2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

venerdì 20 settembre 2019

I padri e la patria


Note per la lettura di Consigli per essere un bravo immigrato, di Elvira Mujčic, Lit Edizioni srl (Elliot), Roma, 2019, pp. 91.

Ho letto i primi lavori di Elvira Mujčic in quanto “esperto dei Balcani” e ora mi ritrovo a leggere l’ultimo lavoro in quanto “esperto di immigrazione” o qualcosa del genere.
Verrebbe voglia di tornare ai comodi modelli dello strutturalismo per comprendere il filo del libro: Elvira, bionda, bianca, italiana accolta bambina come rifugiata bosniaca in un mondo in cui ancora esisteva la compassione, si trova ad aiutare (ci torno dopo, su questo verbo) Ismail, africano gambiano, nero, dinoccolato, che non riesce a farsi riconoscere la protezione internazionale per il suo caso di perseguitato politico.
Li uniscono due tratti, uno più superficiale (ma molto connotativo dello straniero, in Italia), vale a dire la tradizione familiare musulmana (che per Ismail permane nella recitazione delle sure del Corano ascoltate con le cuffiette, mentre per Elvira è solo il ricordo dei riti di fine Ramadan celebrati dal nonno a riportarla in quella sfera); e una invece più profonda, personale, vale a dire la tendenza al controllo eccessivo.
Che cosa mai dovrà fare, Elvira, con il suo status rassicurante di scrittrice italiana ex straniera, per poter aiutare questo straniero incapace di scrivere, di compilare cioè in modo credibile il modulo C3, la domanda per la richiesta di protezione che include il racconto biografico dettagliato degli eventi che legittimano la richiesta di essere accolto nel nostro paese? Una non-abbastanza-straniera con un eccesso di scrittura che deve aiutare un troppo-straniero con una carenza di credibilità come narratore. È Maurizio (un operatore del terzo settore che amava la Bosnia da prima della guerra e che lavora con gli immigrati) a fare il mezzano di questa coppia sbilenca, in cui una ex straniera dovrebbe spiegare a un futuro immigrato come si scrive una storia credibile. Ecco, il punto centrale di tutto il libro è la disamina di questo aggettivo associato al racconto. Che cosa fa di una storia una storia credibile?
Si scoprirà (e dopo Nietzsche non abbiamo scampo) che la verità narrativa è una struttura retorica, una serie di tropi letterati, di stilemi e di aspettative del lettore portate a compimento. Quel che è successo non ha alcuna importanza. Oppure, per provare a dirlo in modo meno pessimistico, quel che conta della narrazione non è quel che è successo, ma quel che significa che sia successo. Una narrazione condotta dentro un senso, per quanto artefatta, sarà sempre più credibile di quella che gli antropologi chiamano thin description, vale a dire un racconto senza un ordito significativo a sostenere la trama.
Se non si entra in questa logica del senso del racconto, non succede praticamente nulla nelle pagine del libro: una richiesta di protezione internazionale viene rigettata, e una scrittrice dovrebbe aiutare un immigrato a compilare un ricorso facendo leva sulle strategie retoriche del racconto credibile. Si badi che Elvira è interpellata da Maurizio in questo ruolo di assistente dell’eroe per la sua duplice natura di scrittrice e di ex straniera, vale a dire di una che dovrebbe saperla lunga su come si articola una storia per essere accolti in Italia. Solo che Elvira non ha mai dovuto esercitare le sue competenze di narratrice come richiedente asilo perché veniva da Srebrenica, e nel massacro del luglio 1995 ha perso il padre e lo zio ma non ha avuto bisogno di raccontare questa storia per essere ammessa in Italia, quella era un’altra epoca, in cui ancora la compassione era un sentimento spendibile in pubblico e dalle pubbliche istituzioni. Ismail invece cerca di entrare in un mondo che parla di responsabilità e opzioni individuali, di codici e regolamenti, e ha bisogno di uniformare il suo racconto ai modelli accettabili.
In realtà Elvira non ha consigli da dare a Ismail per essere un bravo immigrato, e condivide con lui racconti, cercando di comprendere cosa c’è che non va nella storia del giovane gambiano.
In questi incontri tutti vissuti nel quartiere romano di San Lorenzo, appaiono all’orizzonte le due altre figure narrative del libro, che sono insieme la radice dello spaesamento e del dolore, e il perno del ricordo e del possibile riorientamento morale dei due. Non aspettatevi lunghe pagine, né ritratti dettagliati, sono però cunei narrativi che tengono in piedi tutto il romanzo: sono il padre di Elvira e il padre di Ismail.
Il primo compare già nel sogno all’inizio del libro (Elvira bambina entra in un cinema “vieni, vieni a vedere cose finte che sembrano vere”, ma poi un’ascia squarcia lo schermo e una mano trascina Elvira oltre la parete della finzione: “vieni, qui le cose sono vere, ma sembrano finte”), ma è alla fine del decimo capitolo che prende la forma inaspettata di un fenicottero:

