Culture visive: parole chiave degli antropologi.
Mi piacciono gli elenchi, le liste, le parole chiave. Mi pare veicolino un sano intento pedagogico, che vedo duplice: da un lato invogliano al dettaglio, a non trascurare i particolari; dall’altro spingono il lettore a creare connessioni altrimenti improbabili, a cercare piste interpretative poco battute. Mi piacciono meno, gli elenchi, quando aspirano all’esaustività, quando pretendono di essere enciclopedici e quindi completi. Allora ne diffido quasi pregiudizialmente, perché credo soffochino proprio quello che dovrebbe essere (almeno per come lo concepisco io) lo spirito della ricerca e della pratica antropologica, che è proprio l’impegno sistematico a creare nessi poco evidenti, a sviluppare incroci impuri. Quando Saussure diceva che “tutto si tiene”, non credo (o non voglio credere) che stesse dandoci un’informazione sul reale, quanto un’indicazione programmatica, un progetto di ricerca. “Tutto si tiene” è una sfida. Tutto si tiene? Fammelo vedere, su, bello. Abito e inquadrare; immagine e voce; violenza e iperluogo. Tutto si tiene.
Il numero 14 (speciale) di AM è concepito e (dis)organizzato esattamente secondo questi principi: un elenco che affastella in una struttura quasi barocca voci apparentemente incongrue (che c’entrano i confini (Fabietti), e che c’entra lo sviluppo (Malighetti), con le culture visive? Poi uno legge che i Baluch hanno una concezione “liquida” dei confini agricoli, e inizia a riflettere sulla non necessità di certe visibilità che diamo per scontate; poi uno legge che lo sviluppo oggi si declina in emergenza, e che questa ha necessità di un apparato mediatico di sostegno per sopravvivere come prassi politicamente legittima) a fianco di voci più prevedibili (digitale, etnofiction, immagine, inquadrare, produzione, visualismo). La sfida, credo, consiste nell’accettare il mandato della nostra disciplina, fatta di dettagli “inessenziali” che rapidamente si agganciano in quadri fluidi di significazione per scompaginarsi e riaggregarsi lungo altre direttrici, secondo altri campi semantici. Le voci, per dichiarata volontà redazionale, sono compresse (non nei 1300 caratteri indicati da Padiglione nell’introduzione, ma in 13.000) e non pretendono esaustività di sorta. Sono, inutile quasi dirlo, prospettive, modi di riflettere sulla nostra disciplina da un determinato punto di vista. Come i giochi linguistici dell’Oulipo o certi libri di Pennac o Queneau; come alcune strutture chiuse della poesia (il sonetto, costretto a dire tutto in quattordici versi), queste voci accettano una mutilazione preventiva, che è poi il modo più onesto per riconoscere la necessaria incompletezza e ricorsività del nostro sapere (non solo antropologico, ovviamente).
Un altro modo per cogliere lo spirito che anima questo numero speciale di AM è annotarsi a parte i testi citati alla fine di ogni voce: tranne rarissimi casi, non esistono praticamente sovrapposizioni, autori o titoli citati da più di un paio di voci per volta. Come a dire che abbiamo rinunciato a un canone disciplinare (se mai l’abbiamo avuto) e ci affidiamo serenamente a percorsi e specialismi spesso individuali, che non temono di sforare i permeabili confini disciplinari.
Se penso che tra qualche giorno dovrò aiutare Paola de Sanctis Ricciardone a “insegnare” questo testo ai ragazzi del corso di Storia della Cultura Materiale dell’Unical, da un lato mi tremano le vene ai polsi, ma dall’altro mi rendo conto che – se riusciamo a trasmettere lo spirito del progetto – avremo veicolato uno dei cardini della disciplina.
Proverò quindi a ricostruire con le parole rese disponibili in questo numero di AM il discorso della relazione tra musei e dimensione visiva.
