2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

giovedì 30 aprile 2020

Quant'è smart questo working?

Continuiamo a (sforzarci di) ragionare su come il Covid-19 attraversa le nostre vite in diverse direzioni. Abbiamo visto la dimensione simbolica, l'immigrazione, il carcere, le giovani generazioni, la sessualità, la religione, l'economia e altro ancora. 
Proviamo oggi, giovedì 30 aprile, a toccare la questione del rapporto tra lavoro, spazio e tempo iniziando dallo smart working, con cui molti di noi sono entrati in contatto in queste settimane di lockdown.

#𝗹𝗮𝗽𝗲𝗿𝗶𝗹𝗮𝗽𝗲 𝘁𝗼𝗿𝗻𝗮 𝗲𝗰𝗰𝗲𝘇𝗶𝗼𝗻𝗮𝗹𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗴𝗶𝗼𝘃𝗲𝗱ì 𝘀𝗲𝗿𝗮 𝗰𝗼𝗻 𝘂𝗻 𝗻𝘂𝗼𝘃𝗼 𝗮𝗽𝗽𝘂𝗻𝘁𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 🥂
👉 𝘘𝘶𝘢𝘯𝘵'è 𝘴𝘮𝘢𝘳𝘵 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘰 𝘸𝘰𝘳𝘬𝘪𝘯𝘨? 𝘛𝘦𝘭𝘦𝘭𝘢𝘷𝘰𝘳𝘰 𝘦 𝘤𝘰𝘯𝘯𝘦𝘴𝘴𝘪𝘰𝘯𝘪 𝘰𝘯𝘭𝘪𝘯𝘦 𝘯𝘦𝘭𝘭𝘰 𝘴𝘱𝘢𝘻𝘪𝘰𝘵𝘦𝘮𝘱𝘰 𝘥𝘦𝘭 𝘊𝘰𝘷𝘪𝘥-19
Ne parleremo con S̲a̲n̲d̲r̲a̲ ̲B̲u̲r̲c̲h̲i̲ (Università di Pisa), i cui campi di ricerca riguardano principalmente le questioni di genere, il lavoro e la precarietà, con un focus specifico sull’esperienza del lavorare da casa nelle professioni della conoscenza. P̲a̲o̲l̲o̲ ̲M̲a̲g̲a̲u̲d̲d̲a̲ (Università di Padova) si occupa del rapporto tra media, tecnologie e cultura, con particolare riferimento al mondo dei consumi, ai processi di innovazione e alla musica. F̲a̲b̲i̲o̲ ̲D̲e̲i̲ (Università di Pisa), ha trattato questioni teoriche e metodologiche della disciplina antropologica, attualmente è impegnato sui temi delle forme del consumo, le radici culturali della violenza, anche nel radicalismo politico-religioso, e gli studi italiani di "cultura popolare".
📍 𝗶𝗻 𝗱𝗶𝗿𝗲𝘁𝘁𝗮 𝗹𝗶𝘃𝗲 𝘀𝘂 𝗙𝗮𝗰𝗲𝗯𝗼𝗼𝗸 https://www.facebook.com/pg/LAPEdelFIENILE/posts/?ref=page_internal
𝗲 𝗬𝗼𝘂𝘁𝘂𝗯𝗲 https://www.youtube.com/user/pvereni
📌 𝗴𝗶𝗼𝘃𝗲𝗱ì 𝟯𝟬.𝟬𝟰 / 𝗼𝗿𝗲 𝟭𝟵

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domenica 26 aprile 2020

La scuola, lo spazio pubblico, la famiglia e il virus

Il modo in cui il Governo e le autorità preposte alla gestione della crisi del Covid-19 stanno gestendo l’organizzazione della fase 2 è degno di un’analisi simbolica. È la mia fissa: continuo a dire che questa crisi deve renderci consapevoli che l’utilità è l’ultima delle motivazioni dell’agire umano se si pensa che l’utilità delle azioni sia razionalmente, o oggettivamente o, peggio, naturalmente fondata, dato che le culture stabiliscono ciò che è utile, e una volta che l’hanno deciso con procedure culturali (non economicamente, non politicamente, non biologicamente) iniziano a perseguirlo tutte tronfie della loro presunta razionalità (motivo per cui chi fa proposte diverse da quelle che noi propugniamo come ovvie, giuste e ragionevoli, o è un ignorante, o è uno stupido, o è un manigoldo, con tutto quel che ne consegue sulla tenuta politica delle società in cui domina questa concezione della practical reason).

