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lunedì 16 marzo 2020

Anatre in covata a Venezia

Venezia è una città speciale per tanti motivi, ma il più evidente è la sua capacità di incorporare il naturale nel sociale senza soluzione di continuità. Vai in giro per le calli e l'acqua costantemente ti ricorda che è uno spazio naturale quello che nonostante tutto attraversi. Nonostante le pietre squadrate, i masegni su cui metti i piedi, i mattoni tutto attorno, il marmo, la pietra onnipresente.
Gli austriaci ci hanno messo del loro, mettendo i corrimano di ferro a tutti i ponti che non ce li avevano, e hanno portato a compimento la pavimentazione pressoché integrale della città. I bambini nella Venezia italiana hanno sempre avuto questo problema, che manca la terra nuda, mancano i parchi e chi esce dai microscopici giardini Papadopoli vicini a piazzale Roma deve aspettare di arrivare dall'altra parte della città, all'isola di Sant'Elena, per avere uno spazio che sia un vero parco.
Da mestrino campagnolo, quando a 11 anni cominciai a studiare a Venezia questo salto di organizzazione dello spazio era fortissimo e saltava all'occhio. C'era insomma un attrito costante tra l'eccesso di acqua e la scarsità di terra, tra una sovrabbondanza di natura nella sua veste meno gestibile e una scarsità di natura nel suo vestito terragno della solidità sotto i piedi. Sotto i piedi i Veneziani hanno Cultura, organizzazione, struttura, mentre la Natura, pur abbondantissima, se ne sta contenuta nei canali.
L'acqua alta è anche, simbolicamente, una ripresa della Natura sullo spazio apparentemente domestico e mansueto delle calli e callette. Col cavolo, diceva la Natura ogni tanto: io mi faccio spazio, ti inondo di me.
E i Veneziani sembravano aver imparato a gestire questo curioso equilibrio fatto di rispetto e sospetto, di addomesticamento vissuto come un contratto tra pari, una specie di matrimonio tra due nobili, nessuno dei quali sembra disposto a deporre le prerogative del suo rango.
Tutto questo, dicevo, è durato fin quando il turismo in città è diventato di massa, vale a dire nell'ultimo quarantennio o poco più, dopo che la Legge speciale per Venezia aveva messo fine allo sciagurato sviluppo industriale del petrolchimico e tutte le energie produttive erano state, altrettanto sciaguratamente, concetrate progressivamente sulla monocultura del turismo.
Venezia non ha retto l'impatto, il numero crescente di turisti in uno spazio fisiologicamente ridotto e fragilissimo ha prodotto gli effetti disastrosi di una duplice frattura del valore naturale e del valore culturale della città. Venezia è diventata insostenibile per qualunque essere vivente, e lo spopolamento si è accompagnato con un progressivo esaurimento della varietà avio-faunistica.
Questo video, che ha montato mio cognato Dennis Zambon con i suoi poderosi mezzi tecnologici che tanto gli invidio (😁) con materiale raccolto sempre in famiglia, a me pare un felice sintomo di quel che potrebbe succedere con il coronavirus, l'azzeramento del turismo e il rallentamento della mobilità, che ha fatto sì che il passaggio di barche a motore nella città (e in particolar modo in Canal Grande) si sia praticamente fernato: un tentativo da parte di uomini e ambiente per ripensare la loro relazione. Non sono un fautore di pauperismi o decrescite felici, sono convinto che abbiamo ancora bisogno di sviluppo e crescita economica, e quest'anatra chioccia forse ci dice che possiamo riprendere a vivere meglio se ricomciamo a collaborare tra umani in generale e tra umani e non umani, invece che competere.