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mercoledì 20 novembre 2019

Le sardine spiegate bene (politica e pensiero selvaggio)


Trovo del tutto inadeguato (e a tratti sconfortante) il modo in cui si sta cercando di spiegare o raccontare il cosiddetto movimento delle sardine perché, finora, quel che ho letto sono solo spiegazioni di ordine politico, nel senso peggiore del termine. Cioè, tranne rarissime eccezioni, la modernità occidentale ha vissuto “la politica” in chiave weberiana normativa, vale a dire come una sfera del sociale che deve staccarsi e autonomizzarsi da tutte le altre (l’economia, la religione, la parentela, le relazioni sociali, l’arte, il diritto e così via). Secondo questo principio “La politica” è l’arte di gestire la cosa pubblica per il bene comune o per il bene della propria parte, secondo forme concordate di competizione per risorse che sono concepite come limitate. I politici, dunque, sono prima di tutto degli economisti politici, orientati alla massimizzazione dei vantaggi per la loro parte, vantaggi che sono di ordine anche simbolico (essere “onorevole”, cioè letteralmente degno di onore) ma che fondano questo simbolico su un ordine pratico (posti di lavoro, impiego delle risorse, alleanze con altre parti del corpo sociale).
Applicata al caso delle sardine, questa lettura non arriva da nessuna parte, dato che le sardine non stanno diventando tali su questa base razionale dell’agire politico, e si muovono piuttosto lungo una concezione non più moderna (chi vuole la chiami postmoderna, io preferisco parlare di concezione classica) della politica e dell’agire politico. Secondo questo modello classico (Lévi-Strauss parlava di pensiero selvaggio, che non è il pensiero “dei selvaggi”, ma il pensiero che si condensa secondo logiche simboliche o mito-logiche) fare politica è prima di tutto, etimologicamente, dichiarare la propria provenienza, lo spazio della polis che simbolicamente si occupa come “noi”, contrapposto a “loro”.
La politica delle sardine è una politica delle definizioni, delle appartenenze, e io ritengo del tutto non casuale che il fenomeno prenda forma secondo una categorizzazione di tipo totemico (le sardine, oggi rinforzata dai gattini di Salvini). È su questo piano che diventano importanti i tecnicismi dell’antropologia culturale, la scienza sociale più attrezzata per inseguire i percorsi simbolici di questa concezione della politica.
Le appartenenze, nel lessico della mia disciplina, si organizzano lungo un duplice asse, producendo quindi un piano delle identità. Lungo un asse c’è la categorizzazione, vale a dire il quadro delle classificazioni: quello che si dice che gli altri siano. Lungo l’altro asse c’è invece l’identificazione, quello che si dice che noi si sia. Ho usato la forma impersonale “si dice” perché in questo gioco classificatorio è centrale sapere/capire se il soggetto (che categorizza o si identifica) è un “noi” o un “loro”. Ci sono, in pratica, quattro possibili combinazioni:
1.       quello che noi diciamo di essere
2.       quello che noi diciamo che gli altri sono
3.       quello che gli altri dicono di essere
4.       quello che gli altri dicono che noi siamo
Le fazioni politiche ovviamente si occupano di tutte e quattro queste posizioni, ma è anche possibile utilizzare questa matrice per una sorta di tipologia approssimativa delle aggregazioni politiche.
Storicamente, i partiti politici canonici sono una forma di 1.: conta quello che noi partito diciamo di essere, il partito dei lavoratori, il partito della borghesia, il partito dei contadini. Invece 3. configura il riconoscimento interpartitico: un tavolo canonico è un tavolo dove si siedono tanti 1. che si accettano reciprocamente secondo il principio che 3. è vero per ciascuno, cioè che ciascuno si identifica con quel che vuole. Noi siamo il partito dei lavoratori e sappiamo che dall’altra parte del tavolo c’è il partito della borghesia imprenditoriale, per esempio.