Giovedì 23 aprile il presidente dell’ISS, Franco Locatelli e membro del Comitato tecnico-scientifico che consiglia il governo per la fase 2, ha spiegato la ragionevolezza della decisione, unica in Europa, di non riaprire le scuole almeno fino a settembre, perché altrimenti l’indice di R zero salirebbe oltre l’1 per cento. È non solo utile, ma addirittura necessario, contenere l’indice R zero sotto l’uno per rallentare la diffusione del contagio e impedire il collasso del sistema sanitario. Circola da un paio di settimane un video della Cancelliera Merkel che spiega, con la precisione che il suo invidiabilissimo dottorato in chimica quantistica le garantisce, quanto sia utile tenere l’indice R zero inferiore a 1: a seconda della percentuale di superamento di quella soglia, si può prevedere con una precisione quasi assoluta il momento in cui il sistema sanitario verrebbe saturato.

Dovrebbe però far riflettere sul concetto di “utilità” il fatto che in Germania la fase due, iniziata già da una settimana, ha previsto anche l’apertura (parziale, modulata, ricca di precauzioni) delle scuole. Evidentemente, direbbe uno strenuo difensore dell’oggettività dei numeri, da noi non ci sono le condizioni per poter pensare a una riapertura delle scuole, anche se la gran parte dei paesi europei colpiti dal virus hanno programmato la riapertura (oppure non avevano mai chiuso le scuole).
Ci sono però due differenze oggettive tra la condizione italiana e quella di tutti gli altri paesi europei.
1. Diversamente che nel resto d’Europa (tranne Spagna e Regno Unito, dove comunque si sollevano dubbi sulle direttive governative) non c’è alcuna progettazione in vista. Siamo all’aspetta e spera.
2. Diversamente che nel resto del mondo, c’è una sorta di soddisfazione sadichella e paternalistica nel parlare della cosa. Sempre lo stesso Locatelli, ha infatti aggiunto: «scordiamoci i campi estivi e gli oratori. Questo deve essere chiarissimo».

Da padre, la prima reazione di fronte a un tale livello di odioso paternalismo è stata “ma come te ne esci?”. Ma da antropologo mi pare un sintomo interessante, una di quelle crepe del Reale attraverso cui traspare la sua strutturazione simbolica.

La totale mancanza di alcuna progettazione su quando e come apriranno le scuole sembra la delega allo spazio domestico del problema della riproduzione sociale, mentre si è deciso di affrontare la soluzione del problema della produzione economica, come se le due fossero separabili. Soprattutto, si delega la riproduzione sociale per intero alla sfera privata, dentro lo spazio domestico, mentre ci si organizza praticamente nello spazio pubblico su come ripartirà la produzione.

Come ho già detto, la concezione di fondo è quella che contrappone uno spazio privato, domestico, sostanzialmente sicuro, a uno spazio pubblico invece pericoloso in sé, nonostante i dati del mese di aprile pubblicati dalla Fondazione Bruno Kessler pongano la casa (con il 24%) al secondo posto (dopo le RSA, cioè altre case, che hanno il 44%) per numero di persone contagiate. Se cioè si mettono assieme le case di riposo, gli spazi domestici e gli ospedali (quasi l’11%), quattro casi su cinque di contagio nel mese di aprile si sono avuti negli spazi chiusi che presuntivamente avrebbero dovuto essere quelli più sicuri.

Incuranti del dato di fatto, si continua quindi a progettare quel che “utile” simbolicamente (la separazione tra spazio privato della cura e spazio pubblico della produzione) e pur di confermare la legittimazione morale di quella contrapposizione sociale si traduce la produzione di cittadinanza (ché questo è il lavoro dell’educazione scolastica) in cura privata dei corpi fanciulli (“teneteveli a casa e scordatevi alternative”).