Il progetto perseguito da Vito Lattanzi, Paolo Piquereddu e Vincenzo Padiglione e realizzato in tempi rapidissimi dalla redazione di AM (a cui vanno i miei complimenti per la qualità finale, oltre che tutta la mia solidarietà di redattore editoriale che sa cosa significhi lavorare d’estate con più di trenta autori sotto la pressione dell’urgenza) è estremamente complicato e va dipanato almeno in alcuni dei suoi elementi costitutivi. L’intento primario è quello di far dialogare due settori (o due approcci) dell’antropologia, e cioè l’antropologia visuale da un lato e l’antropologia museale dall’altro, riconoscendo di primo acchito un legame tra i due, come racconta bene Padiglione nella sua presentazione. Ma qual è la natura di questo legame? Ovviamente, si tratta di un intreccio storico complesso. Da un lato è evidente che il museo si leghi alla visibilità dell’oggetto e anzi sia sostanzialmente il luogo del visibilio dell’oggetto (Kezich, Museo). Ma se si introduce la tecnica, a uno sguardo ingenuo (che è quello che intendo in parte mantenere in questa mia lettura) il museo e l’immagine in formato archiviabile sembrano, come oggetti della tradizione antropologica, figli di approcci diversi, se non antitetici. Da un lato il museo come luogo chosiste della documentazione, dall’altro la visualità cine-foto-ottica come espressione critica della museificazione. Di qui il museo come staticità, di là il visuale come spazio della dinamicità relazionale. Su un versante il museo della ricerca “a tavolino”, sull’altro il visuale come supporto sempre più imprescindibile del “campo” e filtro quasi inevitabile dell’osservazione partecipante (Paggi). Non dobbiamo dare troppo credito a questa irritante opposizione tra musei e tecnologie della riproduzione dell’immagine: basta leggere la voce visualismo (Faeta) per ricordare come l’antropologia sia stata, fin dai suoi esordi, ossessionata contemporaneamente dal possedere e dal rappresentare visivamente i nativi. Ma non mi sembra neppure giusto sminuirla come un residuo di letture imprecise. Con tutte le cautele del caso, dobbiamo ammettere che museo e immagine archiviabile si oppongono costitutivamente almeno nella loro genesi, dato che il museo si fonda come uno spazio che sottrae gli oggetti della cultura materiale dal loro contesto per renderli fruibili (o almeno osservabili e studiabili) in altro contesto, mentre l’antropologia visuale porta la propria tecnologia in situ e ritorna con rappresentazioni degli oggetti e delle loro relazioni, ma senza la necessità di sottrarli materialmente dal luogo originario della loro fruizione.
Che ne è, oggi, di questa divergente genealogia? Sempre semplificando, possiamo dire che la “rivalità” costitutiva tra tecnica museale e tecnica visuale è divenuta una solida alleanza quanto più si sono consolidati due mutamenti, uno per ognuno dei due settori.
1. Il museo DEA è sempre meno luogo di oggettivazione dell’altro per divenire sempre più spazio di riflessione del noi. I musei DEA – sempre più locali per fruizione e manufatti esposti – stanno diventando consapevolmente campi in cui tra utenti e produttori degli oggetti esposti si pone un legame diretto e continuativo. La memoria (Marano) gioca in questo tipo di museo un ruolo nuovo e sostanzialmente assente in precedenza dato che l’intento classificatore e differenziante in senso bourdieano viene sostituito da una funzione identificante spesso tramite il collante emozionale del ricordo. Da spazio chiuso e altro in cui regna l’ordine (Pasquinelli) della differenza materiale, il museo inizia a farsi luogo che si apre all’immateriale (Ricci e Tucci), consapevole da un lato dei limiti del realismo (Simonicca) e delle complicanze epistemologiche della mimesi (La Cecla) e conscio dall’altro della necessità di incorporare nel suo progetto nuove fonti (Puccini) e nuove strategie anche di marketing (de Sanctis Ricciardone) se vuole continuare ad avere un futuro. Non mancano inoltre i “musei del presente” e della quotidianità, che implicitamente criticano il presupposto che l’oggetto, per essere museificabile, debba essere eccezionale. L’accento sulla quotidianità e l’uso dell’oggetto “normale” impongono al museo nuove poetiche (Clemente) sottraendolo almeno in parte alla logica angosciante della predazione o della preservazione a tutti i costi. Da soggetto rapace, il museo si è fatto spazio tenace di ricomposizione dell’appartenenza. Da macchina generatrice di tratti contrastivi a spazio di discussione sulle scelte identitarie potenziali e praticabili. La stessa abitazione domestica subisce questo processo di museificazione (Padiglione, souvenir) di noi stessi. In sintesi, il passaggio mi pare quello dal museo come forma rigida della differenza (Lattanzi) a struttura potenziale e flessibile dell’identità. Sulle cause di questo mutamento vale la pena di rileggere la voce oggetto (Mirizzi) che spiega con rapidi esempi il suo divenire segno. Che questo possa avvenire modificando i nostri canoni dell’arte (Cossa e Tiberini) e della cultura materiale in generale (cfr. abito, Gri) e soprattutto accettando un cosciente rapporto tra dimensione emotiva e dimensione conoscitiva del museo è una condizione che garantisce vitalità allo stato attuale del contesto museale.
