26 e 27 10 2017. Un
solo testo per due lezioni metodologiche (prima parte e seconda parte),
in cui abbiamo cercato di raccontare come si fa ricerca etnografica. Se la
cultura è quel sistema complesso di segni
che abbiamo finora sommariamente definito, e se l’epistemologia della disciplina impone un approccio teorico di tipo ermeneutico, in concreto
questo in cosa si risolve? Cosa succede
veramente quando l’antropologa o l’antropologo deve condurre una ricerca
mettendo a frutto la sua professionalità?
Per che tipo di dati raccolti siamo pagati?
Abbiamo letto quindi La
politica del campo di J-P Olivier de
Sardan, e presentato quello che a mia conoscenza è il testo introduttivo
migliore per capire cosa si fa, sul serio, una volta che si conduce una ricerca sul campo. Il punto di partenza
è non commettere l’errore di cercare solo quel che già si conosce, ed accettare il fatto che sul campo c’è un sacco di
spazio per la SERENDIPITÀ, vale a
dire quella strana qualità della vita umana, per cui cercando una cosa ne
troviamo poi molte altre a cui non stavamo minimamente pensando. Per cogliere
questo punto, abbiamo parlato di questo
test, che potete fare come esercizio introduttivo. Dove semplicemente
contare quanti passaggi fanno i
giocatori con la maglia bianca.
Contate bene, mi raccomando.
Come sintesi della lezione (durante la quale ho ripreso diversi punti esemplificativi dalla mia ricerca in Macedonia occidentale greca, di cui diremo in dettaglio nelle due lezioni finali), riporto di seguito una parte
degli appunti che avevo steso anni fa per una lezione a un gruppo di dottorandi di storia, nella porzione
dove riassumo proprio i concetti di base di Olivier de Sardan, più una rapida
introduzione sul ruolo dell’INTIMITÀ
nella ricerca etnografica, di cui non abbiamo avuto modo di parlare
direttamente ma che credo sia importante sottolineare.
1. Intimità e etnografia
L’antropologo che fa ricerca sul
campo si trova a dover considerare come strumento di lavoro quel che per altri
studiosi dell’uomo spesso è considerato un ostacolo
alla correttezza della ricerca, e cioè l’intimità
con le persone dalle quali cerca di ottenere la materia prima del suo lavoro.
Mentre un sociologo, uno storico, ma anche uno psicologo o uno psicoanalista
valutano con estrema cautela l’eventualità di provare qualche forma di attaccamento emotivo per i propri
interlocutori (o per i propri documenti), per l’antropologo questa condizione
di contatto profondo non solo non viene esclusa, ma è anzi attivamente ricercata: solo grazie alla
“confidenza” con i propri informatori, infatti, potrà sperare di fornire una
rappresentazione adeguata del “punto di vista del nativo”. Vered Amit-Talai (1999, p. 2) riassume questa particolarità della
ricerca etnografica in modo efficace:
Una delle peculiarità dell’osservazione partecipante intesa
come ricerca etnografica è il modo in cui il/la ricercatore/trice e le sue
personali relazioni fungono da vettori privilegiati per l’elicitazione dei dati
e per la loro comprensione. Sicuramente non esiste altra forma di indagine
scientifica in cui i rapporti di intimità e familiarità tra ricercatore e
soggetto indagato siano considerati un così fondamentale strumento di indagine,
invece che un effetto collaterale intrusivo o addirittura un impedimento alla
ricerca.
A questa citazione possiamo contrapporre, con un pizzico di
retorica contrastiva, la preoccupazione di una storica, Annette Wieviorka che, ponendosi direttamente il problema della
rilevanza del testimone nella
ricostruzione storica, sembra preoccupata proprio di non perdere il passo con
l’obiettivo fondamentale della sua disciplina:
Come costruire allora un discorso storico coerente se ad esso
si contrappone costantemente un’altra verità, quella delle memorie individuali?
Come fare appello alla riflessione, al pensiero, al rigore quando i sentimenti
e le emozioni invadono la scena pubblica? (Wieviorka 1999).
Ovviamente, non pretendo che questa opposizione schematica
sia sistematica (ci sono antropologi che si pongono il problema di come
superare la “seduzione etnografica”, e ci sono storici del tutto convinti della
necessità di un contatto più profondo con la questione “esperienziale” della
ricerca) ma rimane il fatto che la tensione tra distanza critica e identificazione
empatica con la fonte sembra spingere la storia verso la prima, e
l’antropologia verso la seconda. In realtà, posta in questi termini
ipersemplificanti, l’opposizione è del tutto artificiale e fuorviante (cfr. Dei
2005, pp. 41-42), dato che rischia di banalizzare lo spinoso problema dello
statuto ontologico delle rappresentazioni
(che sono i dati principali e
dell’antropologo e dello storico). Ma in questa sede non voglio occuparmi del
rapporto tra realtà, verità e scienze umane, quanto piuttosto di un tema
collaterale, e cioè l’interazione tra produzione etnografica e rappresentazioni
dell’identità. Il problema che mi pongo, quindi, può essere formulato con due
domande dirette:
1) cosa succede alle “fonti” una
volta che sono state raccolte o trattate dall’etnografo?
