2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

lunedì 16 dicembre 2019

A scialacquare appuntamenti

Visto l'approssimarsi delle festività, vogliamo compattare gli impegni e quindi vi chiediamo di scegliere tra due eventi che andranno in quasi contemporanea in due parti molto distanti della città di Roma il prossimo mercoledì 18 dicembre. Alle 16:00 ci troviamo con Marco Innamorati per parlare ancora di #UMANO al Macro Asilo, ultimo appuntamento di un percorso iniziato più di un anno fa.

Alle 17:00 saremo invece al polo culturale ex Fienile per parlare del complesso rapporto attuale tra scienza e società.

Insomma, cerchiamo di restare accesi e attenti: il mondo è complicato e ha bisogno di pensiero attivo. Marco Innamorati ci parlerà dalla sua prospettiva di psicologo e storico della scienza: dove si colloca il limite dell'Umano dentro l'animo/l'anima della nostra specie?

Vittorio Colizzi, tra i più eminenti virologi italiani con tantissimi anni di esperienza in Africa, coadiuvato da altri scienziati e dagli attivisti delle realtà territoriali, ci porterà invece a riflettere sulle tensioni attuali tra il linguaggio della comunicazione sociale e il linguaggio della scienza.

A QUESTO LINK gli studenti Antropologia culturale (sia 2018/19 sia 2019/20) possono compilare il modulo che consente di acquisire mezzo punto sulla valutazione complessiva del loro percorso di Antropologia culturale.

martedì 3 dicembre 2019

Esito esonero 16 novembre 2019

Per cortesia, QUI trovate l'esito dell'esonero del 16 novembre scorso. Mediamente è stato un buon esonero, visto che siete venuti in molti e avete risposto spesso con attenzione e cura.
Come specificato nel file, potete venire al mio ricevimento (ora spostato al Fienile, ma in cambio dello sforzo vi offriamo un tè nel nostro ormai attrezzatissimo laboratorio) per qualunque chiarimento o per controllare che non vi siano stati errori di matricola. Ho usato (tranne uno o due casi con cui ci siamo sentiti via mail durante le lezioni) per identificarvi il numero di matricola che avete indicato al momento della compilazione del modulo online.

giovedì 28 novembre 2019

Passione (e) politica


Si pensa troppo spesso alla politica come a un gioco lucido e razionale di controllo e uso delle risorse, una specie di estensione al piano delle relazioni sociali delle scelte razionali dell’economia. appassionante (da cui la “crisi della politica”) ma soprattutto non riesce a tener conto di quanto la politica sia uno strumento di identificazione e appartenenza, quanto cioè i sentimenti siano essenziali per comprendere la costituzione del Noi e del Loro come spazio originario dell’agire sociale. In questo incontro, con l’aiuto di Peppino Ortoleva e Federico Bonadonna, cercheremo di capire la radice passionale (e quindi sinceramente appassionante) della politica, la forza di sentimenti come l’odio e di orientamenti come la viltà, il valore simbolico della violenza e la necessità di comprendere la dimensione rituale della vita associata.
Questo modello di analisi prima di tutto non è affatto
L’impegno richiesto ai partecipanti è notevole, dato che staremo assieme dalle 10 del mattino alle 16, nel polo culturale ex Fienile. CI sarà una relazione mattutina, seguita da un dibattito seminariale, e una nuova sessione dopo il pranzo auto-organizzato. Per cominciare a capire la complessità del mondo attuale.
L’incontro è aperto a tutta la cittadinanza e ci aspettiamo una larga partecipazione. Per gli studenti di Antropologia culturale che ancora devono verbalizzare, la partecipazione all’incontro garantisce un punto sulla valutazione finale. Chi parteciperà è pregato di compilare il modulo online, per poter facilitare l’organizzazione degli spazi.

domenica 24 novembre 2019

Tempo e Spazio a largo Mengaroni


Caro El Chentro, intanto mi permetta di notare il caso assurdo di darsi borghesemente del Lei, dopo
che ci conosciamo da oltre dieci anni essendoci sempre dati del tu, ma se Lei ritiene che valga la pena di mantenere queste piccole mascherate (non starà mica cedendo alla lusinga del “decoro urbano”, spero…) e sia, damose der Lei…

Ci sono alcune cose che vorrò argomentare in questa mia risposta alla Sua gentile di oggi 24 novembre 2019 pubblicata sulla sua pagina Fb, ma per chi non avrà modo di leggere il dettaglio i punti sono i seguenti:

1. Le cose che ho dette a lezione Lei (e tutti gli altri soggetti coinvolti) le conosceva già da mesi, essendo stato da me informato a riguardo. Faccia la mammoletta con altri. Ci siamo slinguazzati a lungo e fare ora l’oltraggiato a sua insaputa la getta nel ridicolo con chi sa come si sono svolti i fatti (prima di tutto Lei stesso). Venga a qualunque mia lezione e ne discuteremo in pubblico.

2. Non ho mai disprezzato il Collettivo Errezero, e anzi nella mia analisi ho ampiamente ammesso gli errori di Tor Vergata e della Associazione 21 Luglio nel relazionarci con un gruppo identitariamente fragile. Non spetta comunque a Lei farsi portavoce del Collettivo Errezero, visto che sono tutti grandicelli e sanno parlare a loro nome, come sia io come Tor Vergata che Lei come El Chentro abbiamo avuto modo di constatare.

3. Le cose che dico sono, da sempre, pubbliche. Non frequento circoli carbonari e non amo fare riunioni ristrette, come invece altri hanno sempre cercato di fare in passato. Da oltre dodici anni ho questo blog, registro tutte le mie lezioni in formato mp3 rendendole pubbliche a tutti e praticamente tutte le mie pubblicazioni sono disponibili in formato pdf in rete (prima fonte il mio curriculum online). Respingo con la massima forza l’idea vergognosa che io, con il lavoro che faccio, mi metta a fare analisi senza avere interagito a fondo con i soggetti di cui parlo e senza restituire a quei soggetti il quadro della mia analisi.

4. Come antropologo attivo sul territorio, confermo che El Chentro ha svolto (e in parte ancora svolge) un ruolo centrale per la vita politica (in senso non partitico, ma di contribuzione alla cittadinanza) del quartiere di Torbellamonaca. Confermo parimenti che le mie analisi di territorio sono lucide e dettate da intenti conoscitivi almeno quanto le sue prassi sul territorio sono impegnate e appassionate. Eviti, per cortesia, di dare lezioni che non è in grado di dare. Io per conto mio non pretendo di essere in grado di coinvolgere il quartiere con il fuoco sacro della rivoluzione o della creazione della comunità, ma lei non mi venga a spiegare il mio mestiere di studioso e ricercatore, grazie.