Lo so che non è un concetto semplice e che spesso il gergo delle scienze sociali diventa incomprensibile, ma voglio provare a essere chiaro, in modo che chiunque faccia un po’ di sforzo possa comprendere la vera natura di quel che sta succedendo.

Quando Locatelli dice “scordatevi i centri estivi e gli oratori” sta dicendo: dovete continuare a tenervi i figli minori a casa e a non far loro condividere spazi pubblici con altri bambini.
Dice questo mentre dice anche: dovete pensare a tornare al lavoro, abbiamo bisogno di far ripartire l’economia, lo faremo con tutte le cautele ma lo faremo, lo stiamo facendo.

Per quanto riguarda invece l’educazione, la vita sociale dei vostri figli, non stiamo facendo nulla e anzi vi facciamo notare che il nostro piano è che ve li cucchiate voi, ancora a lungo. Senza alcuna indicazione del progetto, dato che progetto non c’èci può essere in questa condizione.
Perché data questa condizione (non abbiamo idea se ci sia immunità, né quanto duri, né abbiamo all’orizzonte un vaccino o una cura per la malattia conclamata) non ci sarà mai la possibilità di pensare al ritorno della socialità pubblica per i bambini, quindi la riapertura di scuole e oratori, dato che non ci sarà mai un tempo (nella condizione attuale) secondo cui i bambini potranno relazionarsi da vicino, giocare, interagire e, ma guarda un po’, contaminarsi anche con virus e batteri, come sempre hanno fatto i bambini.

Siamo di fatto paralizzati in questa concezione dello spazio: se tutto il pubblico è pericoloso, si privatizza quel che si può, riconducendolo alla presunta sicurezza della sfera domestica, addomesticandolo letteralmente. “Scordatevi gli oratori e i centri estivi”, con il tono irritante del patrigno di fronte ai figliastri riottosi, significa solo che mentre la produzione non regge più di tanto alla sua riduzione al domestico, e tocca tornare nei “posti deputati”; l’educazione dei nostri figli, la loro socializzazione come cittadini che condividono lo spazio pubblico (la scuola, l’oratorio, il centro estivo, il parco, il campo sportivo) si può posporre a piacere o, meglio, a dovere, perché “non ci sono alternative” e dobbiamo essere pratici, mica possiamo perder tempo a far filosofia sulla bellezza dell’educazione e sulla funzione socializzante del gioco.

Basterebbe prendere sul serio i dati sui contagi di aprile e impostare una strategia consona, per ribaltare tutta la prospettiva. Poniamo che il nostro sistema culturale avesse posto come primariamente utile il trasferimento intergenerazionale dei valori, quella che chiamiamo appunto educazione, e non il contenimento dei contagi. Poniamo eh! Il mio vuole essere solo un esperimento mentale.

Se quel che conta è il trasferimento delle conoscenze attraverso le generazioni e non, poniamo, la “solidità del nucleo domestico”, come ministro dell’istruzione il mio obiettivo sarebbe stato antitetico a quello che si è finora praticato. Qui abbiamo ridotto l’educazione a una rogna che devono sbrigare i genitori a casa (senza ottenere alcuna esenzione dai doveri lavorativi, se non a caro prezzo) con il risultato che ci si infetta tra parenti conviventi a forza di stare assieme. In un altro contesto valoriale si sarebbero tenute le scuole aperte, si sarebbero controllati regolarmente tutti gli adulti del settore educativo (come si sarebbe dovuto fare, e nei casi di successo si è fatto, con il personale medico e paramedico degli ospedali) e si sarebbero imposte forme di controllo dentro la famiglia, per evitare che le giovani generazioni infettassero genitori e nonni coi virus presi a scuola, che i figli e i nipoti venissero infettati dai virus portati a casa dalle RSA o che i genitori infettassero nonni conviventi e figli con i virus presi sul posto di lavoro.

