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lunedì 30 giugno 2025

Padre, perdona loro. Ma prima fammi finire questo post

NON so più quante volte mi sia toccato di spiegare il mio "sionismo”. Lo metto tra virgolette non perché sia finto, ma perché è così poco conforme all’etichetta da risultare incomprensibile perfino a molti amici, che infatti in alcuni casi hanno smesso di considerarmi tale e si sono messi a pontificare sulla mia dignità (o indegnità, certo, ché poi il moralismo è tanto più sprezzante quanto più questi amici sono “laici”). Altri amici sono stati invece da me “disamicati” (non sui social, parlo della vita) perché c’è un limite oltre il quale essere incompreso o insultato non è più parte di una relazione costruttiva, ma diventa un gioco sadomaso che mi fa orrore. Dei giudici non-amici, degli arbitri solo generici conoscenti e di chi crede di conoscermi e si permette di giudicare senza che io conosca loro, non dirò nulla, perché nulla valgono per me.

Per alcuni di loro, dichiararsi sionista è un po’ come dire “mi piacciono le esecuzioni sommarie” o “adoro l’apartheid con contorno di bambini dilaniati”. Il fatto che io possa piangere davvero i civili massacrati a Gaza e al tempo stesso considerare legittima – anzi sacrosanta – l’esistenza dello Stato di Israele sembra per loro un’oscenità logica. Un ossimoro morale. Una perversione ideologica.

Eppure io sento tutto il dolore di quei civili palestinesi che muoiono sotto le bombe. Lo sento davvero. E provo pietà anche per chi si è fatto trascinare nella spirale dell’odio con l’illusione che la violenza avrebbe portato alla libertà e non alla rovina. Ma – e mi prendo la responsabilità di questo “ma” – non riesco a mettere in cima alla lista dei responsabili lo Stato di Israele. Per me, la colpa primaria di questa catastrofe umana pesa su un’entità ben più ampia e volutamente sfuggente: il mondo arabo, soprattutto quello incluso nel più ampio mondo islamico.

C’è un antisemitismo islamico, sapete? E non è una copia carbone dell’antisemitismo cristiano: è autonomo, profondo, stratificato. Dalla nascita dell’impero militare islamico in poi ha costruito una propria teologia dell’umiliazione e della sottomissione degli ebrei (oltre che dei cristiani), relegati al rango di dhimmi, protetti sì, ma umiliati. Così, quando nel tardo Ottocento nasce il sionismo come forma laica e moderna di nazionalismo (nato in Europa, in gran parte socialista e progressista), nel mondo islamico viene letto subito attraverso la lente della religione. E ancora prima che uno Stato d’Israele nasca, è già percepito come una bestemmia: perché rivendica un’autonomia territoriale su una terra che, una volta islamica, è ritenuta waqf, inalienabile. Terra sacra. Non si restituisce ai miscredenti, mai.

Nel 1948, mentre l’ONU disegna due stati, gli arabi (in gran parte padroni di stati non meno artificiali di Israele, neonati e affamati di potere politico oltre che economico) decidono che nessuno dei due può andare agli ebrei. Preferiscono distruggere tutto il Mandato Britannico, piuttosto che accettare l’idea di una sovranità ebraica. E sono pronti a sacrificare anche gli arabi palestinesi pur di impedire la nascita di quello stato. Già: la Palestina araba non è mai davvero esistita come progetto politico condiviso, perché ognuno degli attori regionali voleva spartirsene i pezzi. E ai palestinesi toccava fare da scudo umano.

Israele nasce come stato laico, ma viene immediatamente letto dai suoi vicini come problema religioso, giuridico, quasi ontologico. Inaccettabile. La secolarizzazione araba non ce l’ha fatta. Travolta dai petrodollari wahabiti e dalla rivoluzione khomeinista, è affondata. Il panarabismo laico è finito in cantina. È tornata la teologia e con essa il fanatismo.

Dalla seconda intifada in poi, il messaggio, fino ad allora occultato dietro il linguaggio della lotta anticoloniale e addirittura anticapitalista (figuriamoci!) si è fatto esplicito: non si tratta più di negoziare un confine, ma di negare il diritto stesso di Israele a esistere. L’intento è agire in qualunque modo, a qualunque costo in termini di vite sacrificabili, purché diventi chiaro che Israele non ha dignità politica. L’obiettivo della lotta palestinese (almeno dalla nascita dell’OLP, nel 1964, tre anni prima della Guerra dei Sei Giorni, inizio delle occupazioni della Giudea e Samaria e della questione dei coloni, e voglio specificare il punto anche se quasi nessuno capirà cosa sto intendendo con questo chiarimento) era rendere impossibile il pensiero di una convivenza in Medio Oriente tra uno Stato israeliano e un contesto regionale dominato da una schiacciante maggioranza araba.

Non è (mai stata) una guerra tra stati: Israele è un’eresia che va estirpata. E a chi dice “ma Israele è colpevole anch’esso”, rispondo: certo. È colpevole di due cose. Primo: voler esistere. Secondo: aver accettato di discutere sul terreno che gli è stato imposto, quello della legittimità. Come se la sua esistenza fosse qualcosa da giustificare ogni giorno davanti a un tribunale etico mondiale di improvvisati Savonarola.

E mentre tutto questo succede, le vite palestinesi sono state spese come fiches in un casinò geopolitico: per i regimi arabi e per gli ayatollah, i civili di Gaza non sono mai stati persone, ma strategie. Hamas li ha usati come scudi. Israele ha accettato la trappola dell’intransigenza. E il sangue non ha più trovato suolo dove non colare.

Per questo oggi, se provo dolore è per le vittime. Se provo pietà è per chi ci ha creduto. Ma se provo rabbia, è per i tanti che, nel mondo arabo e islamico, continuano a spacciarsi per paladini e invece sono carnefici per procura. E se provo vergogna, è per i troppi opinionisti del nulla – ben pasciuti, ben pettinati e benpensanti – che si esercitano in moralismi a buon mercato. Lanciatori di fatwa ideologiche convinti di aver finalmente trovato l’occasione per sentirsi buoni. Non si sa bene rispetto a chi, o a cosa: basta avere dalla propria il vento del mainstream.

Ecco, a tutti loro dico: non vi temo. Non vi credo. Non vi ascolto. Perché il vostro sdegno – quando non è figlio della più stupida ignoranza, e siete legioni – è figlio del peggior narcisismo nichilista, non di compassione. E perché il vostro giudizio è privo di quella bussola morale che distingue la critica dall’odio, la responsabilità dalla propaganda, la giustizia dal capro espiatorio.

Padre, perdona loro. Ma non prima di avergli spiegato bene perché non sanno quel che fanno.