…la prima volta che li avevo visti volare nel cielo di Cagliari erano una ventina, si erano levati in volo dalla salina e i loro corpi rosa si erano stagliati nella luce del tramonto […] Con mio padre guardavamo i documentari sui fenicotteri che, per i nostri climi e latitudini, ci apparivano come animali fantasmagorici, e fare un viaggio per accertarne l’esistenza era stato uno dei progetti più grandiosi della mia infanzia.
Quel giorno a Cagliari, l’incontro con questi uccelli formidabili mi aveva fatto pensare a mio padre […] Lui non aveva fatto in tempo a vedere i fenicotteri nei trentaquattro anni della sua vita e questa brevità del tempo, quest’atto mancato, l’innaturalezza dell’essere una figlia più vecchia del padre, la definitività con la quale tutte le sue esperienze si erano arrestate, mentre le mie andavano avanti, l’impossibilità di stabilire un dove e un quando di quella morte aveva fatto sì che lui non fosse mai diventato passato. Era presente come una sottile mancanza tenuta viva da un dialogo immaginario… (pp.70-71).

Di nuovo, non c’è alcun evento, non c’è bisogno che succeda nulla per suscitare questo ricordo e questo legame, basta l’immagine di una bambina in divano con il padre, a fantasticare su viaggi esotici alla caccia di uccelli visti in tv. Troppo poco, verrebbe da dire, per essere credibile come storia…
Anche il padre di Ismail appare la prima volta in un episodio parimenti privo di eventi. È il primo giorno di scuola per Ismail, ma il padre non si vede, la sua barca forse non è rientrata dalla pesca e il figlio lo cerca con un crescente presentimento:

Inciampava nelle reti da pesca e quando stava quasi per arrendersi alla disperazione, la mano grande dalle dita callose di suo padre si era posata sulla sua testa; lui aveva sentito qualcosa sciogliersi nel petto e si era messo a piangere come fosse un bambino piccolo, mentre il padre rideva e gli accarezzava la testa e domandava: «Come hai potuto pensare che tuo padre ti avrebbe abbandonato?»
In seguito era successo molte volte di essere lì lì per arrendersi alla disperazione, ma quando arrivava a quell’esatto punto si ricordava di quel giorno in spiaggia e allora, come per una questione di superstizione, si riprendeva e diceva che no, non si sarebbe lasciato andare così, le cose sarebbero andate bene, come se il solo fatto che una volta aveva ritrovato il padre perduto garantisse tutti i ritrovamenti futuri. (p. 73).