Ma vediamo il dettaglio e il motivo del contendere

>MOLTI HANNO PARLATO E CONTINUANO A FARLO DELLA NOSTRA REALTA’ MANCAVANO SOLO I PROFESSORI D’UNIVERSITA’ ... ORA SONO ARRIVATI ANCHE LORO.

Boh, io sono vent’anni che faccio sto mestiere e ho conosciuto El Chentro credo UNDICI ANNI FA a una puntata del programma che uno dei suoi leader più in vista faceva a Radio Popolare Roma sulle culture giovanili. Conobbi allora alcuni giovani rapper del quartiere, con alcuni ancora collaboro, da tre anni lavoro a polo culturale ex Fienile (che mi pare stia propinquo alla “vostra realtà”, giusto?) per non dire le volte in cui El Chentro mi ha coinvolto in attività, presentazioni perfino alla sede del Municipio, o al Teatro di Torbellamonaca, oltre a quelle direttamente nella sua storica sede di largo Mengaroni. Sputare nel piatto dove si è mangiato, e soprattutto sputare sul pasto di cui ci si è pasciuti è veramente di cattivo gusto. “Ora” de che, se mi posso permettere? Io parlo con Lei da anni e anni, ora si è accorto che faccio il professore? Se aveva così in fastidio i professori (anche se lo so che è una moda) perché mi è venuto a cercare quando il Fienile è stato messo a bando nel 2015? È lei che ha cercato me, non viceversa.

>Abbiamo ascoltato Piero Vereni nella ricostruzione di contesti e fatti inerenti l’Ex Fienile, non sappiamo con certezza se sia in una sua lezione di “antropologia culturale” come prof. dell’Università di Tor Vergata o altro momento.

Ma sor Er Che, mi scusi, come “non sappiamo”? I file mp3 delle mie lezioni sono online pubblicamente, li ha scaricati sulla colonna di destra di questa stessa pagina dove state leggendo questa mia ulteriore analisi. Oppure glieli ha passati come link qualcuno che li ha, per forza, trovati nel link suddetto. Dai su, ogni file mp3 comincia con “buongiorno, oggi è il XXXX ed è la lezione numero Y del modulo Tale di Antropologia culturale”.

>Nella ricostruzione dei fatti accaduti all’Ex Fienile lei prof. fa una “narrazione” propria, menziona strutture e contesti dal suo punto di vista (libero di farlo) ma, correttezza impone, soprattutto da lei visto che è pubblicamente prof. di Antropologia all’Università di Tor Vergata, di farlo confrontandosi con contesti e soggetti di cui sta parlando, quindi se lo sta facendo in un’aula di Università o luogo di lezione scelto, istanza pubblica o altro abbia la cortesia di farlo invitando i soggetti di cui parla.

Nella mia analisi del polo culturale ex Fienile presento ai miei studenti del modulo B UN TESTO CHE LEI CONOSCE DAL GIORNO 12 LUGLIO 2019, GIORNO IN CUI IL LABORATORIO DI PRATICHE ETNOGRAFICHE DI TOR VERGATA LE INVIÒ QUESTA EMAIL:
Da: Lape Del Fienile <lapedelfienile@gmail.com>
Date: ven 12 lug 2019 alle ore 19:04
Subject: articolo sul fienile
To: Elena Bachiddu <elena.bachiddu@uniroma2.it>, associazione 21 luglio <presidente@21luglio.org>, <francescostasolla93@gmail.com>, Nexus <nexusmoves@gmail.com>, Gindroteatro <info@gindroteatro.com>, Collettivo Errezero <collettivoerrezero@gmail.com>, Mario CHE TBM <mario.elche@libero.it>, cubo libro <infocubolibro@gmail.com>

Care e cari, 

ecco il testo che il LaPE ha scritto sul Fienile.
Accoglieremo volentieri i vostri commenti.

Buona lettura, 

i membri del LaPE

--

LaPE - Laboratorio di Pratiche Etnografiche
Polo ex Fienile
Largo Ferruccio Mengaroni, 11  - 00133 Roma (RM)
cell 333 9812520 - 3896242246

Il testo in questione è stato discusso per settimane dai membri del LaPE, ed era stato anticipato nella stesura in moltissime occasioni, anche in occasione delle riunioni dell’ATS del Fienile aperte a tutti, quelle riunioni che più di ogni altro Lei, signor El Che, aveva osteggiato perché “tanto ai ragazzi ste cose non interessano”. Avevamo detto a più riprese che il LaPE stava lavorando proprio a un testo volto ad analizzare la situazione al fienile e quindi era stato per noi imprescindibile che il testo venisse fatto circolare prima di tutto tra le persone di cui parlava. Il file allegato, a scanso di equivoci, è questo qui, Il Centro e la Rete, il modello che il LaPE ha elaborato dopo aver parlato e discusso con TUTTI i soggetti coinvolti (e molti altri di cui non si parla, per esempio i rappresentanti delle istituzioni e i decisori politici) e aver animatamente discusso al suo interno. Tra i soggetti destinatari, solo l’Associazione 21 Luglio ha risposto a quella mail, facendo un rilievo di cui il LaPE ha doverosamente tenuto conto nella seconda versione, quella che abbiamo consegnato a Carlo Cellamare, professore di Urbanistica a Sapienza, sua lunga conoscenza, che inserirà il nostro articolo in un volume su Torbellamonaca in cui, vengo a sapere proprio dal prof. Cellamare, c’è anche un contributo di El Chentro (o forse di un suo leader) di cui invece NOI del LaPE nulla sappiamo. Mettiamo allora le cose come stanno: noi abbiamo informato tutti delle nostre analisi, le abbiamo fatte circolare prima di consegnare la versione per la pubblicazione, abbiamo sollecitato una discussione tra i soggetti e siamo stati pronti ad accogliere rilievi. Chi oggi si lamenta, invece, ha scritto un testo inviandolo per essere pubblicato nella stessa raccolta di saggi, ma non ci ha fatto sapere nulla di quel che ha scritto. Se si tratta di “confrontarsi con contesti e soggetti di cui sta parlando” mi sa che si deve fare un bell’esamino di coscienza e pensare alle travi nel proprio occhio, piuttosto.

>Se questo non lo si fa è scorretto, ma sa la cosa a noi fa poco male perchè come realtà ne abbiamo ascoltate tante su di noi e sul nostro operato nel quartiere e nel sociale, al contrario, ci duole per i ragazzi del Collettivo Errezero che lei cita, dal suo dire sembra che siano “sciocchini” manovrati dal “CHE”ntro Sociale. Lei parla, a tal proposito, senza conoscere la storia di Errezero e “leggendo” a suo modo tutto ciò avvenuto all’Ex Fienile, se le sta tanto a cuore parlarne può invitare i ragazzi del collettivo all’universita e far dire a loro cosa sono e la loro ragione del contesto e dell’accaduto nelle dinamiche dell’Ex Fienile.

