Stamattina, nel riporre con la solita cautela l'ombrello pieghevole che tengo in borsa, mi sono sorpreso. Non tanto per il gesto in sé – aprirlo, farlo asciugare all’aria, richiuderlo con delicatezza, riporlo nella sua custodia – quanto per la cura con cui lo faccio. È un ombrello da otto euro, preso al volo dal cinese sotto casa. Nessun valore, nessuna storia, nessun nonno.
Eppure, lo tratto con una forma di rispetto che somiglia
a quella che riservo all’orologio appartenuto proprio a mio nonno,
e di cui ho scritto in un intero capitolo del mio libro La
ninfa e lo scoglio. Un oggetto denso, che porta addosso la sua
biografia e un pezzo della mia. L’ombrello, invece, non porta nulla. O almeno,
non portava. Perché se continuo a trattarlo così, forse qualcosa la porta.
Ho cominciato a domandarmi cosa stessi facendo davvero, e
perché. Perché tengo a un oggetto che so perfettamente essere
intercambiabile, sostituibile, replicabile all’infinito? E la risposta che mi
sono dato è che lo riconosco fragile. La sua struttura sottile, quel
piccolo clic che può spezzarsi in ogni momento, l’evidenza del suo essere
provvisorio: tutto mi spinge non al disinteresse, ma alla cura. Come se
fosse proprio la fragilità a chiamarla.
Non è la prima volta che mi accorgo di voler conservare,
quando il mondo intorno mi spinge invece a sostituire. Teniamo tutto finché
funziona, poi via: resetta, cambia, aggiorna. Ma c’è qualcosa in me che resiste
a questa logica. Un piccolo sabotaggio quotidiano del darwinismo sociale delle
cose.
Certo, è facile capire perché si tiene a un orologio di
famiglia. Più difficile è spiegarsi questa ostinazione per un oggetto
qualunque. Eppure, forse proprio lì si annida qualcosa di più profondo: un
desiderio di continuità, di durata, persino di fedeltà.
Mi viene in mente quel che dice Daniel
Miller: che il nostro rapporto con gli oggetti rispecchia quello con
le persone. Allora l’ombrello, con la sua debolezza, diventa
figura di qualcos’altro. Di tutte quelle relazioni umane fragili, un po’
sghembe, magari leggere ma necessarie, che proprio per la loro instabilità
andrebbero maneggiate con più attenzione. Non meno, ma più.
Buttare via una relazione perché fragile è spesso un
gesto impulsivo, e alla lunga masochista. Per compiacere il nostro io
frettoloso – che vuole fare piazza pulita – finiamo per ferire il nostro io
futuro, quello che si girerà indietro e dirà: però, quell’ombrello…
faceva il suo lavoro. E mi piaceva.