“La mano grande dalle dita callose” non è vista da Ismail, ma percepita con il tatto, mentre suo padre lo carezza. Il padre è prima di tutto un contatto, uno spazio che solitamente lasciamo alle madri, ma questo padre materico e nodoso (“io sento che sono due persone: sono me e sono mio padre” dirà a pagina 78) sembra il converso del padre di Elvira, ricordato tramite la visione della sua eterea alterità animale.
Sono entrambi padri perduti, nomi, ricordi da nulla, un documentario alla televisione, una paura da bambini. Eppure, è dentro quei ricordi che il lettore sente la commozione del tempo ritrovato come senso. Non c’è bisogno, verrebbe da dire con ritrosia, che ci raccontiate le azioni bestiali degli assedianti di Srebrenica e della polizia del dittatore del Gambia, perché il vostro dolore e la vostra sofferenza sono tutte raccolte in quella mancanza del padre che non può che essere anche mancanza della patria, di un posto e di un tempo in cui il futuro non aveva ancora preso la forma che poi vi avrebbe portati fino a questo bisogno o necessità di raccontarlo. Un futuro segnato da una perdita insanabile, dalla perdita per eccellenza, si dice.
Cosa possiamo ancora raccontare di fronte alla perdita del padre? Quale altra storia ha senso, dopo quella? Elvira e Ismail si pongono, di nuovo, in posizione speculare con le loro risposte. Elvira diventa addirittura scrittrice, fa di quella apparente ineffabilità il motore della sua vita, mentre Ismail deve convertire quel racconto che non sa dire in un agire compensatorio (devo restare nel vago per evitare accuse gravi di spoileraggio…): se non può dire quella mancanza, deve fare qualcosa per equilibrarla: “riparare, recuperare, salvare quello che si può per rimediare a quello che non si è potuto fare” (p.85).
C’è, infine, un ultimo tratto che mi ha colpito di questo libro esile e denso, ed è la presenza dei sogni. Per Elvira sono un modo per aprirsi al racconto, ma per Ismail sono un legame con i defunti: quando smette di sognare, teme di aver perso contatto con i suoi antenati, che loro si siano scordati di lui. Per entrambi i protagonisti, così, il sogno è il tramite necessario all’apertura di un senso, orientato al futuro della scrittura per Elvira o radicato, per Ismail, nel passato della propria storia, per quanto indicibile. Il sogno quindi lega il tempo e il racconto, consente di affacciarsi sui volti sconosciuti dei prossimi lettori e nei tratti consueti dei familiari perduti, e lascia in chi legge una sottile malinconia di storie altrui, che così poco somigliano alle nostre, eppure riusciamo, nel mistero della scrittura, a sentirle parte di noi.

giovedì 5 settembre 2019

Ecco cos’è


Vista la lista dei ministri, alti e bassi come stato d’animo. Mi sorprende che gli esponenti del M5S abbiano accettato Luciana Lamorgese (la prefetta anti-lega) al posto di Matteo Salvini, con cui avevano “governato tanto bene”, a sentire loro. Ma è stata una sorpresa di breve respiro, subito accoppiata da un’illuminazione. Ecco cos’è che mi ha fatto sospettare dall’inizio del Conte 2, la mancanza di fiducia.

Non ho mai provato simpatia per il MoVimento, probabilmente per ragioni insieme di stile (la rabbia come espressione pubblica mi ripugna) e di distinzione sociale (mi considero, ebbene sì, decisamente più colto e informato del “grillino medio”, oltre che inserito in un tessuto sociale che non mi fa vivere con frustrazione il mio ambiente lavorativo e la mia rete familiare e amicale, insomma, probabilmente sto troppo bene con me stesso nel mio ambiente per potermi identificare con un travaso di bile costante); ma è anche vero che ho spesso manifestato una certa indulgenza proprio per il tipo umano grillino, tutto ingrifato nei suoi risentimenti, nei suoi vaffa, nel suo vantarsi di essere un anti-PD ignorante fino a suscitare tenerezza. In questi anni romani (dove sono onnipresenti nelle amministrazioni municipali, con monocolori ovunque nelle periferie) ho anzi avuto modo di conoscerne diversi nelle posizioni di decisori pubblici, e ne ho spesso apprezzato l’onestà adamantina e il vero spirito di servizio con cui hanno assunto l’ingrato compito di vedersi bombardati dai whattsapp dei meetup incarogniti perché non gli hanno ancora spostato i cassonetti e perché la grondaia della scuola ancora perde. Insomma, ho considerato gli attivisti 5 stelle degli idealisti sprovveduti, spesso totalmente incompetenti su tutto ma bonaccioni e volenterosi, pronti a sbattersi per la buca sulla via e insomma dei potenziali ottimi portieri di condominio, goffi, certo, ma disposti a mettere le mani in pasta nella cosa pubblica (per la prima volta in vita loro, fulminati sulla via dei vari Grillo tour).
Per questo, ero estremamente favorevole al dialogo col PD dopo le elezioni del 2018 e ho accolto con stizza il narcisismo plebeo di Renzi e la sua odiosa “politica dei popcorn”.