Questa poi, è scritta nel tipico gossippese da centro sociale de scoppiatoni, mi scusi la franchezza. Allora, vediamo come stanno le cose: intanto chi le dà l’autorizzazione di parlare in difesa del Collettivo, come se fossero dei minus habens non in grado di difendersi? Forse ha dimenticato che da oltre un anno e fin quando sono stati presenti al Fienile i membri del Collettivo Errezero hanno potuto partecipare alle riunioni di gestione solo su mia insistenza e contro il Suo parere, che avrebbe preferito proseguire con l’andazzo “decidiamo noi quattro maschi di mezza età”? E, di grazia, dove legge nel testo (che ho discusso come professore universitario con i miei studenti, non stavo al bar) che io avrei trattato quei membri da “sciocchini”? Ho fatto, semmai, proprio l’opposto, e sono stato piuttosto duro con l’Associazione 21 Luglio e con Tor Vergata per aver (volutamente o meno) messo in atto delle pratiche di “annessione” del Collettivo alle loro istanze istituzionali, e di aver faticato a comprendere le fragilità identitarie di un gruppo che non può che faticare a costituirsi e integrarsi in un tessuto sociale slabbrato come quello romano? Se c’è qualcuno che esce bene dal testo del LaPE che ho discusso, che Lei ha letto mesi fa (perché l’ha letto, vero?), questo è solo il Collettivo Errezero, l’unico che non sembra animato da questioni di bassa cucina della politica “del territorio” della periferia romana. La 21 Luglio, Tor Vergata e ancor più Lei, signor Er Chentro, hanno sempre combattuto per ragioni di Potere o, meglio, di “poterino”, ognuno con le proprie legittime aspirazioni ad essere visibile e a conquistare fette di controllo territoriale. Il Collettivo ha sempre e solo avuto l’intenzione di definirsi come realtà viva, con tutta l’ingenuità e il donchisciottismo dei vent’anni, e semmai noi vecchi volponi di pelo bianco e dura cervice non li abbiamo lasciati in pace, pretendo di tirarli di qui o di lì. Una cosa, certo, posso dire che non mi è piaciuta del Collettivo, vale a dire di essere caduti nella trappola del pregiudizio con cui hanno respinto la 21 Luglio e i suoi membri (dato che la 21 Luglio, diversamente da altre associazioni, non coincide interamente con il suo Presidente e ha un sacco di personale vitale, generoso, intelligente e sensibile). È su questo punto che vale la pena di essere franchi: Lei, carissimo Ercè, ha fatto di tutto per fare terra bruciata attorno alla 21 Luglio, non l’ha mai digerita, non ha mai sopportato il suo arrivo dall’“esterno” e il suo essere finanziata “da Soros e dal Vaticano” e ha sobillato chiunque ha potuto, soffiando veleno e pompando rancore. Ma questo lo spieghiamo con molta più lucidità nel testo, che tutti hanno letto da mesi.

>Per quel che riguarda El “CHE”ntro Sociale Torbellamonaca diciamo a lei, come sempre abbiamo fatto con tutti, che non ci sottraiamo a nessun confronto ma deve essere pubblico, al contrario ( come alcune realtà ultimamente hanno fatto) ci attaccano sui social o giornali amici ma poi su nostra richiesta di confronto pubblico si tirano indietro, e, ultimamente è il loro sport preferito.

Prima di ribadire il punto, faccio notare il massimo della fallacia argomentativa (che ho registrato moltissime altre volte nella Sua retorica, in pubblico e in privato) e che posso sintetizzare con un rapido: Ma de che stai a parla’? Cioè, qui pare che Vereni si sia inventato un’analisi bislacca senza consultare i diretti interessati di cui parla. Abbiamo già spiegato che, semplicemente, non è vero che la nostra analisi sia fatta nelle segrete ombre del potere, e si è prodotta pubblicamente, parlando sempre e ampiamente con i soggetti di cui parla, e rendendo pubbliche proprio a quei soggetti le proprie conclusioni analitiche. Ma la cosa curiosa è che, dalla sua ricostruzione, Mastro Che, non si ha la minima idea di COSA non andrebbe bene in quella analisi che viene contestata. Se ha letto il testo, perché non ne riporta qualche passo argomentando la sua critica? Se ha ascoltato la lezione, perché non ne riporta in trascrizione qualche frase spiegando cosa avrei detto di così contestabile e spiegando soprattutto in che cosa è contestabile? Farsi venire il nervoso non è il modo migliore per dimostrare che l’interlocutore ha torto, ed è semmai un segno di mancanza di argomenti (e quindi che l’interlocutore ha ragione…)

>Professore lei nelle sue lezioni, nei suoi interventi, negli eventi pubblici, può dire ciò che più gli garba, ma quando parla di contesti di cui sopra e fa riferimento a noi, corretteza impone una nostra presenza, altrimenti, a nostro modo di vedere non ne fa una bella figura.

Le ricordo che le lezioni universitarie sono pubbliche, e che il dibattito è stato esplicitamente da noi del LaPE sollecitato, in questa come in mille altre occasioni. Visto che però questo sembra un punto d’onore, La invito pubblicamente (e ne approfitto per estendere l’invito al Collettivo Errezero, se effettivamente l’analisi del LaPE non è da loro condivisa) a venire a una qualunque delle mie prossime lezioni del modulo B. Il calendario è sul mio blog, scegliete l’ora che volete, a patto però che, come faccio con le mie lezioni, tutto venga registrato e reso pubblico subito dopo la lezione. Vi anticipo inoltre che oltre agli mp3 quest’anno sto anche registrando i video integrali delle lezioni e quindi vi chiederò la liberatoria per pubblicare sul mio canale YouTube tutto il nostro incontro. A queste condizioni, per quel che mi riguarda potete venire ogni lezione, fino alla fine del semestre. Non parlerò certo solo del fienile (stiamo parlando di carcere, e a tratti la discussione si fa intensa con gli studenti, come finalmente piace a me, visto che siamo un numero ragionevole e possiamo discutere come fosse un seminario, non la bolgia del modulo A dove, visti i numeri, i ragazzi sono costantemente messi a tacere), ma sarà per me un piacere confrontarmi a bocce ferme con i miei interlocutori sul territorio. L’ho fatto in Macedonia, l’ho fatto in Irlanda, l’ho fatto a Rebibbia e l’ho fatto con i rappresentanti del Movimento per il diritto all’abitare, cioè con tutti i miei campi di ricerca. L’ho fatto di meno solo con i padri bangladesi, per mia carenza di tempo e per oggettive difficoltà di restituzione della mia analisi vista la sostanziosa barriera linguistica. Ma con voi mi sa che mastichiamo tutti un italiano decente e quindi non vedo perché non si possa serenamente e seriamente confrontarci. Senza che diventi un comizio a senso unico, né mio, né vostro, ma un confronto preciso su fatti, cose, e persone.

