Ci sono immagini che, una volta viste, non si riesce più a togliere dagli occhi. Una di queste è la fila ordinata (si fa per dire) di schiene metropolitane, romane o milanesi che siano, su cui campeggia lui: lo zainetto. Non lo zaino, che richiama qualcosa di robusto, militare, alpino o almeno escursionistico. No, proprio lo zainetto, parola che finisce in "-etto" e che quindi, in perfetto italiano, infantilizza. Difficile immaginare che un tempo un quarantenne girasse con uno zainetto. Oggi è la norma.
Non solo: lo zainetto si è
imposto come mezzo standard di trasporto delle cose del lavoro.
Computer, caricabatterie, agenda, pranzo da casa, maglietta di ricambio,
deodorante, borraccia termica, leggins per la palestra. L'età media dello
zainetto si è alzata. Se una volta segnava il tempo della scuola, oggi è
diventato il compagno di viaggio dei knowledge workers, di quelli che
lavorano in coworking, ma anche del neosegretario in scooter, della pendolare
con l'abbonamento annuale e dello smart worker che smart lavora in treno.
Insomma, lo zainetto ha avuto successo, e va detto che ha anche dei
buoni argomenti: è comodo, pratico, bilanciato. Ma è proprio nella comodità che
si nasconde il virus antropologico.
Da veneziano, io ho
imparato fin da piccolo che lo zainetto si toglie. Sui vaporetti c’è
persino un cartello apposito: si prega di togliere lo zaino dalle spalle.
Questione di sopravvivenza, di equilibrio, di non finire col sedere in briccola
al primo rollìo. Ma soprattutto, questione di rispetto: lo zaino sulle
spalle ingombra. Ingombra dietro, cioè in una zona del corpo che non
vediamo. E questa invisibilità lo rende subdolo, pericoloso, micidiale.
Nei mezzi pubblici romani, che
già di loro sono laboratori viventi di microfisica del potere (nel senso che
ogni viaggio è una lotta darwiniana per la sopravvivenza), gli zainisti
— così li chiameremo — si aggirano come pachidermi con la grazia di una
betoniera. E lo zaino, che portano orgogliosamente sulle spalle, diventa
un’arma contundente. Una zainata al fianco, una zainata alla mandibola, una
zainata in pieno sterno: chi frequenta la linea B sa di cosa parlo. Il punto è
che loro non se ne accorgono. Non è cattiveria: è una disfunzione
percettiva. Non si rendono conto che il loro corpo eccede, che sono un volume
maggiorato, che stanno invadendo lo spazio altrui. Si muovono come se nulla
fosse, con la tranquilla arroganza di chi dice “io sto solo fermo qui”
mentre occupa due posti e mezzo e sfregia con la cerniera del proprio zaino il
giaccone del vicino.
È uno strano stato d’animo,
quello degli zainisti: egocentrico e inconsapevole, un po’ come
chi parla a voce alta al telefono credendo che nessuno lo ascolti. È il trionfo
di una concezione distorta del corpo nello spazio urbano: il corpo come isola,
come modulo impermeabile, come zona autonoma che non si interroga sul
suo impatto, letterale e figurato, sugli altri.
Mi sono chiesto da dove venga questa deriva, e un pensiero mi ha colpito: le rampe metalliche sui ponti di Venezia. Una volta non c’erano. Se avevi una difficoltà — passeggino, stampelle, trolley — ti aiutava qualcuno. Ora ci sono rampe, scivoli, strutture permanenti. E questo, beninteso, è un segno di civiltà. Ma anche qui c’è un cambio di paradigma: non si fa più affidamento sul prossimo. Si presume l’assenza dell’altro. La città si progetta come se fossimo tutti da soli. Nessuno ci aiuterà: non ci sarà una mano, una parola, un gesto. Né noi saremo quella mano, quella parola, quel gesto.
Allora ecco che lo zainetto non
si toglie più: perché si presuppone che gli altri non esistano, o che comunque
non valgano abbastanza da modificare il nostro comportamento. Non è
maleducazione, è solitudine strutturale. Ognuno è solo sul cuor della
metropoli, e agisce come se fosse l’unico passeggero.
Ma non c’è nulla di
catastrofico, voglio essere chiaro. Questi sono sintomi, segnali, piccoli
indizi di un cambiamento nella concezione della persona nello spazio
pubblico. La catastrofe, semmai, è altrove: è nel mondo che ci educa a pensare
che lo spazio sia tutto nostro, nel bene e nel male. Lo zainetto in sé non ha
colpe. È solo un oggetto, poveretto. È l’uso che se ne fa, il suo significato
sociale, che dice qualcosa di noi.
E allora, magari, se lo
togliete prima di salire in metro, non fate solo un favore alla mia milza: fate
un piccolo, minuscolo gesto di reinserimento nella specie.