In questo strano mondo, le lezioni e i compiti i ragazzi li avrebbero fatti a scuola, così come a scuola, al parco e all’oratorio avrebbero potuto giocare e infettarsi; mentre le norme di prevenzione i parenti conviventi le avrebbero fatte rispettare dentro casa: mascherina, distanza di sicurezza, lavaggi frequenti, evitazione del contatto fisico.

Vedo già lo sguardo perplesso del familismo italiano: ma come, e ogni scarrafone? E i piezz’e core? E le mamme che imbiancano? Io non ho nulla contro questo sistema di valori, ma mi basta che si riconosca pubblicamente che “l’utilità” della chiusura delle scuole dipende da questa primazia morale dell’immagine della famiglia come sistema sociale protetto che occupa uno spazio fisico protettivo, la casa. Un’immagine che io chiamo culturale, ma che qualcuno potrebbe serenamente dire ideologica. Non sto dicendo che paesi come la Danimarca o la Corea del Sud siano “meno ideologici”, ma piuttosto che hanno messo in atto un’altra ideologia, una gerarchia di valori diversa dalla nostra.

Non siamo condannati a tenere le scuole chiuse, non è vero che l’indice R zero si alzerebbe necessariamente se le scuole riaprissero domani. Si alzerebbe (e si alzerà comunque, quando le scuole apriranno) perché pensiamo pregiudizialmente che le strade siano insicure e che le case siano sicure, e quindi non facciamo abbastanza per tenere il virus sotto controllo dentro le mura domestiche. Che lo spazio privato della casa sia sicuro è una favola. Neppure molto bella se aggiungiamo i dati della violenza domestica. E credere alle favole è parte essenziale della nostra condizione umana. Non dimentichiamoci, però, che possiamo ancora scegliere che favole vogliamo raccontarci, e quella alle quali vogliamo credere.





mercoledì 22 aprile 2020

Il prezzo del Covid-19

Non si era mai visto il prezzo del petrolio in negativo, cioè i produttori disposti a pagare pur di vedersi calare le scorte. Non sanno letteralmente più dove metterlo, negli States. "Non si era mai visto" sta diventando uno dei tormentoni del Covid-19. Non si erano mai visti tanti americani chiedere il sussidio di disoccupazione, non si erano mai visti tanti lavoro fatti da casa, non si era mai visto un crollo del PIL quale quello che sta avvenendo, non si erano mai visti stati "liberali" disposti a investire cifre mastodontiche pur di tenere in piedi "l'economia" dei loro paesi.
Andamento della disoccupazione in USA dal 2004
(fonte NY Times)


Sta succedendo qualcosa che pochissimi (forse nessuno) aveva previsto. Quando ci fu la crisi dei subprime pensavamo di averle viste tutte. E invece ne stiamo vedendo di ogni e di nuove.

L'antropologia culturale ha un suo modo di vedere le "questioni economiche" (per chi fosse interessato qui si possono seguire le prime dieci lezioni del mio corso di Antropologia economica di quest'anno) ma abbiamo sempre bisogno di discuterne con colleghi economisti.
Per questo oggi, 22 aprile, nell'ambito delle attività del LaPE - Laboratorio di Pratiche Etnografiche, ci troviamo per un nuovo aperitivo alle 19 sulla pagina Fb del Laboratorio e anche sul canale Youtube del "Famo salotto", assieme ai colleghi e amici Michele Raitano, Paolo Paesani e Alessandro Simonicca.
Parleremo di lavoro (che succede? che fine sta facendo? costa sta diventando?), di investimenti (quanto mettere? quanto prendere? Chi deve mettere? Chi deve prendere?) e di sviluppo (che cosa significa? che direzioni deve prendere?).