2) cosa succede all’etnografo
una volta che inizia a trattare certe fonti?
Proprio perché una risposta a queste domande deve
problematizzare il “luogo” di produzione del sapere “intimo” dell’antropologia,
per poter articolare una risposta, presenterò alcune considerazioni preliminari
sui “dati” antropologici, per poi passare a due esempi tratti dalla mia
esperienza di ricercatore [non li presento qui, erano esempi fatti per la
lezione agli storici].
2. Il dato antropologico
La ricerca antropologica si basa
sul quattro forme di produzione dei dati,
che tra loro interagiscono costantemente.
1. l’osservazione partecipante
2. i colloqui
3. le procedure di censimento
4. la raccolta di fonti scritte
(nelle quali includo qualunque forma di “scrittura” intesa come memoria
extrasomatica, per cui tra le fonti “scritte” vanno considerati anche filmati
su pellicola o su nastro magnetico e tutti i tipi di “file” audiovisivi oggi
disponibili).
Vediamo in dettaglio ognuna di
queste quattro forme.
2.1 osservazione partecipante
Lo strumento fondamentale del
lavoro dell’antropologo nel produrre dati con questa forma è il taccuino. Secondo Olivier de Sardan
(2007, p. 34), il taccuino “è il luogo dove si opera la conversione
dell’osservazione partecipante in dati trattabili ulteriormente”. Il
ricercatore, immerso nel contesto della sua ricerca, osserva, ascolta e
interagisce costantemente e il taccuino degli appunti sedimenta i corpus che saranno poi trattati nella fase di
elaborazione. Come lo storico ha gli archivi
nei quali produce i suoi corpus, così l’antropologo ha il taccuino di campo, che gli consente di registrare quel che ritiene importante per conservarne una
traccia. Non affronto in questa sede la questione dello statuto epistemologico
di questi corpus, ma mi limito a osservare come l’antropologia culturale abbia
da lungo tempo superato il paradigma rigidamente positivista secondo cui i dati
sarebbero “pezzi di realtà”, pur mantenendo un sano approccio empirista che le
consente di non cadere nella fallacia soggettivista per cui i dati altro non
sarebbero che costruzioni idiosincratiche dell’osservatore (Olivier de Sardan
2009, p. 32). Insomma, il taccuino su cui registrare impressioni e annotazioni
è uno strumento fondamentale per trasformare
in dati le osservazioni.
Eppure l’osservazione
partecipante non si limita a produrre dati su carta (o su file), dato che una
parte rilevante del sapere degli antropologi si sedimenta attraverso l’impregnazione, cioè il meccanismo di
familiarizzazione implicita, non acquisita per via formale, della cultura
locale. Leonardo Piasere (2009, p. 75) la chiama “conoscenza incorporata
dell’esperienza etnografica” e per esemplificarla racconta un curioso episodio
accaduto durante un convegno che univa esperti di zingari e antropologi esperti
di altri campi di ricerca. Alla battuta di un collega “zingarologo” risero solo
gli antropologi esperti di zingari, perché
gli antropologi ‘generalisti’, pur conoscendo l’etnografia
scritta degli zingari, dimostrarono di non sapere quando si ride in un
accampamento zingaro. Nessuno di noi antropologi degli zingari ha mai spiegato
‘di che cosa ridono gli zingari’ e forse nessuno ha mai focalizzato la sua
attenzione su questo, eppure la nostra pratica condivisa ci portò in
quell’occasione, quasi per un meccanismo di stimolo-risposta, a ridere perché
‘sapevamo’ che in quelle situazioni dagli zingari si ride. Avevamo incorporato
una conoscenza che non era stata travasata nei nostri scritti (Piasere 2009, p.
75).
Il punto teorico rilevante di
questa dimensione della ricerca sul campo è l’esigenza, da parte del
ricercatore sul campo, di superare il
logocentrismo per riconoscere che tra le sue fonti di conoscenza molte sono
di tipo extralingustico. Così
riassume questo punto Judith Okely:
Gli antropologi, immersi per prolungati periodi in un’altra
cultura o nella propria in quanto osservatori partecipanti, imparano non solo
attraverso l’orale o il trascritto, ma attraverso tutti i sensi, attraverso il
movimento, attraverso i loro corpi e l’intero essere, in una pratica totale.
Noi usiamo questa conoscenza per dare senso, letteralmente, al materiale
annotato. Scrivere è ben più della ‘pura cerebralizzazione’ che qualcuno ha
detto essere. Le note prese sul campo possono essere niente di più che un
congegno che fa scattare memorie incorporate e quindi inconsce (Okely 1992, p.
76).
