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venerdì 23 maggio 2025

Nuovo antisemitismo? No, è solo il vecchio odio per lo Stato

Non se ne può più. Davvero. Ogni volta che si muove una critica a Israele – ogni singola volta – qualcuno salta su a gridare “antisemita!”. Ma si può ancora dire qualcosa su Gaza, sull’occupazione, sui bombardamenti, sui coloni, senza essere schedati come nuovi nazisti? È mai possibile che chiunque dica “Free Palestine” venga messo sullo stesso piano di un negazionista? Davvero?

Calma. Rilassiamoci. Respiriamo. Perché, forse, la questione è un po’ più complicata.

«Lo Stato è male. Israele è uno Stato. Quindi Israele è il Male». Questo è il sillogismo morale di una nuova religione politica: l’antistatalismo radicale. E come ogni religione, produce i suoi martiri, e i suoi carnefici.

Negli ambienti intellettuali che si autodefiniscono “critici”, c’è una parola che da tempo fa paura più di altre: Stato. Non capitalismo, non patriarcato, non oppressione ma Stato. Lo Stato è divenuto il bersaglio privilegiato di un’intera generazione accademica, militante e mediatica. Non perché produca diseguaglianze (che lo fa), né perché eserciti violenza (che accade), ma perché incarna – nella sua forma più limpida – l’idea di ordine normativo legittimato, impersonale e universale. In altre parole, perché ricorda che esiste un potere che non si fonda né sul sangue, né sulla razza, né sul clan, ma sulla legge. Questa forma di potere fa orrore a chi sogna una società senza centro, senza gerarchie, senza confini, senza responsabilità ma anche, si noti bene, senza diritti che non siano semplici rivendicazioni identitarie.

Dopo l’assassinio a Washington di due giovani ebrei, Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim, da parte di Elias Rodriguez – attivista di sinistra, istruito, militante pro-Palestina – i commenti si sono divisi. Non tra chi condanna e chi giustifica, ma tra chi vede l’antisemitismo e chi lo nega in nome dell’antisionismo. Diversi editoriali odierni descrivono con precisione questo fenomeno: l’omicidio ritualizzato dell’ebreo divenuto diplomatico dello Stato. Non è più l’ebreo come tale ad essere odiato – un sentimento fuori moda, signora mia – ma l’ebreo funzionario, l’ebreo che incarna lo Stato, l’ebreo che lavora per Israele.

La vittima non è più vittima. È colpevole due volte: per la sua identità e per la sua lealtà istituzionale. È il sionista, non l’ebreo. Ma “sionista”, oggi, è semplicemente un’altra parola per dire: colui che crede nello Stato come forma di convivenza organizzata, come argine alla barbarie, come progetto comune.

Da qualche decennio, nelle scienze sociali, serpeggia una corrente potente: lo Stato è il Male. Non lo Stato autoritario, lo Stato illiberale, lo Stato teocratico. No: lo Stato in quanto tale. L’idea stessa di potere sovrano, di autorità normativa, di confine, di gerarchia, di cittadinanza. Una fobia che, più che con Marx o Weber, ha a che fare con Agamben, con il suo delirio sul campo di concentramento come paradigma ultimo della modernità (sì, lo stesso Agamben che durante il Covid sosteneva che il Green Pass fosse come il tatuaggio ad Auschwitz. È caduto in disgrazia, e meno male).

In questa cornice, lo Stato moderno diventa intrinsecamente sospetto: meccanismo di esclusione, macchina di violenza, struttura oppressiva. Il liberalismo? Una maschera per nascondere il dominio. Il diritto? Uno strumento per normalizzare la devianza. La democrazia? Una pantomima tecnocratica.

In questo clima, Israele appare come l’epitome dello Stato inaccettabile:

  • è armato quindi violento;
  • è occidentale quindi coloniale;
  • è identitario quindi razzista;
  • è ebraico quindi suprematista;
  • è efficiente quindi tecnocratico;
  • è legittimato quindi illegittimo.

Non è un caso che l’odio si concentri lì. Israele è lo Stato che resiste alla dissoluzione. Uno Stato che non si discolpa per esistere, che non chiede scusa per difendersi, che non smette di essere uno Stato anche quando si fa impopolare. È, in altre parole, una provocazione vivente per chi ha teorizzato la fine del potere statuale come emancipazione assoluta.

L’antisionismo contemporaneo non è solo la critica a una politica, cosa più che è legittima. È, più profondamente, una forma di rigetto viscerale del principio di sovranità politica. Israele è detestato non per ciò che fa (e non sempre fa bene), ma per ciò che rappresenta: l’idea che uno Stato possa esistere per proteggere un’identità storica, per unire una diaspora, per garantire sicurezza a chi per secoli è stato perseguitato.