Per gli studenti di Antropologia culturale la partecipazione attiva (commmenti in diretta sulla pagina Fb, interventi telefonici, commenti in diretta sulla pagina YouTube) consente di acquisire ancora punti validi per la valutazione finale del corso, per chi ancora dovesse verbalizzare.

venerdì 17 aprile 2020

Rest after homework

Vincent van Gogh (1853-1890). La méridienne or the Siesta (inspired by Millet. December 1889-January 1890). Oil on canvas. Cm 73 x 91. Re-creation by Valeria Trupiano and family using pyjamas, school material and couch.
Santiago, who poses in the picture with his sister Amanda, is a fan of the works of Van Gogh and therefore we have chosen one of his works, "La méridienne", on display at the Musée d'Orsay in Paris, which reproduces the siesta of two farmers in the fields. The yellow of the hay is the same as the couch where we spend a lot of time playing games, watching movies... studying and relaxing, just like the two little brothers do.
Nessuna descrizione della foto disponibile.

martedì 14 aprile 2020

Narrazioni Contro


Il LaPE è stato per mesi il cuore di un progetto finanziato dall'Ateneo di Tor Vergata per attività organizzate dagli studenti. Il progetto ha prodotto un libro/evento che è insieme un'etnografia, un'autoritratto collettivo, uno squarcio sociale e un sacco di cose belle. QUI potete scaricare l'anteprima in pdf del libro. il 15 aprile, dalle ore 19, sulla pagina Fb del LaPE e sulla playlist Famo Salotto di YouTube potete partecipare alla festa in diretta per introdurre il libro. Questo è il video di presentazione fatto da alcuni degli autori. Partecipate numerosi se volete capire cosa succede in una periferia urbana e nel cuore di chi vive la città di Roma da una prospettiva speciale.