Ma ora che il destrorso Luigi di Maio ha prodotto una metamorfosi così profonda del movimento (iniziata però già nella scorsa legislatura, quando i 5S si rifiutarono di votare lo ius soli temperato per le seconde generazioni) e ha dimostrato (con gentaglia come Toninelli) che si può essere carogne fino in fondo pur essendo della prima leva del MoVimento; che insomma dietro la rabbia dei vaffa day non c’era solo l’indignazione goliardica della cittadinanza ferita, ma anche (e molto solido, in effetti, al punto da diventarne il Portavoce politico) il ghigno del gangster senza scrupoli pur di gestire la banda, ecco a quel punto a me è venuta meno la naturale fiducia che provo per il genere umano, tanto più se molto diverso da me.

Lo so che è del tutto improduttivo come atteggiamento, ma sono troppo vecchio per cambiare uno stile che mi porto dietro da sempre, vale a dire la convinzione che chi di sta di fronte è una persona tutto sommato per bene, che non tira necessariamente a fregarmi e che sta cercando di dirmi con sincerità come la pensa. Questo approccio ottimista mi ha ovviamente procurato qualche rogna, ma in generale mi ha facilitato tantissimo il mio lavoro di antropologo, soprattutto sul campo, perché instaura fin da subito un patto di fiducia con l’interlocutore. Bene, questo patto, con i 5 stelle del primo Governo Conti, è completamente saltato. Io di ’sta gente proprio non mi fido, mi sembrano infidi oltre qualunque accettabilità e proprio la nuova Ministra degli Interni mi sembra un sintomo gravissimo che la mia sensazione è fondata: se gli sta bene Lamorgese dopo Salvini, vuol dire che proprio gli sta bene tutto, pur di comandare. Gli avessero proposto Martin Luther King o Joseph Goebbels, andava bene uguale.

Spero che il PD resti sempre in allerta, pronto a staccare la spina appena si scoprissero ulteriori voltafaccia in arrivo. Il contatto tra PD e M5S andava fatto prima di tutto sui territori, nelle amministrazioni locali, provando a stanare i 5 stelle dalla loro bulimica apatia ideologica, che gli fa ingoiare tutto e il contrario di tutto. Il PD si sarebbe dovuto assumere la responsabilità del fratello maggiore che deve prendersi cura del fratello un po’ tonto ma con tanto potenziale. Ho veramente paura che questa alchimia delle stanze arcane non porterà nulla di buono alla base del PD (tutto a vantaggio della faciloneria e superficialità ideologica della base dei 5S) e spero tra l’altro di uscire presto da questo stato d’ansia cui da qualche settimana somatizzo i miei timori politici.

mercoledì 4 settembre 2019

E allora il PD!


(Sistemo e aggiorno qui alcune cose che ho scritto a frammenti su Facebook in queste settimane di crisi di governo).
Ora che le acque, almeno per un po’, si calmeranno, vale la pena di fare una rapida riflessione sui pro e contro di questo nuovo governo. Come al solito, non mi interessano i rapporti materiali, ma quelli simbolici, e che forma stiano prendendo o abbiano preso in questo mese agostano.
Io vedo due direzioni contraddittorie, una di sviluppo negativo, l’altra invece più ottimista e quindi con quella concluderò questa mia nota.