Concludendo, quando parlate dell’ Ex Fienile non fate la narrazione che più è in linea con quello che avete in testa o in linea con le progettualità da voi fatte, perchè li (parte parenti e amici) ci sono anche altri soggetti sia nell’ATS che nelle attività del fienile, correttezza impone di ascoltare anche loro, poi la gente di Torbellamonaca conosce molto bene l’Ex Fienile e la sua storia, a tutt’oggi, e a loro non dovete spiegare nulla.

Carissimo Chentro, qui la risposta mi viene facile, più facile se la spezzo in due: 1. I soggetti dell’ATS (tra cui, ricordo Lei non c’è mai stato per le ragioni note a tutti e che certo non dipendono dalla sua mancanza di volontà di esserci, anzi, ma da contingenze burocratiche che abbiamo fatto di tutto per soprassedere fin quando non è stato Lei, signor Che, a interrompere le sue attività al Fienile a parte la cura dei gatti) sono sempre stati coinvolti, informati, aggiornati. Nessuno, ma proprio nessuno, può dire al Fienile, a largo Mengaroni o financo a Torbellamonaca che il LaPE o Piero Vereni si è messo a fare analisi (mi permetta, su questo punto, di contestare il tic linguistico cui Lei tende a cadere, quello di parlare di “narrazioni” come un Matteo Renzi qualunque) senza sapere di quel che parlava: parlo a ragion veduta, anche contro il mio interesse, se l’obiettivo è aumentare la conoscenza e la consapevolezza dei fenomeni sociali di cui mi occupo. 2. Le consiglio di evitare di parlare così facilmente della “gente di Torbellamonaca” come se Lei ne fosse il naturale interprete. Come tutti, Lei non può che parlare a Suo nome, e i Suoi numeri, signor Chentro Sociale li conosciamo tutti, almeno quanto Lei pensa che la gente conosca la storia del Fienile. E non sono proprio numeri che Le consentano di parlare a nome “della gente”, nemmanco di quella di largo Mengaroni, figuriamoci di Torbellamonaca. Le anticipo a questo riguardo che, questa volta a titolo personale, ma ancora una volta con il sostegno del mio Laboratorio, a dicembre parlerò ancora pubblicamente (al convegno nazionale dell’Associazione di Antropologia Applicata, a Ferrara) del Fienile e della concezione del Tempo imbricata nella ricostruzione storica del suo divenire secondo chi era presente in quegli anni stupendi (io non c’ero, Lei sì) in cui faceste la battaglia per sottrarre il Fienile alle mire di don Gelmini. Sarà mia cura farle avere per tempo il testo che discuterò a Ferrara, e sarebbe molto bello parlarne ancora pubblicamente, magari di nuovo in una mia lezione a Tor Vergata.

Spero quindi che le nostre posizioni siano chiare: lei faccia tutto il lavoro sociale che può, continuerò a seguirLa e apprezzarLa quando la vedrò attiva sul territorio, mentre continuerò a mettere in luce con la mia analisi socio-culturale tutte le sue incongruenze, le sue contraddizioni e soprattutto la sua terribile gelosia territoriale. Lei, come dice spesso, lo fa per passione senza alcun tornaconto economico, io invece lo devo fare perché mi danno uno stipendio. E penso di meritarmelo tutto, quello stipendio, quindi non posso accettare in alcun modo rilievi men che puntuali alla “correttezza” del mio lavoro. Se ha delle rimostranze su come faccio il mio mestiere di antropologo sia sempre circostanziato, sennò mi salta la mosca al naso, visto che faccio della correttezza e della precisione le vere armi della mia battaglia come docente, come ricercatore e come cittadino.

Con immutata amicizia e rinnovata franchezza,

Piero Vereni e il Laboratorio di Pratiche Etnografiche

sabato 23 novembre 2019

Pregiudizio e racconto


Non so bene come sia successo, dato che quando ho cominciato a pensare che “volevo fare l’antropologo” mi interessavano i popoli mesoamericani, i Toltechi, gli Aztechi, i Maya e i loro successori contemporanei. Poi, per diverse ragioni, in Messico non ci sono mai andato (neanche per turismo), ma non ho perso l’interesse per qualcosa di esotico, e ho fatto il dottorato con una ricerca in Macedonia (soprattutto sul versante greco) e poi in Irlanda (al confine tra Repubblica e Irlanda del Nord). Quando mi sono definitivamente stabilito a Roma ho iniziato a interessarmi di temi di antropologia urbana, Roma è una miniera (e anche una sentina, in questo senso) di idee, temi, storie.
Ho finito così, quasi senza rendermene conto, a lavorare con temi teoricamente centrali ma letti dal punto di vista delle storie di persone marginali: la genitorialità e il rapporto intergenerazionale visto dal punto di vista degli immigrati bangladesi; la concezione dello spazio urbano e le forme della socialità viste dal punto di vista degli occupanti (italiani e stranieri) a scopo abitativo; la secolarizzazione e il postsecolare in una città come Roma letta dentro le rifrazioni multietniche e globalizzanti del pellegrinaggio al (doppio) santuario del Divino Amore; la giustizia e la cittadinanza viste da oltre le sbarre del carcere di Rebibbia.
Da tre anni, da quando Tor Vergata è presente al polo ex Fienile, la collaborazione con l’Associazione 21 Luglio mi ha portato a conoscere un poco la galassia rom, vale a dire lo spazio marginale per definizione. Grazie a loro sono diventato un membro di Reyn, la rete europea dei giovani rom, e grazie a Reyn Italia ho avuto modo di dare il mio modesto contributo conoscitivo a una “questione sociale” in cui la quota di pre-giudizio è spropositatamente altra, più che per ogni altro tema che io abbia affrontato nelle mie ricerche.
Sono quindi molto orgoglioso di essere stato convocato per fare il bibliotecario per la Biblioteca vivente che presenterà otto storie rom. Si è trattato di raccogliere le storie per trasformare il pregiudizio in una opportunità di conoscenza reciproca, in un processo di personalizzazione del rapporto che è prima di tutto umanizzazione. Definizione e Narrazione sono due modi essenziali di conoscenza del mondo, il primo corrisponde al Vocabolario, il quadro essenziale dei concetti che ci consente di orientarci nel mondo, ma il secondo corrisponde alla Enciclopedia, all’approfondimento come studio amorevole della cosa che si cerca di conoscere. In paesi come l’Italia i rom sono sempre più oggetto di definizione, e sempre meno soggetto di narrazione. Aprire una biblioteca vivente con loro è una vera opportunità di reciproca conoscenza, di superamento del pregiudizio e del sospetto (anche questi reciproci e spesso simmetrici). Vi chiedo, se siete al centro di Roma domenica mattina o nella periferia di Torbellamonaca nel pomeriggio, di fare un salto, venire a leggere uno o più di questi libri, ascoltare storie che non vogliono essere esemplari o didascaliche, ma che possono aprire una breccia nella disumanità delle rappresentazioni stereotipate, per cominciare a produrre quell’ingrediente curioso e imprescindibile delle nostre vite in relazione: l’umanità.
Qui trovate l'articolo di Carlo Stasolla sul sito del Fatto Quotidiano dove sono presentati gli otto libri viventi che potremo leggere.