Questa idea è inaccettabile per chi rifiuta ogni forma di identità collettiva che non sia fluida, decentrata, performativa. È l’odio per il confine, per la bandiera, per l’autorità condivisa. È, in definitiva, l’odio per la cittadinanza come legame politico, sostituita da un’identità immediata ed emozionale, fondata solo sul trauma e sulla lotta.

In un tempo in cui il termine “Stato” è usato quasi solo in senso negativo (macchina burocratica, repressione poliziesca, patriarcato istituzionale) c’è bisogno di ricordare che solo lo Stato, nella forma liberale, è stato in grado di difendere le donne, le minoranze, i lavoratori, i bambini. La storia della modernità democratica è la storia di un’espansione progressiva della protezione legale, non della sua compressione.

Se il razzismo si manifesta con maggiore intensità dove lo Stato è debole, come in Afghanistan, in Somalia, nella Cecenia di Kadyrov, allora il problema non è lo Stato, ma la sua assenza. E quel che può sembrare un rigurgito di antisemitismo, che prenderebbe solo la forma apparente dell’odio per il “sionista”, va piuttosto compreso come il trickling up del sospetto anti-istituzionale tipico in tutte le epoche dei veri emarginati. Oggi quel sentimento di sospetto pregiudizievole verso tutto quel che puzzi di “istituzione” è divenuto luogo comune delle classi medie e, ahimè, soprattutto della Classe Professionale Manageriale, composta da coloro che Musa al-Gharbi (2024) chiama “Capitalisti simbolici”. Si tratta dei cittadini ben saldi nei loro diritti garantiti dallo Stato liberale, ma che hanno il vantaggio di individuare un bel Nemicone Generale contro cui lanciare i loro strali cercando di lucrare visibilità, finanziamenti o like sui social. Costruiscono così un nuovo senso comune (antipolitica e populismo sono la faccia di destra, anticapitalismo e antisionismo sono la sua faccia di sinistra) che gravita attorno alla nuova moda: l’odio per lo Stato, per il principio di ordine politico razionale, di autorità legittima, di convivenza civile.

Non c’è nulla di scandaloso nel criticare Israele. Ma c’è molto di scandaloso nel giustificare chi uccide in nome di “Free Palestine” senza sapere nulla della Palestina, se non che rappresenta un mondo senza Stato. La retorica della “rivoluzione dell’intifada globale” è l’ennesima incarnazione di una teologia politica che disprezza la forma statuale perché la considera “bianca”, “borghese”, “imperialista”. In realtà, è solo il residuo più avanzato della civiltà occidentale, quella che ancora distingue tra colpa e pena, tra cittadino e terrorista, tra critica e omicidio.

Chi uccide lo fa in odio allo Stato. E chi odia Israele odia lo Stato perché è Israele, cioè perché è lo Stato di una minoranza che non si inginocchia, che non chiede scusa a nessuno per essere diventata sovrana.

E qui veniamo al punto. Se l’antisionismo non è antisemitismo (quasi mai lo è in modo cosciente, di questo sono certo, ho troppi amici antisionisti che so non essere antisemiti) allora deve diventare una teoria politica seria. Non può più essere un hashtag, uno slogan da corteo, una raffica di indignazioni selettive.

Chi si dice antisionista, oggi, deve spiegare:

  • se crede ancora nel principio dello Stato;
  • se ammette la possibilità di una sovranità legittima;
  • se riconosce la differenza tra diritto e sopraffazione;
  • se riesce a pensare l’identità collettiva fuori dai soli codici di vittimizzazione.

Altrimenti il sospetto di antisemitismo non sarà una paranoia, ma una deduzione logica.

Chi odia Israele in quanto Stato, non può cavarsela con la scusa che “si critica solo la politica di Netanyahu”. Perché non si spara ai diplomatici turchi o indiani, o sauditi. Non si gridano “a morte i suprematisti coreani”. Non si vandalizzano le ambasciate cinesi gridando “Fuck China”. Chi odia Israele deve spiegare cosa odia di Israele. E deve spiegare perché tutto ciò che odia è lo stesso che odia dello Stato in quanto tale.

Se l’antisionismo è coerente, allora è antistatalismo. E se è antistatalismo, allora lo si dica apertamente. Si accetti il dibattito politico, la critica, il confronto. Si dica: non crediamo più nello Stato moderno, e Israele è il simbolo supremo di quello Stato. Benissimo. Ma lo si dica, con coraggio e coerenza. E con tutte le conseguenze del caso. Altrimenti resterà solo l’ambiguità. L’ambiguità tra la critica e l’odio. Tra la militanza e il linciaggio. Tra la solidarietà e il pogrom. In quel silenzio, in quella zona grigia, l’antisemitismo tornerà a vestirsi da anticolonialismo, da anticapitalismo, da antirazzismo. E, com’è già accaduto tante volte nella storia, i peggiori crimini saranno commessi in nome delle migliori cause.