1. Non siamo tutti uguali
L’aspetto più deleterio di questo governo è che fa, inevitabilmente un mischione. Governare con gli stessi che solo un mese fa governavano con la destra più becera mai vista nell’Italia repubblicana è un danno di immagine grave per il PD, una macchia identitaria che solo una buona prassi (sui cui dubito molto, con questi alleati) potrà rimuovere. Al di là degli aspetti morali (governare con questa feccia? Mai!) che trovo stucchevoli, mi preoccupa la confusione cognitiva, che si sta espandendo anche dentro il partito. Secondo questa confusione, il PD è solo un altro partito come gli altri, senza alcuna specificità (non parlo di superiorità morale, eh), una cinica macchina di governo e potere senza alcuna motivazione di ordine ideale. Questa postura ha già prodotto l’effetto interno del renzismo, e quello esterno dell’antirenzismo tradotto in antipiddismo viscerale. Intendo che Minniti senza Renzi non avrebbe praticato le sue imbarazzanti politiche di contenimento all’immigrazione e non avrebbe in un certo senso sdoganato il razzismo sottotraccia della sinistra italiana. La conseguenza di questo sdoganamento è soprattutto la convinzione, anche da parte di membri del Partito Democratico, che vi sia una qualche continuità tra le politiche del PD renziano (e alcuni tornano indietro fino a come Veltroni trattò (vergognosamente) la questione rom a Roma) e quelle dei Decreti sicurezza, e che quindi non ci può ora essere scandalo se il PD governa con quelli che quei decreti li hanno comunque votati e se ne sono anzi assunti la responsabilità. Sul fronte opposto, antirenziano, l’argomento della continuità è utilizzato per sancire la totale commistione del Partito con la destra e la sua ideologia, deridendo chiunque ancora veda nel PD un partito di Centrosinistra. Io credo che questo argomento continuista (sottutugualidanavita) sia non solo nocivo alla sopravvivenza del PD, ma profondamente errato.
L'argomento "e allora il PD?" è noto e stantio. Che i governi precedenti abbiano lavorato poco e male per i diritti dei migranti è cosa nota e risaputa almeno dalla Bossi-Fini (e si può ragionevolmente argomentare dalla legge Martelli e dal sistematico uso della nozione di emergenza che ha condotto a casi costanti di eccezionalità, girati dal positivo al negativo negli anni). Ricordo però, dieci anni fa, un bastardissimo Maroni gongolare il suo "finalmente cattivi!" dopo l'ennesima porcheria e quel ricordo è per me promemoria indelebile che NON dobbiamo dimenticare che ogni legge ha un contenuto tecnico e una dimensione valoriale, definendo cioè non solo cosa fare ma anche cosa il mondo è simbolicamente per le persone sottoposte a quella legge. L'intento valoriale dei decreti sicurezza (come nel caso della legge sulla legittima difesa) è preponderante su quello tecnico fattivo. Dicono che le ONG sono associazioni a delinquere e che ci sono esseri umani di seconda categoria rispetto agli italiani. Nessuna legge (dopo le leggi razziali del 1938), aveva più osato formulare un tale sistema di valori. Ridurre tutto ai tecnicismi del contenuto legale significa cedere alla logica salviniana incorporata dai 5S.
Dobbiamo semplicemente distinguere i legislatori come Turco-Napolitano e financo Minniti da fomentatori dell'odio pubblico come CasaPound e Salvini. Se è tutto uguale poi si finisce nella palude morale in cui è finito il M5S, che per non essere né di destra né di sinistra ha avallato le peggio sconcezze definitorie e se ne vanta pure. In questa fase, se non siamo in grado di distinguere i nemici dai compagni (per quanto compagni "che sbagliano") rischiamo di fare più danni col fuoco amico. Magari pure benintenzionato. Siamo nel pieno di una guerra culturale: dobbiamo dire da che parte stiamo e rimproverare i nostri sodali se sbagliano, ma non confonderli mai, mai, coi nostri avversari.