2. Il secondo mutamento cui accennavo riguarda direttamente il visuale, che non è più, nel suo dominio tecnico, patrimonio dell’etnografo o del documentarista. I mutamenti tecnologici che consentono strumentazioni maneggevoli ed economiche per inquadrare (Tiragallo) e la rivoluzione digitale (Marazzi) hanno aperto lo spazio all’etnofiction (Canevacci) e in generale agli indigenous media cioè all’uso dei mezzi di comunicazione da parte degli stessi tenutari per preservare i loro patrimoni culturali .
Non dobbiamo ovviamente far coincidere la dimensione della vista come senso biologicamente e culturalmente determinato con la questione tecnica della registrazione, conservazione e riproducibilità del veduto su supporti elettronici. Lo spazio figurativo (Putti), cioè la capacità dell’uomo di resecare il reale per riprodurlo in forma visiva, accompagna la nostra specie da tempi immemori. Ma se la mano nativa non preme più solo il colore sulla roccia e può invece spingere anche il pulsante rec o play, è chiaro che siamo di fronte a un mutamento radicale. Il visuale tecnologicamente assistito sta al pretecnologico come la voce sta alla scrittura, dato che apre spazi omologhi di ricorsività e replicabilità che mutano la sostanza stessa del rapporto con il senso della vista. E se l’uomo ha sempre avuto una sua percezione e concezione dello spazio tridimensionale di cui è parte (paesaggio, Angioni) e se è certo oggi che la visione non è un prerequisito dell’azione ma ne costituisce una forma basilare (ecologia, Grasseni e Ronzon), è evidente che qualunque modifica sostanziale della modalità della visione modifica radicalmente il contesto vissuto e le potenzialità dell’azione in quel contesto. Detto altrimenti, da quando sono disponibili (non solo agli specialisti) mezzi di archiviazione elettronica della visione è mutato il rapporto tra soggetti e reale. Non si tratta ovviamente di dare credito eccessivo all’estremismo baudrillardiano, ma di riconoscere che l’alfabetizzazione elettronica non è una prerogativa “occidentale” e, fatte salve le sperequazioni economiche, oggi si rende disponibile a chiunque. Può suonare paradossale che l’antropologia abbia messo in discussione il suo visualismo (Faeta) proprio quando il dominio dell’immagine diveniva patrimonio comune, ma questo sembra essere un destino comune a gran parte del sapere antropologico, di cui tendiamo a liberarci nel momento in cui diventa condiviso.
Nato come sguardo oggettivante dell’Occidente, il frame tecnologico si è decolonizzato e indigenizzato, liberando – per quanto in forme paradossali – nuove strategie di resistenza all’omogeneizzazione culturale.
Museale a visuale, quindi, hanno vissuto ognuno nelle sue forme il generale movimento che nell’antropologia culturale ha portato a una progressiva perdita di fuoco dell’oggetto: nel museale la fine dell’oggettivazione dell’altro è passata (o sta passando) per un’apertura alla museificazione del noi, mentre nel visuale questa stessa de-oggettivazione passa con forza attraverso l’appropriazione indigena delle tecnologie di riproduzione. Credo che tutto questo emerga dalla lettura incrociata delle parole chiave di AM, che offrono un quadro sufficientemente complesso di questo rapporto.