Il problema è che la politica non funziona senza 2. e 4., cioè le categorizzazioni, sia nostre nei confronti di loro, sia loro nei confronti nostri. Non siamo cioè gli unici deputati a definirci e di fatto l’identità collettiva è la risultante di un gioco (politico, appunto) di categorizzazioni dall’esterno (quelli sono schiavi negri, dicevano in Luisiana nella prima metà dell’Ottocento guardando un campo di cotone) e di identificazioni dall’interno (Black is beautiful hanno iniziato a dire i neri dei ghetti urbani nell’America degli anni Sessanta).
Mano a mano che venivano meno le determinanti sociali della composizione in grandi classi e che la struttura sociale si complessificava con l’uscita dalla fabbrica come standard produttivo e dalla nazione come modello di appartenenza, ecco che 2 e 4 hanno assunto una rinnovata predominanza. I “partiti leggeri”, i “movimenti” di vario tipo che hanno infestato la politica pubblica italiana sono tentativi di dare la precedenza a 2 e 4. Si pensi a come Forza Italia e il MoVimento 5 Stelle siano (stati?) prima di tutto aggregazioni politiche attorno a 2: l’anticomunismo di Berlusconi (Comunishti!, il PCI-PDS-DS! la Sinistra brandita come spauracchio per il panico collettivo) e l’anti-politica della genesi e del consolidamento grillino (La Casta, i Poteri Forti, perfino Big Pharma) sono forme di aggregazione attorno a un noi sostanzialmente vuoto, che è tale principalmente perché è definitorio dell’Altro, perché insiste a produrre l’altro.
In questa trappola anti-X sono caduti i Girotondini e il Popolo Viola, che hanno costruito un sentimento definitorio speculare nell’antiberlusconismo professionalizzato e sistematico: noi siamo quelli che pensano che Berlusconi faccia schifo.
Ecco, io dico che le sardine non puntano a 2, ma contestano il 4 salviniano. NON aggregano attorno a una negazione dell’altro, ma si consolidano attorno alla negazione di quel che l’altro categorizza come noi. Le sardine sono diverse dai girotondini perché non sembrano (per ora) avere obiettivi politici a corto raggio (com’erano l’incriminazione di Berlusconi, le sue dimissioni, i processi e la lotta a Mediaset per i movimenti precedenti) e puntano tutto nel dire “noi non siamo come tu ci categorizzi”. Salvini, è evidentissimo, costruisce tutta la sua strategia politica su un 4 mascherato da 2, cioè un discorso in terza persona sull’italianità: gli italiani sono spaventati, sono incazzati, sono sospettosi della diversità, sono sanamente egoisti, vogliono ordine e disciplina. Tutta la sua comunicazione ha una funzione primariamente pedagogico-identitaria: vieni qui bello, ti spiego io quello che pensi: tu sei pieno di livore e paura, tu sei insicuro e frustrato, tu sei infelice e incazzato. Dice così, Salvini, perché il sottotesto è: e allora vota me che ti risolvo tutti i problemi perché so di chi è la colpa.
Ecco, le sardine NON accettano questa categorizzazione salviniana dell’italianità, e su basi esclusivamente simboliche (i disegnini, le sardine, l’occupare piazze con aria festosa) stanno negando la versione utilitaristica della politica (cosa ci guadagno a fare la sardina, in pratica? Nulla) ma stanno risemantizzando la funzione simbolica del politico (Noi non siamo come tu pretendi di descriverci). Ecco, io credo che questo sia un vaffa che vale la pena di inseguire, perché è un vaffa del 4, non un’ossessione del 2. È un gesto primigenio di rifiuto, anarcoide, speranzoso, decisamente non violento, non incazzato per definizione, perché contesta proprio con il sorriso la versione lugubre di questo paese che sempre più spesso la destra professionista pompa per lucrarci sopra. L’ho già detto: non ci avrete mai, nel senso che non riuscirete mai a imporre su di noi la vostra immagine schifosa di un paese che non ci somiglia. Neanche un po’.