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giovedì 25 marzo 2021

Intellettuali in ristrettezze

 

In un mondo in cui le
risorse disponibili sono oggettivamente scarse o comunque percepite tali, una delle cose peggiori che si possa fare è sprecarle. Così, nelle società dominate culturalmente da questo principio, vengono sempre visti con sospetto coloro che spiccano, che si vantano delle loro capacità di raccolta o produzione, e ogni azione che potrebbe avere l’effetto di far risaltare in suo autore viene sistematicamente sminuita con l’indifferenza, la derisione e addirittura la reprimenda pubblica. Non c’è trippa per gatti, sembra dire il senso comune in questi contesti, e se ti atteggi a re della foresta poi finisce che qui la fame la facciamo tutti per colpa tua, che te ne vai in giro a raccogliere, e quindi sprecare più del dovuto, le risorse che invece dovrebbero essere per tutti.

Tra gli antropologi è rimasta famosa la storia di Richard Lee, che negli anni Sessanta fece una ricerca tra i !Kung, cacciatori e raccoglitori del Kalahari, e quindi avvezzi a un mondo di risorse limitate. Per ingraziarseli, l’antropologo Lee aveva regalato al gruppo !Kung con cui stava lavorando un grosso bue, ma l’accoglienza per il dono fu piuttosto tiepida: “Ovviamente lo mangeremo – dissero – ma non ci sazierà, lo mangeremo e torneremo a casa a dormire con lo stomaco che brontola” (citato nel Manuale di Antropologia culturale di Marvin Harris, p. 112).

Il modo in cui vengono recepite le riflessioni di alcuni intellettuali italiani dai colleghi (e wannabe colleghi, se posso permettermi una punzecchiata in anticipo) somiglia molto alla reazione !kung di fronte al grasso bue di Richard Lee: invece di festeggiare il dono, o eventualmente commentare criticamente con “preferisco il montone”, si sminuisce il dono (a meno che non sia stato presentato da un compare di clan) e si fa di tutto per svalutare le qualità morali di colui che l’ha offerto.

Questa strategia è veramente comune nel mondo intellettuale italiano e dipende, ne sono convinto, da una versione immateriale della “cultura della povertà” che considera perfino il mondo delle idee una risorsa a disponibilità limitata, versione che si concretizza in gelosie e penose rivalità, che puntano sempre al gioco al ribasso, fine ultimo delle economie basate sulla concezione limitata dei beni (Il mondo anglosassone ragiona invece sulla possibilità di intensificare la portata ambientale del campo culturale, cosa che invoglia tutti a lanciarsi in ipotesi anche azzardate, che possono essere confrontate e produrre ricchezza culturale; ma questa pista di riflessione deve essere interrotta qui per ragioni di spaziotempo).

Se scrivo ALESSANDRO BARICCO in lettere maiuscole è proprio per spingere chi legge a riflettere sulla sua prima reazione alla vista di questa sequenza di lettere: spocchioso, ammerda, snob, marchettaro, seevabbè, saccente, borghese, élitario, piemontesi falsi e cortesi, e potrei andare avanti per ore. Questo giudizio, si badi bene, è correlato direttamente alle presunte qualità intellettuali e livello culturale di colui che giudica (tengo il maschile perché poi c’è un tono evidente di machismo competitivo, che però, anche in questo caso, non posso approfondire), per cui più è elevato il senso di sé e delle proprie qualità intellettuali (più, insomma, ci si sente un competitor di Baricco in qualità di cacciatore e raccoglitore di idee, e non ci si considera semplicemente uno del villaggio che trae vantaggio dal lavoro dei cacciatori che tornano dalla battuta e spartiscono la preda) e più sarà pesante l’azione di diminuzione della bariccata in corso.

Prendiamo la recente collaborazione di Baricco al Post (il quotidiano online diretto da Luca Sofri, assieme a Avvenire l’unico giornale in lingua italiana che ancora valga la pena di essere letto) e le reazioni che ha suscitato.

Baricco dice che il sapere odierno (che lui da anni etichetta come Novecentesco) è inflessibile, specialistico, stanziale e razionale. Non ho motivo di entrare nel merito delle riflessioni di Baricco, ma quel che mi interessa sono due punti, e cioè (1) il contenuto di quel che dice, la sua idea di fondo; e (2) la comune reazione degli intellettuali alla pubblicazione del suo testo sul Post.


