stranieri a Roma”) ma a volte mi capita di leggere cose più preoccupanti, come questa: 
Secondo i leader delle occupazioni e i mass media la presenza degli stranieri tra gli squatters a Roma eccede di molto la loro percentuale media sul territorio per la peculiarità con cui è sorta e si è poi diffusa l’edilizia delle periferie.
Non voglio proseguire (lo studente poi dirà che le “urbanizzazioni inesistenti o scarse hanno visto proliferare l’illegalità e l’assenza delle istituzioni”, e ormai è luogo comune il nesso tra illegalità e immigrazione, sancito nella condizione del “clandestino” che le condensa in un unico simbolo) e mi accontento di analizzare questa frase di apertura. Non vale neppure la pena di notare che “leader” e “mass media” sono accorpati in un giudizio unanime (“Secondo i leader delle occupazioni e i mass media”), anche se il saggio dice l’esatto opposto. Dobbiamo invece prestare attenzione a quel “Secondo” iniziale, che trasforma il dato in un giudizio. La struttura logica della domanda era:
Ci sono tanti stranieri tra gli occupanti (dato)Perché i leader politici tendono a sottovalutare la loro presenza e i mass media invece la sopravvalutano (giudizio morale)?
La domanda si è ribaltata in questa risposta:
Roma è stata costruita da schifo, dando spazio all’illegalità (dato)E quindi
Secondo i leader e i mass media ci sono tanti stranieri tra gli occupanti (giudizio morale)
La numerosa presenza straniera tra gli squatters (che nella domanda era un punto di partenza dato) diventa nella risposta una valutazione di ordine morale promanata dal Popolo: leader politici e giornali assieme hanno detto che ci sono troppi stranieri in città.
La cosa moralmente eccepibile diventa la presenza straniera, non il giudizio conflittuale tra leader e mass media, e l’edilizia immorale di Roma diventa un dato di fatto che giustifica il giudizio moralistico sull’eccesso di stranieri che sguazzano nell’illegalità.
Questa incapacità di distinguere una razionalità oggettiva (ci sono più stranieri tra gli occupanti che tra i cittadini ordinari: chiamatela dato di fatto, chiamatela realtà) da una razionalità soggettiva (ci sono troppi stranieri a Roma) è la fine della politica, che dovrebbe essere il tentativo di far quadrare soggettività divergenti dentro un contesto oggettivamente condiviso.
Come professore (specifico sempre per i nostalgici renziani: sono solo un professorino, ancora associato, e in più insegno una materiucola marginale come l’antropologia culturale) mi sento profondamente chiamato in causa da sintomi come questa risposta alla mia domanda, e mi chiedo che cosa dovrei fare. Di fronte a chi mi dice che “a scuola non si fa politica” io, che una scuola di politica la gestisco direttamente, cosa dovrei rispondere? Che non devo parlare di occupazioni a scopo abitativo? Che non devo parlare di immigrazione a Roma? Che dovrei tornarmene da bravo antropologo obbediente nelle Trobriand e curarmi dei miei selvaggi mentre qui Coloro che La Sanno Lunga si occupano delle Cose Importanti?