mercoledì 20 novembre 2019

Le sardine spiegate bene (politica e pensiero selvaggio)


Trovo del tutto inadeguato (e a tratti sconfortante) il modo in cui si sta cercando di spiegare o raccontare il cosiddetto movimento delle sardine perché, finora, quel che ho letto sono solo spiegazioni di ordine politico, nel senso peggiore del termine. Cioè, tranne rarissime eccezioni, la modernità occidentale ha vissuto “la politica” in chiave weberiana normativa, vale a dire come una sfera del sociale che deve staccarsi e autonomizzarsi da tutte le altre (l’economia, la religione, la parentela, le relazioni sociali, l’arte, il diritto e così via). Secondo questo principio “La politica” è l’arte di gestire la cosa pubblica per il bene comune o per il bene della propria parte, secondo forme concordate di competizione per risorse che sono concepite come limitate. I politici, dunque, sono prima di tutto degli economisti politici, orientati alla massimizzazione dei vantaggi per la loro parte, vantaggi che sono di ordine anche simbolico (essere “onorevole”, cioè letteralmente degno di onore) ma che fondano questo simbolico su un ordine pratico (posti di lavoro, impiego delle risorse, alleanze con altre parti del corpo sociale).
Applicata al caso delle sardine, questa lettura non arriva da nessuna parte, dato che le sardine non stanno diventando tali su questa base razionale dell’agire politico, e si muovono piuttosto lungo una concezione non più moderna (chi vuole la chiami postmoderna, io preferisco parlare di concezione classica) della politica e dell’agire politico. Secondo questo modello classico (Lévi-Strauss parlava di pensiero selvaggio, che non è il pensiero “dei selvaggi”, ma il pensiero che si condensa secondo logiche simboliche o mito-logiche) fare politica è prima di tutto, etimologicamente, dichiarare la propria provenienza, lo spazio della polis che simbolicamente si occupa come “noi”, contrapposto a “loro”.
La politica delle sardine è una politica delle definizioni, delle appartenenze, e io ritengo del tutto non casuale che il fenomeno prenda forma secondo una categorizzazione di tipo totemico (le sardine, oggi rinforzata dai gattini di Salvini). È su questo piano che diventano importanti i tecnicismi dell’antropologia culturale, la scienza sociale più attrezzata per inseguire i percorsi simbolici di questa concezione della politica.
Le appartenenze, nel lessico della mia disciplina, si organizzano lungo un duplice asse, producendo quindi un piano delle identità. Lungo un asse c’è la categorizzazione, vale a dire il quadro delle classificazioni: quello che si dice che gli altri siano. Lungo l’altro asse c’è invece l’identificazione, quello che si dice che noi si sia. Ho usato la forma impersonale “si dice” perché in questo gioco classificatorio è centrale sapere/capire se il soggetto (che categorizza o si identifica) è un “noi” o un “loro”. Ci sono, in pratica, quattro possibili combinazioni:
1.       quello che noi diciamo di essere
2.       quello che noi diciamo che gli altri sono
3.       quello che gli altri dicono di essere
4.       quello che gli altri dicono che noi siamo
Le fazioni politiche ovviamente si occupano di tutte e quattro queste posizioni, ma è anche possibile utilizzare questa matrice per una sorta di tipologia approssimativa delle aggregazioni politiche.
Storicamente, i partiti politici canonici sono una forma di 1.: conta quello che noi partito diciamo di essere, il partito dei lavoratori, il partito della borghesia, il partito dei contadini. Invece 3. configura il riconoscimento interpartitico: un tavolo canonico è un tavolo dove si siedono tanti 1. che si accettano reciprocamente secondo il principio che 3. è vero per ciascuno, cioè che ciascuno si identifica con quel che vuole. Noi siamo il partito dei lavoratori e sappiamo che dall’altra parte del tavolo c’è il partito della borghesia imprenditoriale, per esempio.
Il problema è che la politica non funziona senza 2. e 4., cioè le categorizzazioni, sia nostre nei confronti di loro, sia loro nei confronti nostri. Non siamo cioè gli unici deputati a definirci e di fatto l’identità collettiva è la risultante di un gioco (politico, appunto) di categorizzazioni dall’esterno (quelli sono schiavi negri, dicevano in Luisiana nella prima metà dell’Ottocento guardando un campo di cotone) e di identificazioni dall’interno (Black is beautiful hanno iniziato a dire i neri dei ghetti urbani nell’America degli anni Sessanta).
Mano a mano che venivano meno le determinanti sociali della composizione in grandi classi e che la struttura sociale si complessificava con l’uscita dalla fabbrica come standard produttivo e dalla nazione come modello di appartenenza, ecco che 2 e 4 hanno assunto una rinnovata predominanza. I “partiti leggeri”, i “movimenti” di vario tipo che hanno infestato la politica pubblica italiana sono tentativi di dare la precedenza a 2 e 4. Si pensi a come Forza Italia e il MoVimento 5 Stelle siano (stati?) prima di tutto aggregazioni politiche attorno a 2: l’anticomunismo di Berlusconi (Comunishti!, il PCI-PDS-DS! la Sinistra brandita come spauracchio per il panico collettivo) e l’anti-politica della genesi e del consolidamento grillino (La Casta, i Poteri Forti, perfino Big Pharma) sono forme di aggregazione attorno a un noi sostanzialmente vuoto, che è tale principalmente perché è definitorio dell’Altro, perché insiste a produrre l’altro.
In questa trappola anti-X sono caduti i Girotondini e il Popolo Viola, che hanno costruito un sentimento definitorio speculare nell’antiberlusconismo professionalizzato e sistematico: noi siamo quelli che pensano che Berlusconi faccia schifo.
Ecco, io dico che le sardine non puntano a 2, ma contestano il 4 salviniano. NON aggregano attorno a una negazione dell’altro, ma si consolidano attorno alla negazione di quel che l’altro categorizza come noi. Le sardine sono diverse dai girotondini perché non sembrano (per ora) avere obiettivi politici a corto raggio (com’erano l’incriminazione di Berlusconi, le sue dimissioni, i processi e la lotta a Mediaset per i movimenti precedenti) e puntano tutto nel dire “noi non siamo come tu ci categorizzi”. Salvini, è evidentissimo, costruisce tutta la sua strategia politica su un 4 mascherato da 2, cioè un discorso in terza persona sull’italianità: gli italiani sono spaventati, sono incazzati, sono sospettosi della diversità, sono sanamente egoisti, vogliono ordine e disciplina. Tutta la sua comunicazione ha una funzione primariamente pedagogico-identitaria: vieni qui bello, ti spiego io quello che pensi: tu sei pieno di livore e paura, tu sei insicuro e frustrato, tu sei infelice e incazzato. Dice così, Salvini, perché il sottotesto è: e allora vota me che ti risolvo tutti i problemi perché so di chi è la colpa.
Ecco, le sardine NON accettano questa categorizzazione salviniana dell’italianità, e su basi esclusivamente simboliche (i disegnini, le sardine, l’occupare piazze con aria festosa) stanno negando la versione utilitaristica della politica (cosa ci guadagno a fare la sardina, in pratica? Nulla) ma stanno risemantizzando la funzione simbolica del politico (Noi non siamo come tu pretendi di descriverci). Ecco, io credo che questo sia un vaffa che vale la pena di inseguire, perché è un vaffa del 4, non un’ossessione del 2. È un gesto primigenio di rifiuto, anarcoide, speranzoso, decisamente non violento, non incazzato per definizione, perché contesta proprio con il sorriso la versione lugubre di questo paese che sempre più spesso la destra professionista pompa per lucrarci sopra. L’ho già detto: non ci avrete mai, nel senso che non riuscirete mai a imporre su di noi la vostra immagine schifosa di un paese che non ci somiglia. Neanche un po’.