Quando qualcuno ha il coraggio di tentare un’operazione come questa, uno degli esercizi più facili (e quindi più sterili) che si possano fare, leggendo il risultato, è andare a caccia di quel che manca: quale voce, quale riferimento, quale spunto. Non intendo quindi pormi in questa chiave critica, ora che mi limito a porre una domanda: anche se sono presenti utili riflessioni sul film (Pennacini) – come oggetto non necessariamente etnografico ma comunque degno di riflessione antropologica – come mai non c’è una voce come mass media o televisione nella lista delle parole chiave? Se parliamo della dominanza del visuale nelle culture contemporanee e del rapporto tra visuale e museale, la televisione diviene uno snodo quasi necessario.
Pietro Clemente nella voce poetiche ci ricorda i tre principi che guidano la pratica museale: educare, conoscere, dilettare. Già Boas nel 1907 aveva proposto un terzetto simile (divertimento, istruzione, ricerca) , pensando ai tre potenziali pubblici del museo (bambini e masse da divertire, colti da educare, studiosi per ricercare) ma vale la pena di ricordare che, con una sola differenza dovuta alla specificità del mezzo (informare al posto di conoscere o ricercare), gli studiosi di mass media attribuiscono questa stessa tripletta al servizio pubblico di diffusione radiofonica prima, e poi televisiva. Insomma, ancora oggi la BBC dichiara di seguire i principi del servizio pubblico stabiliti negli anni Venti dall’allora direttore John Reith: “to inform, educate and entertain” . È ovvio che non tutta la televisione si identifica con la BBC, ma forse è il caso di distinguere (come si è fatto per il film) tra mezzi di comunicazione di massa intesi come oggetto di studio dell’antropologia e come strumenti di lavoro e comunicazione del sapere antropologico. In questa seconda accezione credo che vi sia una solidarietà costitutiva tra musei e mass media. Se è vero che i grandi dirigenti del servizio pubblico hanno concepito la radio e la televisione come strumenti finalizzati a realizzare gli stessi scopi dei musei, possiamo azzardare un anacronismo, e dire che i gradi museologi dell’Ottocento stavano facendo comunicazione di massa con i mezzi tecnologici allora disponibili. Non avendo la possibilità di portare le immagini e gli oggetti dentro le case degli utenti, cercavano di portare gli utenti nei musei. Il museo, quindi, è una sorta di tele-visione prima della televisione.
Oggi la rivoluzione digitale significa, al di là degli ovvi vantaggi sulla produzione e l’archiviazione, un mutamento sostanziale nel sistema della distribuzione delle immagini: il broadcasting analogico (che è condizionato dai limiti fisici di disponibilità dello spettro elettromagnetico delle frequenze) viene affiancato (e spesso rimpiazzato) dal broadcasting digitale (che supera di fatto il problema della banda elettromagnetica come risorsa limitata, togliendo legittimità ai monopoli e agli oligopoli) e soprattutto dal narrowcasting (reti tematiche) e da tutte le forme di ricezione on demand (tra cui inizia a farsi piede il podcasting, cioè il download di una specifica porzione di informazione selezionata dall’utente). Esperimenti fortunati come le radio via Internet e YouTube.com prefigurano un nuovo modo di fare comunicazione e tele-visione in cui salta il rapporto verticistico e gerarchico tra emittente centrale e riceventi finali, in cui cioè il mondo dei mezzi di comunicazione di massa si apre al peer to peer. Come potrebbe interagire tutto questo con il patrimonio museale e in generale con i beni DEA? Se i musei si pensassero più radicalmente tele-visivi si otterrebbe il contemporaneo vantaggio di rendere culturalmente spendibile la televisione, almeno in alcuni suoi settori. Spero e credo che il numero speciale di AM dedicato alle culture visive apra lo spazio per una riflessione sistematica su questi temi.