2. La politica è dire alle persone che cosa sono
Questo argomento negativo nella valutazione del governo in fieri può essere però anche impiegato per trovare uno spiraglio di luce. Dire che la Legge istituisce di fatto quel reale che si limiterebbe a regolare è un argomento che si può estendere alla Politica in generale. La politica, infatti, non è solo l’arte del possibile, la capacità di realizzare i propri obiettivi o una forma regolata di conflitto. La politica è anche un discorso sulla realtà sociale, una “definizione” di quella realtà parimenti istitutiva.
Per sconfiggere il salvinismo “sul campo” (battaglia che deve ancora cominciare) si sarebbe dovuto chiedere alla gente comune, ai colleghi, ai vicini, ai parenti, agli amici, di smettere di credere di somigliare all'immagine che di loro hanno dato i politici del primo governo Conti. Non siamo un popolo di individualisti frustrati, di tremebonde beghine, di criminali corrotti e odiatori di professione. Quelli sono gli sfigati del mondo, che sempre ci sono stati e sempre ci saranno, nelle loro patetiche frustrazioni individuali, nelle loro sconfitte personali, nelle loro meschine e anche commiserevoli solitudini. Gli italiani sono un popolo impegnato nell'associazionismo, nel volontariato, nei progetti di realizzazione del bene comune. Gli italiani sono un popolo da lunghissimo tempo abituato alla differenza e senz'altro non spaventato storicamente dalla differenza. Gli italiani non hanno una fede incrollabile, hanno pratiche tolleranti, e anche se spesso fa loro comodo che qualcuno tiri la carretta al loro posto, non gli va mai che poi quel qualcuno cominci a pisciare fuori dal vaso, a supporsi predestinato, a dare ordini non richiesti. Gli italiani sono, nella loro grandissima maggioranza, poco interessati a questioni di razza e primazia, tutti bastardi come sono, figli dei nord e del sud, dell'est e dell'ovest, sempre in cerca di radici ma sempre capaci di portarsele a spasso.
Gli italiani sono pigri, questo è vero, ma la pigrizia è un segno di intelligenza, la capacità di fare le cose con il minimo dispendio di energie. Non sono corrotti, però, non sono fascisti, però, non sono escludenti per brama di potere, però. Se il governo che si prepara, nella sua componente 5S, pretende che ci rispecchieremo ancora a lungo in questa immagine distorta del paese, sia informato che non attacca. Torneremo alle nostre case, ai nostri affetti allargati, al lavoro nei quartieri, al nostro volontariato, al nostro associazionismo, a quei corpi intermedi che tengono in piedi questo paese e che il Conti1 ha cercato di spazzare via in nome di quel che Salvini ha chiamato "pieni poteri": un rapporto unico e diretto tra una massa di individui amorfi e il Caro Leader che li blandisce fin quando non li bastona. Siamo ancora nelle sezioni, nei comitati di quartiere, nelle parrocchie, nelle associazioni territoriali, nelle ONG, nelle feste dei comitati e nelle cene tra amici delle superiori. Molti di noi si sono stufati di vedersi rappresentati in questo modo schifoso e hanno smesso di votare, ma io spero che questo nuovo governo trovi il coraggio di darci voce, di non soffocarci, di non confonderci con la massa rancorosa.
Non perché la massa rancorosa non ci sia, certo. Per anni Grillo prima e poi Salvini in corsa sulla brace della frustrazione hanno soffiato convinti forse anche solo di esserne i portavoce, mentre ne erano i macchinisti alla caldaia. Ma io so bene che la gente non “è”, la gente “diventa” secondo la spirale del silenzio: ai tanti che hanno elaborato una loro prospettiva e una visione del mondo si contrappongono i tantissimi che fiutano l’aria, e scoreggiano se sentono puzza, mentre invece si danno un tono se in giro sembra prevalere la buona educazione.
Se questo governo dirà agli italiani che hanno tanto da fare, che non sono individui scalcinati in lotta con il mondo, ma sono parte di un tessuto sociale sano che deve ancora rafforzarsi, allora, forse, sarà valsa la pena di ingoiare questo rospo da entrambe le parti.