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mercoledì 7 maggio 2025

L’ombrello e l’orologio

Stamattina, nel riporre con la solita cautela l'ombrello pieghevole che tengo in borsa, mi sono sorpreso. Non tanto per il gesto in sé – aprirlo, farlo asciugare all’aria, richiuderlo con delicatezza, riporlo nella sua custodia – quanto per la cura con cui lo faccio. È un ombrello da otto euro, preso al volo dal cinese sotto casa. Nessun valore, nessuna storia, nessun nonno.

Eppure, lo tratto con una forma di rispetto che somiglia a quella che riservo all’orologio appartenuto proprio a mio nonno, e di cui ho scritto in un intero capitolo del mio libro La ninfa e lo scoglio. Un oggetto denso, che porta addosso la sua biografia e un pezzo della mia. L’ombrello, invece, non porta nulla. O almeno, non portava. Perché se continuo a trattarlo così, forse qualcosa la porta.

Ho cominciato a domandarmi cosa stessi facendo davvero, e perché. Perché tengo a un oggetto che so perfettamente essere intercambiabile, sostituibile, replicabile all’infinito? E la risposta che mi sono dato è che lo riconosco fragile. La sua struttura sottile, quel piccolo clic che può spezzarsi in ogni momento, l’evidenza del suo essere provvisorio: tutto mi spinge non al disinteresse, ma alla cura. Come se fosse proprio la fragilità a chiamarla.

Non è la prima volta che mi accorgo di voler conservare, quando il mondo intorno mi spinge invece a sostituire. Teniamo tutto finché funziona, poi via: resetta, cambia, aggiorna. Ma c’è qualcosa in me che resiste a questa logica. Un piccolo sabotaggio quotidiano del darwinismo sociale delle cose.

Certo, è facile capire perché si tiene a un orologio di famiglia. Più difficile è spiegarsi questa ostinazione per un oggetto qualunque. Eppure, forse proprio lì si annida qualcosa di più profondo: un desiderio di continuità, di durata, persino di fedeltà.

Mi viene in mente quel che dice Daniel Miller: che il nostro rapporto con gli oggetti rispecchia quello con le persone. Allora l’ombrello, con la sua debolezza, diventa figura di qualcos’altro. Di tutte quelle relazioni umane fragili, un po’ sghembe, magari leggere ma necessarie, che proprio per la loro instabilità andrebbero maneggiate con più attenzione. Non meno, ma più.

Buttare via una relazione perché fragile è spesso un gesto impulsivo, e alla lunga masochista. Per compiacere il nostro io frettoloso – che vuole fare piazza pulita – finiamo per ferire il nostro io futuro, quello che si girerà indietro e dirà: però, quell’ombrello… faceva il suo lavoro. E mi piaceva.