giovedì 9 aprile 2020

Perché parlare è importante anche quando costa fatica


Alla fine del modulo base di antropologia culturale, da molti anni chiedo agli studenti e alle studentesse di comporre una tesina finale, un piccolo esercizio di seimila battute al massimo in cui gli strumenti appresi durante il corso (teorici e metodologici) vengono applicati a un oggetto da loro già conosciuto, che ora viene visto da una prospettiva nuova (possibilmente antropologica…), inedita soprattutto per chi ci ha lavorato costruendola. Abbiamo, per esempio, imparato cosa sia la “cultura” in senso antropologico, la “triangolazione complessa”, o la “antropopoiesi” o cosa intendiamo dicendo che la cultura è “appresa” o “condivisa”, o in che senso diciamo che la parentela è una “costruzione sociale”. Si tratta di una cassetta degli attrezzi limitata (l’esercizio è condotto per un modulo introduttivo di 30 ore) ma è molto interessante vedere i risultati. In questa cartella, chi vuole può leggere una ventina dei molto più numerosi esempi che ho selezionato in questi ultimi anni. Non sono tutti i migliori, l’accumulo di tesine da leggere spesso mi costringe alla fretta e alla trasandatezza, e nella cartella generale (non la selezione casuale che ho qui incluso) ho raccolto soprattutto tesine esemplari, che possano cioè servire da guida per chi non ha idee, tralasciando per forza le stesure più pirotecniche, troppo lunghe, troppo azzardate, troppo creative per funzionare da modello standard.
Uso questa strategia da molti anni, perché credo che l’antropologia come sapere specialistico abbia da tempo esaurito la sua funzione originaria (che era documentare le vestigia delle culture “altre”, lontane nell’esotismo o vicine nelle campagne) e debba accettare di essere una scienza sociale per la cittadinanza in generale, come la sociologia, l’economia e la psicologia e come queste possa mantenere una professionalità solo a patto di rendersi disponibile, con esclusivo spirito di servizio, per contribuire alla crescita delle comunità dove produce il suo sapere. Io, cioè, parlo ancora di Macedonia, di carcere o di Bangladesh, ma mi interessa poco (proprio poco, ribadisco) istruire dei giovani collezionisti di stranezze e preferisco pensare che quelle lezioni in cui parliamo della stregoneria azande o del cannibalismo azteco possano aiutare gli studenti e le studentesse a capire meglio il mondo dove loro vivono.
Un mondo che, ormai è chiaro, si sta di nuovo dividendo in qui domestici e variamente inaccessibili ancora per molto tempo e che ci costringerà a realizzare un salto culturale, tipico dei momenti di mutamento sociale ed economico come quello che si prospetta. Ecco, io credo che il mio mestiere sia anche portare, per come posso, il contributo della mia disciplina nella comunicazione non specialistica, per sostenere l’intera cittadinanza, di nuovo, senza prosopopee, come un idraulico a cui racconti che la caldaia perde e lui prova, per quel che ci capisce, a darti una mano perché lui, quelle cose, le sa.
Cosa sa l’antropologia? Sa che la realtà sociale è intessuta di una fibra simbolica condivisa che non si può trascurare, che è costitutiva di quella realtà sociale quanto il modo di produzione, le forme dello scambio, le strutture del potere costituito, il complesso biologico e chimico della materia, le inclinazioni caratteriali e le determinazioni genetiche degli individui e dei gruppi. Non c’è nessun altro che parla di questa rete simbolica sociale (gli psicologi ovviamente parlano di quelle individuali e dei loro intrecci sociali) con una competenza professionale adeguata (e molto spesso anche noi antropologi siamo molto poco adeguati, quanto a competenza, lo so).
Ma se il Coronavirus distrugge i ritmi della vita quotidiana, io credo che sia necessario dirlo e raccontarlo, anche alla radio, con le nostre competenze antropologiche, che ci ricordano che il tempo è costruito attraverso la condivisione di rituali, ciclicità di diverso spessore sempre gestite collettivamente (i ritmi privatizzati del tempo si chiamano nevrosi).
Se il Coronavirus frantuma la capacità di aspirare, cioè di prospettare e progettare un futuro, io credo che questo impoverimento culturale vada raccontato, anche in un numero di Vita, una densissima rivista del Terzo settore. Non certo spiegato, per l’amor di Dio, non siamo in grado di produrre teorie esplicative di nulla, come antropologi, ma raccontato, portato cioè alla coscienza collettiva per guardarlo e capire, poi, insieme, cosa farci.
Se il Coronavirus sembra entrare come un cuneo potente a spezzare ulteriormente il tessuto di pratiche che tiene assieme le generazioni (i nonni non cucinano più per i nipoti; gli orfani adulti non hanno potuto seppellire i loro morti) io credo che anche questo vada raccontato, anche all’estero, alla radio (qui c’è l’audio, qui invece trovate la trascrizione e la traduzione in italiano) o per iscritto, in un blog divulgativo che però racconta il tema complicato del rapporto tra coronavirus e mobilità, con la nostra sensibilità e con la nostra strumentazione analitica.
Raccontato, quindi: non vezzeggiato nei nostri tic lessicali, nei nostri argomenti esoterici da spacciare dal pulpito del prossimo convegno per iniziati; non ora, almeno, non su quel che sta succedendo. Come scienza teorica l’antropologia è morta (evviva; io credo anzi che la buona antropologia non sia mai stata teorica in quel senso) ed è ora che cominci sul serio a pensarsi come scienza sociale; sociale nel senso che ha una funzione sociale da svolgere, prima che una teoria sociale da elaborare. Come quelli che scrivono i software GSM con i quali ci orientiamo; oppure quelli che fabbricano i tappetini con le bolle antiscivolo da mettere sul fondo delle vasche da bagno nelle case degli anziani: non sarà il massimo della creatività, ma fanno un lavoro importante perché utile, e chiunque sia fragile sa quanto basti poco per dare un vero aiuto.
Abbiamo bisogno di un bagno di umiltà e di franchezza: non sappiamo spiegare nulla (come un critico letterario non ti potrà mai spiegare perché Leopardi ha scritto L’infinito) ma forse abbiamo qualche strumento per capire, e aiutare a capire (come un critico ti porta dentro la comprensione de L’infinito, se sa fare bene il suo mestiere, e quel che era fuori di te, appeso a un muro o dentro una biblioteca, diventa parte della tua vita consapevole grazie al contributo di quella lettura).
Per questo continuiamo, con i meravigliosi membri del LaPE - Laboratorio di Pratiche Etnografiche, a fare le dirette quando possiamo, per come possiamo. Non tutto riesce, non sempre le mie domande sono adeguate, ma ci proviamo, e continueremo a farlo.