2.2 i colloqui
Costituiscono in effetti una
parte rilevante dei “taccuini” gli appunti presi da conversazioni che il
ricercatore produce intenzionalmente dato che molti aspetti della cultura
studiata non sono “osservabili” né in senso letterale né figurato.
Consulenza e racconto
sono i due estremi tra cui si collocano i colloqui condotti. L’intento del
colloquio deve essere quello di avvicinarsi più possibile alle forme spontanee
della conversazione secondo la
cultura locale, e quindi il più lontano possibile dall’interrogatorio. La guida al
colloquio tende a una lista di domande, mentre il canovaccio di colloquio seleziona una serie di temi che si vogliono
sviluppare durante il colloquio.
La caratteristica fondamentale
del colloquio antropologico è la sua natura
ricorsiva, per cui una riposta può suscitare nuove domande o rendere
pertinenti in modo nuovo vecchie domande. Naturalmente, la ricorsività di
inscrive bene in un’altra caratteristica del colloquio antropologico, che è la
dimensione diacronica. Lo stesso
informatore può diventare soggetto di numerosi
colloqui, per mettere a punto diversi aspetti dell’indagine in diversi momenti.
Anche in questo senso il colloquio antropologico si differenzia dall’intervista
giornalistica e dal questionario sociologico.
2.3 Le procedure di censimento
Proprio per la natura sfuggente
del suo oggetto, spesso l’antropologo si aggancia a procedure di censimento, il cui intento è fornire un
corpus di dati quanto più “completo” possibile. Una tipica procedura di
censimento degli antropologi è la ricostruzione degli alberi genealogici o le strutture matrimoniali. I censimenti sono
dati -etic contrapposti ai dai derivati dagli enunciati degli indigeni, che
sono invece dati -emic.
2.4 fonti scritte
Sono almeno di tre tipi per gli
antropologi
1. fonti propedeutiche alla ricerca sul campo. Sono paragonabili alle fonti
secondarie degli storici,ovviamente.
2. fonti integrate nel campo, come diari, lettere, quaderni e pubblicistica
locale. A queste si devono aggiungere le fonti audiovisive locali.
3. corpus autonomi come stampa e archivi esistenti, nonché tutto il
materiale audiovisivo disponibile online.
Queste forme di produzione del
dato antropologico vanno sottoposte a quella che Olivier de Sardan chiama
“politica del campo”, basata su alcuni punti fermi.
Triangolazione semplice (che ricostruisce la realtà degli eventi
indagati) e quella complessa, che consente invece l’individuazione dei gruppi
strategici rispetto al tema indagato.
Iterazione nel senso concreto
di produzione non lineare di informazioni (tizio mi manda caio che mi manda da
sempronio che mi rimanda da tizio) e nel senso teoretico di costante modifica dei temi dell’indagine in base ai
dati raccolti. L’esempio di un sondaggio in una via (dal numero 1 al numero
100) e della rete dei contatti (tizio è amico mio, poi vai da caio, che ti
manderà da sempronio) dell’etnografo che tende a riprodurre la realtà sociale.
Esplicitazione interpretativa
nel diario di campo come spazio del
dialogo anche teorico (memoing vs data collection vs coding)
Saturazione per stabilire quando la ricerca “finisce”.
Il gruppo sociale testimone.
Gli informatori privilegiati.
Individuazione dei fattori di disturbo: l’incliccaggio, il
monopolio delle fonti, la rappresentatività del gruppo testimone, e la
soggettività del ricercatore
Testi citati
Amit-Talai, Vered,
1999, “Introduction. Constructing
the Field”, in Amit-Talai, Vered, a cura di, Constructing Field: Ethnographic Fieldwork in Contemporary World,
Florence, KY, Routledge.
Dei, Fabio, 2005,
"Introduzione. Poetiche e politiche del ricordo", in P. Clemente e F.
Dei, a cura di, Poetiche e politiche del
ricordo. Memoria pubblica delle stragi nazifascisce in Toscana, Roma,
Carocci.
Okely, Judith, 1992, “Anthropology and
Autobiography: Participatory Experience and Embodied Knowledge”, in J. Okely,
H. Callaway (a cura di), Anthropology and
Autobiography, ASA Monographs 29, London and New York, Routledge, pp. l-28.
Olivier de Sardan,
Jean-Pierre, 2009, “La politica del campo. Sulla produzione di dati in
antropologia”, in Francesca Cappelletto (a cura di), Vivere l’etnografia, Firenze, Seid, pp. 27-63.
Piasere, Leonardo,
2009, “L’etnografia come esperienza”, in Francesca Cappelletto (a cura di), Vivere l’etnografia, Firenze, Seid, pp.
65-95.
Wieviorka, Annette,
1999, L'era del testimone, trad. it.
Milano, Raffaello Cortina editore.
Q1. Dopo aver letto
attentamente il testo di Oliver de Sardan, simulate
di essere un anziano antropologo/una anziana antropologa che racconta a un
gruppo di giovani studenti come ha
condotto la sua prima ricerca sul campo. Metodo, tecniche e problemi incontrati.