(1)
Baricco sostiene che il sistema della conoscenza che abbiamo ereditato (filosofia di qua, matematica di là, letteratura di sopra, epigenetica di sotto, arte da una parte, fisica teorica dell'altra) non ce la fa più a spiegare il mondo in cui viviamo e prova a descrivere questa insoddisfazione di fondo per un sistema della conoscenza sempre più inadeguato. Novecentesco, per Baricco, è il rifugiarsi nei compartimenti già predisposti, che per esempio vorrebbero ancora le “scienze umanistiche” fare le mosche nocchiere delle scienze dure come nel peggior crocianesimo. E non si tratta di riflessioni per epistemologi disoccupati, ma per genitori con figli in età scolare, che sempre più perplessi si chiedono se la divisione elementari-medie-superiori si possa trascinare in questo modo, e se il sistema dei “licei” e degli “istituti tecnici” abbia alcun senso quando l’informatica (non parlo di usare Word o Chrome, ma di avere dimestichezza almeno con un linguaggio di programmazione) è ancora relegata in qualche istituto tecnico, e la capacità di usare i Big Data non è neppure concepita tra le cose che un adolescente dovrebbe studiare a scuola. Non tocco poi l’Università, perché lì le fossilizzazioni disciplinari sono talmente rigide e strutturate (guardate che fine fanno nei concorsi di abilitazione tutti i transdisciplinari e gli indisciplinati in generale) che non coltivo alcuna speranza per le prossime tre generazioni. Baricco insomma dice che non ha molto senso chiedere alla tradizione (sempiternamente composta di un lignaggio chiuso di maschi bianchi, barbuti e morti) di farci capire il mondo in cui viviamo. Che non è solo il mondo di internet (signora mia), ma anche quello della biologia evoluzionista (che sta devastando le scienze sociali, almeno quelle che provano a dialogarci); un mondo che non solo ha creato Facebook (orrore) ma sta squassando con l'epigenetica il nostro modo di concepire il rapporto mente/corpo e il dilemma nature/nurture; un mondo in cui non solo ci stanno gli influencer (oddio che schifo) ma anche i Big Data e gli archivi aperti che non sappiamo come insegnare a usare. Veramente pensiamo che saranno "lo specialismo" e "le scienze umane" a farci capire il mondo in cui viviamo? Veramente, mentre i fisici teorici diventano filosofi e citano Nagarjuna, oppure diventano antropologi e provano a raccontare l’origine dell’universo come fosse un mitologia per laici, pensiamo che valga la pena di mettere i sacchi di sabbia sulle mura delle nostre torri d’avorio?

(2) Parlo di torri d’avorio perché, purtroppo, questa è stata la risposta più puntuta e diretta alle sollecitazioni di Baricco. Invece di guardare il bue, di farci festa, il coro generale è stato: ma dai, Baricco, la scuola Holden, che palle, che assurdo, che schifo, che noia. Baricco è snob (e allora contestiamolo con lo snobismo dei “saperi tradizionali” da difendere; poi ditemi se questa tattica ci porterà mai da qualche parte, intellettualmente), si fanno le pulci al concetto di “razionalità” (guarda che il bue che ci regali ha le corna storte, tra l’altro), lo si accusa di essere borghese (e già questo basta a capire da che cantuccio del proprio tinello si guarda a un mondo in subbuglio totale).

Dagli al Baricco, al cacciatore che si vanta, che torna a casa e pretende di darci da mangiare le cose che ha cacciato lui. Poi finisce che non resta più nulla da cacciare per noialtri cacciatori, se questo continua a fare il gradasso in questo modo e a pretendere di occupare spazi che non gli competono. Ci siamo già noi insegnanti, filosofi, antropologi, storici, sociologi, psicologi, pedagogisti, economisti e giuristi, perché ’sto stronzetto non ricomincia a scrivere narrativa invece di impicciarsi?

Nihil sub sole novi, ci mancherebbe (Umberto Eco ha subito la stessa sorte da quando ha scritto il Nome della rosa), ma fa sempre un po’ di pena questo battibeccare tra nobili decaduti, ecco. Ricorda lo stile dei matematici italiani del Cinquecento, che facevano qualche scoperta clamorosa (come la soluzione delle equazioni di terzo grado trovata da Scipione del Ferro) ma poi la tenevano per sé fino alla morte, per paura di dare qualche vantaggio a quelli che venivano percepiti come avversari, non colleghi. Guardiamo all’etimo di queste due ultime parole, e avremo capito molto del mondo intellettuale italiano.