martedì 19 novembre 2019

Il senso delle parole


Da diversi anni nei miei corsi introduttivi di antropologia culturale spiego un articolo ormai vecchio di mezzo secolo ma ancora centrale, di un importante antropologo americano, Clifford Geertz, che parla di un vecchio mercante ebreo del Marocco intento a raccontare all’americano una storia che gli era capitata quand’era giovane, a inizio Novecento. Il mercante, Cohen, aveva ricevuto a casa due potenziali clienti e quindi, come loro ospite, era responsabile della loro incolumità e del loro benessere, come vuole tutta la tradizione mediterranea dell’ospitalità.
Per una leggerezza dovuta probabilmente alla giovane età e all’inesperienza, Cohen lascia entrare nella sua casa alcuni predoni berberi che sgozzano i suoi clienti e gli devastano la casa-negozio. Scampato alla morte, Cohen ha come unico obiettivo quello di recuperare il suo ’ar, vale a dire, traduce Geertz, il suo “onore”. Non mi dilungo molto con gli studenti sul senso culturale di questo concetto, perché siamo tutti mediterranei in classe (tranne qualche studente cinese che seguo a parte, diciamo). E poi Cohen è impressionante per come si dà da fare, con i colonizzatori francesi, con il suo vecchio sceicco, con i concittadini e poi direttamente con i predoni, per avere indietro il suo ’ar, che è poi la sua faccia pubblica, la sua dignità riconosciuta, senza cui non potrebbe mai più fare il suo lavoro di mercante.
Leggendo il testo, il significato culturale di ’ar è tutto “performato” come si dice oggi con un brutto ma efficace anglicismo, secondo la teoria per cui il significato di un segno è tutto nell’uso che se ne fa. Uno, insomma, finisce l’articolo avendo capito cosa sia l’onore in quel contesto senza bisogno di definizioni, ma solo grazie alla forza del racconto.
Ecco, dal prossimo anno, quando vorrò introdurre il concetto di ’ar, dirò ai miei studenti di pensare a come si è mossa in questi dieci anni Ilaria Cucchi, che ha sfidato un mondo senza dignità per salvaguardare la sua, di sorella di un uomo morto ammazzato che mai avrebbe avuto giustizia altrimenti.
E a tutti i capetti e agli indignati di questo e di quello, che si riempiono la bocca di “onore”, “dignità” e “vergogna” e altri paroloni dico chiaro, da antropologo: piantatela di definirvi, e cercate piuttosto quello che siete in quello che fate, per dare vera sostanza di carne alle belle parole di cui vi ammantate. Guardate come Ilaria Cucchi ha resistito a dieci anni di infamità, a dieci anni di parole vergognose, sempre spinta da un’unica motivazione, ridare dignità al cadavere sfigurato del fratello. Quello è l’onore: nei gesti misurati con la mitezza di chi non ha nulla da perdere perché non si batte per una battaglia solo sua; nelle parole precise come metri di titanio; nelle azioni perseverate per arrivare alla verità. Figuratevi, nel terzo millennio, una donna che ancora si incaponisce con questo vecchio concetto di “verità”, e per di più per ragioni di “onore”. Dev’essere una pazza idealista. Dev’essere una donna. Dev’essere una sorella che ha capito che è dentro queste battaglie che si misura la nostra civiltà.

mercoledì 13 novembre 2019

Riparte la scuola di politica

Giovedì 14 novembre 2019 ripartiamo al Fienile con la Scuola di politica "Confini al centro", un progetto che ci ha visto lavorare in collaborazione con l'Associazione 21 Luglio al polo culturale ex Fienile.
E' un mondo difficile, dice Tonino Carotone, e noi cerchiamo di capirci qualcosa.
Cominciamo questa stagione con un incontro sulle migrazioni, tra il Mediterraneo e la rotta balcanica. Vedremo un documentario in anteprima e ne parleremo con la giornalista Eleonora Camilli, il videomaker Valerio Nicolosi e il geografo Giuseppe Bettoni, quest'ultimo prezioso collega di Tor Vergata.
Ci vediamo alle ore 18.00 in punto a largo Mengaroni, 29, per cercare di capirci qualche cosa, per non parlare a vanvera, per raccogliere dati e idee su come lavorare in questo mondo difficile...
NB Gli studenti di Antropologia culturale Modulo A che parteciperanno all'incontro vedranno ricompensato il loro impegno, in prossimità dell'esonero di sabato 16, con un RIPASSO STRAORDINARIO VENERDI' 15 NOVEMBRE ORE 11.30-13.00 SEMPRE AL FIENILE. Potranno partecipare al ripasso di venerdì SOLO quelli che saranno venuti giovedì alla Scuola di politica (o che potranno presentare una valida giustificazione). Ci sarà spazio per domande degli studenti e faremo alcune simulazioni dei quesiti a risposta multipla (e delle domande aperte) che costituiranno l'esonero del 16 novembre.

