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giovedì 1 maggio 2025

Sigma e genitorialità: la differenza di genere come differenza di debito


C’è una cosa curiosa che succede quando si osservano da vicino le due figure culturalmente più affascinanti del nostro tempo: il maschio sigma e la sua controparte, quella che potremmo chiamare — un po’ per gioco, un po’ per svelamento — la femmina sigma.

Entrambi si sottraggono alla scena della relazione. Entrambi evitano la coppia stabile, l'esibizione dell'affetto, l'identità relazionale. Non vogliono partner, non vogliono dipendenze, non vogliono doveri affettivi. Eppure, c'è un dettaglio che cambia tutto: i figli.

Perché mentre il maschio sigma non deve averne, o li racconta come un errore giovanile, la femmina sigma deve averli avuti. Il primo si definisce per la sua fuga dalla paternità, la seconda per la sua emancipazione dalla coniugalità. E questo piccolo scarto definisce una sperequazione simbolica profonda.

Il maschio sigma è colui che ha scelto di non farsi carico di nessuno. Se ha avuto figli, lo racconta come una svista biografica, un episodio non pienamente consapevole. La sua identità è centrata sull’autonomia assoluta, che non ammette interruzioni notturne, mutui congiunti, o messe in scena natalizie davanti all’albero.

Per la cultura corrente, è colpevole. Non ha lasciato nulla dietro di sé, non ha investito nel futuro, non ha fatto la sua parte nella grande catena della generazione. Non c’è bisogno di teologia per capire questo: la colpa è sociale prima che morale. È un adulto che non è mai cresciuto. Un Narciso in ritardo. Uno che scansa il dovere mentre si finge spirituale.

La femmina sigma, invece, è spesso una madre. I figli li ha avuti. Ha fatto il suo. Ha stretto alleanza con un partner, ha condiviso pannolini, pediatri, recite scolastiche. Ma poi — quando non ce n’era più bisogno — ha tagliato il nodo coniugale. Senza farne un dramma. Senza vittimismo. Senza disprezzo.

E la società la guarda — con ammirazione. È riuscita a superare la dipendenza, senza negare la cura. Ha fatto il pieno di senso e ora può guidare da sola. Se si concede qualche storia, lo fa nei weekend di custodia alternata. Se si ritaglia del tempo per sé, lo fa senza sensi di colpa. È risolta. Matura. Centratissima.

Tutto si gioca qui: sul concetto di debito.
Il maschio sigma non ha contratto alcun debito di cura. Non ha dato nulla, quindi non può prendersi nulla. E quando lo fa, è giudicato.
La femmina sigma ha saldato il proprio debito: ha generato, ha accudito, ha “fatto il suo”. E ora è libera di tirarsi indietro.

Ecco perché la stessa postura — la distanza, il ritiro, l’indipendenza — è giudicata in modo opposto:
immatura se maschile, emancipata se femminile.
colpevole se preventiva, legittima se successiva.
sterile se senza figli, feconda anche nel silenzio se figli ne ha avuti.

Anche sul lavoro il parallelismo è interessante. Il maschio sigma non vuole diventare capo. La femmina sigma nemmeno. Entrambi disertano la gara. Ma se lui viene visto come un renitente alla leadership, lei appare come una che ha scelto la libertà.

Eppure, spesso la donna sigma non è economicamente del tutto autonoma. Vive grazie a un equilibrio complesso fatto di affido, sussidi familiari, reti informali. Non è isolata, ma ben posizionata nel reticolo sociale. Il maschio sigma, invece, è più solo. E più inascoltato. Non gode dello stesso margine di simpatia. È stranamente colpevole della propria libertà.

È possibile che la nostra cultura, pur professando parità e autodeterminazione, chieda ancora agli uomini la responsabilità e alle donne la cura. E che solo chi ha assolto a questi compiti possa poi prendersi il lusso dell’autonomia.

Così, la femmina sigma è un’eroina post-femminista, mentre il maschio sigma resta un personaggio tragico, o peggio: un egoista spirituale in cerca d’autore.

Ma entrambi, forse, sono solo forme diverse di diserzione dalla promessa. Quella promessa — antropologicamente umana — che si chiama legame.