Entrambi si sottraggono alla
scena della relazione. Entrambi evitano la coppia stabile, l'esibizione
dell'affetto, l'identità relazionale. Non vogliono partner, non vogliono
dipendenze, non vogliono doveri affettivi. Eppure, c'è un dettaglio che
cambia tutto: i figli.
Perché mentre il maschio sigma non
deve averne, o li racconta come un errore giovanile, la femmina sigma deve
averli avuti. Il primo si definisce per la sua fuga dalla paternità,
la seconda per la sua emancipazione dalla coniugalità. E questo piccolo
scarto definisce una sperequazione simbolica profonda.
Il maschio sigma è colui
che ha scelto di non farsi carico di nessuno. Se ha avuto figli, lo racconta
come una svista biografica, un episodio non pienamente consapevole. La sua
identità è centrata sull’autonomia assoluta, che non ammette
interruzioni notturne, mutui congiunti, o messe in scena natalizie davanti
all’albero.
Per la cultura corrente, è
colpevole. Non ha lasciato nulla dietro di sé, non ha investito nel
futuro, non ha fatto la sua parte nella grande catena della generazione.
Non c’è bisogno di teologia per capire questo: la colpa è sociale prima che
morale. È un adulto che non è mai cresciuto. Un Narciso in ritardo. Uno che
scansa il dovere mentre si finge spirituale.
La femmina sigma,
invece, è spesso una madre. I figli li ha avuti. Ha fatto il suo. Ha stretto
alleanza con un partner, ha condiviso pannolini, pediatri, recite scolastiche.
Ma poi — quando non ce n’era più bisogno — ha tagliato il nodo
coniugale. Senza farne un dramma. Senza vittimismo. Senza disprezzo.
E la società la guarda — con
ammirazione. È riuscita a superare la dipendenza, senza negare la
cura. Ha fatto il pieno di senso e ora può guidare da sola. Se si concede
qualche storia, lo fa nei weekend di custodia alternata. Se si ritaglia del
tempo per sé, lo fa senza sensi di colpa. È risolta. Matura.
Centratissima.
Tutto si gioca qui: sul
concetto di debito.
Il maschio sigma non ha contratto alcun debito di cura. Non ha dato
nulla, quindi non può prendersi nulla. E quando lo fa, è giudicato.
La femmina sigma ha saldato il proprio debito: ha generato, ha accudito,
ha “fatto il suo”. E ora è libera di tirarsi indietro.
Ecco perché la stessa postura —
la distanza, il ritiro, l’indipendenza — è giudicata in modo opposto:
immatura se maschile, emancipata se femminile.
colpevole se preventiva, legittima se successiva.
sterile se senza figli, feconda anche nel silenzio se figli ne ha
avuti.
Anche sul lavoro il
parallelismo è interessante. Il maschio sigma non vuole diventare capo. La
femmina sigma nemmeno. Entrambi disertano la gara. Ma se lui
viene visto come un renitente alla leadership, lei appare come una che ha
scelto la libertà.
Eppure, spesso la donna sigma non
è economicamente del tutto autonoma. Vive grazie a un equilibrio complesso
fatto di affido, sussidi familiari, reti informali. Non è isolata, ma ben
posizionata nel reticolo sociale. Il maschio sigma, invece, è più solo. E
più inascoltato. Non gode dello stesso margine di simpatia. È stranamente
colpevole della propria libertà.
È possibile che la nostra
cultura, pur professando parità e autodeterminazione, chieda ancora agli
uomini la responsabilità e alle donne la cura. E che solo chi ha assolto a
questi compiti possa poi prendersi il lusso dell’autonomia.
Così, la femmina sigma è
un’eroina post-femminista, mentre il maschio sigma resta un personaggio
tragico, o peggio: un egoista spirituale in cerca d’autore.
Ma entrambi, forse, sono solo forme
diverse di diserzione dalla promessa. Quella promessa —
antropologicamente umana — che si chiama legame.