lunedì 11 novembre 2019

L'ultima lezione del modulo A

Per chi non fosse su Fb questo post serve solo a confermare che la situazione delle registrazioni mp3 è stata ripristinata e qui potete trovare tutte le lezioni del modulo A. Con questo link invece potete accedere al video dell'ultima lezione, dove faccio un po' di schemini alla lavagna utili per preparare adeguatamente l'esonero del prossimo 16 novembre.
Tanto per farmi un'idea di quanti verranno sabato 16, potete compilare questo rapidissimo modulo. NON è obbligatorio, ma mi facilita il lavoro (quanti moduli con le domande stampare, ad esempio).

mercoledì 30 ottobre 2019

Note sul Noi

Caro Marco,
mi prendo un po’ di spazio e un po’ di tempo per riprendere le fila del discorso e provare a darti la mia versione della questione. Avevo scritto dopo le elezioni umbre questo rapido post su Fb:
Potete avere tutti i voti che volete. Continuerete ad avere torto marcio nelle vostre pseudo-analisi e nelle vostre finte soluzioni. Siamo ancora migliori di come ci volete dipingere.
Era una specie di “non ci avrete mai” tirato un po’ per le lunghe, con tutta la pochezza teorica che uno slogan sbrodolato può avere (cioè molto poca).
Tu hai risposto chiedendomi chi fosse il soggetto di quel plurale “siamo”, ed è iniziato un denso scambio di commenti al post. Visto che il tuo ultimo commento ribadisce la domanda (“ma resta quel soggetto sottinteso della tua prima frase... esiste? No? Com'è? Come sarà?”), è segno che i miei tentativi di risposta sono falliti e allora provo qui a fare un po’ d’ordine.
Il Noi è il mistero più profondo della vita umana. Non è necessario essere d’accordo con Carl Schmitt e la sua teoria amico/nemico per sapere che ogni cultura stabilisce vari confini identitari, tra diversi ordini del “noi”. Il familismo morale colloca questo “noi” in un ambito molto ristretto, addirittura la famiglia nucleare, mentre alcune ideologie internazionaliste e alcune religioni cosmopolite collocano il Noi, potenzialmente, su scala planetaria e di fatto entro un raggio piuttosto vasto di condivisione. L’ampiezza oggettiva del “noi” dipende dalla disponibilità morale e tecnologica di una cultura nel legittimare e consentire una qualche interazione tra i membri del noi. Prima della tecnologia della mobilità e della comunicazione (strade in asfalto, rete ferroviaria e mass media nazionali) il noi degli stati era alquanto frammentato, per non dire inesistente; e prima che si inventassero il multiculturalismo i Noi canadese e australiano erano piuttosto esclusivi, riservati ad alcuni sottogruppi. Il comunismo, per esempio, come afflato “…di tutto il mondo” non poteva nascere prima della fabbrica, ma anche prima dell’invenzione della stampa a caratteri mobili e dei fogli di giornale che aprivano un potenziale spazio di condivisione morale e cronologica del presente in punti diversi dello spazio planetario.
Qualche che sia la dimensione del noi (dal Sinn Fein, “noi da soli” degli irlandesi etnici opposti ai Brits, alla comunità dei cristiani o alla umma musulmana) il modo in cui ho imparato a distinguere pseudo-oggettivamente il confine tracciato soggettivamente è di ordine largamente economico (non monetario, economico cioè guardando a come si producono, circolano e vengono consumati beni, servizi e valori). Nel Noi prevalgono gli scambi basati sulla cooperazione e sulla reciprocità generalizzata (“doni”) mentre quando ci relazioniamo con Loro prevalgono gli scambi basati sulla competizione e sulla reciprocità negativa (“furti”).
L’ideologia del Mercato autoregolato (per cui vedi Polanyi, La grande trasformazione) pretende di istituire un sistema oggettivo di scambi che metta da parte i doni e i furti e che riconduca tutto a merci. Quando è vincente, questa ideologia diventa società di mercato (quella in cui viviamo). La conseguenza generale di una società di mercato è che combatte il Noi in qualunque forma (letta sempre, appunto, come familismo, clientelismo, corruzione e distorsione del mercato) e riduce il tutto, metodologicamente, analiticamente e pragmaticamente, all’individuo, che deve entrare nel mercato con le sue dotazioni (capitale culturale ed economico) e competere individualmente per l’allocazione delle risorse (quelle che vende nel mercato del lavoro e quelle che compra nei supermercati di ogni sorta, ASL comprese).
L’ideologia del Mercato non è totalmente vincente, ci mancherebbe; ci sono un sacco di spazi per affetti, relazioni interpersonali, amicizie, passioni, corsi di yoga gratuiti e club della Roma, quindi non ho una visione disfattista sull’impatto del mercato nella cultura in generale (anche se sono molto preoccupato per i costanti tentativi del mercato di espandere la sua unica legge della domanda e dell’offerta in settori che non lo riguardavano affatto fino a pochi decenni fa, come la salute, l’istruzione, l’abitazione).
Ma sono abbastanza certo, dati alla mano, che questa riduzione del Noi all’individuo sia particolarmente evidente in quello spazio che chiamiamo “politica”. Un ragazzino di 15 anni mi ha detto due settimane fa che lui vuole entrare in politica, e con questo intendeva che appena possibile vuole “fondare il suo partito”. Ecco, in questo ritratto c’è quel che intendo per la crisi della politica attuale. Le grandi unità di riferimento (classi e gruppi produttivi) come quadro di analisi sono state sostituite dalla logica del consumo, che induce all’individuazione identitaria. Di fatto, hanno successo solo i partiti che occultano questo processo vendendo invece un Noi fittizio che non mette in discussione la pulsione individuante dei soggetti. Il “prima gli Italiani” e “noi siamo il popolo” dei partiti che hanno vinto le ultime politiche si basano su una finzione radicale: figuriamoci se i calabresi credono a Salvini che dà loro degli Italiani; e figuriamoci se l’elettore medio del M5S, che notoriamente non ha mai fatto parte di associazioni, gruppi sul territorio, partiti e altri corpi intermedi ma si è sempre vantato del suo isolamento individuante, si sente “popolo” come potevano sentirsi “popolo” gli operai di una fabbrica o i braccianti del sindacato contadino. Non se ne parla, ovviamente. Votano anzi queste signore e questi signori per Salvini e Di Maio perché comprano da loro l’illusione di una comunità inesistente, moralmente rassicurante ed eticamente a impegno zero.
Ci sono, secondo la visione che propongo io, tre tipi di comunità possibili, cioè di noi emotivamente solidi: ci sono le comunità “naturali”, quelle “immaginate” e quelle “intenzionali”. Le prime non sono ovviamente naturali, mi riferisco al fatto che sono sentite come tali, o erano sentite tali fin quando sono esistite: la famiglia, il gruppo degli amici del bar o della scuola, in alcuni contesti provinciali (o periferici, penso al comitato di Casale Rocchi a Pietralata) anche il vicinato può essere concepito come una comunità naturale in questo senso.
Le comunità naturali, ci ha insegnato Benedict Anderson, possono costituire la base ideologica per fondare comunità immaginate, vale a dire le nazioni ottocentesche, il movimento operaio, il socialismo e il femminismo come pratiche politiche e tutti i cosiddetti “partiti di massa”, che istituiscono un cameratismo orizzontale e un senso di “destino” anche tra soggetti che non avranno mai la possibilità di conoscersi o interagire secondo i canoni comunitari della reciprocità generalizzata e della collaborazione.
Ci sono poi le comunità intenzionali, che sono invece di ridotte dimensioni come le naturali ma istituite da un atto volitivo e programmatico, come le immaginate: monasteri, comuni, ecovillaggi, kkibbutzim e altri modelli basati sulla condivisione di un sistema di valori (siamo tutti pacifisti, siamo tutti fedeli della Madonna del Carmine, siamo tutti convinti che questo pezzo di terra ci sia stato assegnato per destino) che diventa anche un sistema di pratiche orientato a uno scopo collettivo.
Ecco, per provare infine a rispondere alla tua domanda, Marco, io credo che oggi la lotta politica si configuri tra la vecchia guardia, con la sua ideologia ancora vincente di fingere una comunità immaginata e innocua, che non intacca l’individualismo imperante ma rassicura che, da qualche parte, anche noi apparteniamo a un qualche genericissimo Noi uniforme e compatto; e un nuovo modo di proporre la politica come comunità intenzionale immaginata. Quando io ho messo il verbo al plurale pensavo (inconsapevolmente, e ti ringrazio che la tua sollecitazione mi ha spinto a questo chiarimento prima di tutto con me stesso) a questo modo di stare assieme, a questo tipo di Noi.
Io penso che gli individui che credono che valga la pena di fare qualcosa per il bene comune siano ancora molti, e mi considero uno di loro (cioè uno di questo Noi). Non credo si sia maggioranza, ma non penso neppure si tratti di piccoli numeri, e poi, nella logica dentro cui mi muovo, la dimensione oggettiva quantificata nelle tessere di partito e nelle urne elettorali ci interessa poco. Pensiamo che il mondo sia in pericolo per la situazione ambientale, per il sistema di sfruttamento dei pochi sui molti, per l’ampliarsi delle ingiustizie e per il crescere diffuso del risentimento come impulso all’azione. Abbiamo figli che crescono, o comunque ci piace pensare che “l’allocazione intergenerazionale delle risorse” sia una preoccupazione prioritaria delle nostre vite. Sappiamo altresì che andare oltre questo vaghissimo orizzonte (credo che Raymond Williams la chiami “comunità di sentimento”) puntando a qualche vetusta o neo-fasulla comunità immaginata è azione inane e ce ne asteniamo volentieri. Non cediamo però neppure alla depressione individualista del Mercato, non accettiamo la sconfitta con il cipiglio di chi prende il mondo a dispetto, e ancora ci illudiamo (ebbene sì, siamo anche consapevoli che qualunque idea di comunità implica un’illusione, o una fede nell’altro) che ci si possa muovere assieme verso qualche meta semplice e praticabile: lo ius culturae, se non si può avere lo ius soli; un reddito di inclusione che guardi a tutti i dispossessed, non solo a quelli che possono pensare di cercarsi un lavoro; un ripensamento radicale della casa come diritto e non come merce; una fuoriuscita dell’educazione e della salute dagli spazi del mercato; un ripensamento cosciente dei rapporti di genere; il rifiuto della prevaricazione violenta dell’altro, anche quando è un avversario; la consapevolezza, soprattutto, che in corso d’opera gli obiettivi possono aggiungersi e mutare, dentro quell’orizzonte morale della comunità intenzionale immaginata, che è intenzionale perché pone alla sua base un impegno razionale, ed è immaginata perché sa di dover fare i conti, in primis, con la sua diversificazione interna contestando radicalmente i progetti omogeneizzanti del vecchio conio identitario.
Lo so, questo è un progetto che non trasforma alla radice il sistema, che non prospetta alcuna rivoluzione plateale. Ma questo, credo, è l’ultimo tratto in comune dei Noi di cui ti ho parlato: non crediamo alla Rivoluzione, abbiamo veramente smesso di crederci, e puntiamo sulla più faticosa via dell’Evoluzione.
Un abbraccio, sapendo che questo Noi di cui ho parlato nella mia immaginazione ti include,
p

lunedì 28 ottobre 2019

A serious invitation for a serious party

A friend used to tell me the other night: Have a laugh every now and then, Piero. Quite right. Sometimes I tend to get dark, even though I think I have the ability to look at the comic side, or at least the grotesque side, of many aspects of life. The discipline that I practice should actually help to take on that look that leads to a smile, but I don't always succeed.
This time, however, I would like to insist on lightness, rather than comedy, with that look that Italo Calvino taught us in his memorable American Lesson. There is a question that is never mentioned, constantly denied even though it is one of the very few things that all humans have in common, and this question is DEATH.
The Feast of All Saints and the Catholic celebration on 2 November are the only public glimmer of our relationship with the dead in Italy. Halloween no, it is no longer, as we know. But there were always feasts of the dead in Italy, even semi-pagan occasions, in which the dead appeared and the children learned fear. From my parts, we ate "dead bones", dry biscuits, and "the beans of the dead", macaroon species. Shortly thereafter St. Martin arrived, which was in fact a very similar thing to Halloween given that the kids went around making noise by banging drums made with cans of detergent and singing a Venetian nursery rhyme about San Martino and getting some sweets from the ladies of the neighborhood.
The last thing I care about is "tradition". I am often bored by tradition, I am definitely in favor of innovation if the tradition is meaningless or pretends to be older than it is and maybe it was introduced by the Municipality for turists. But the relationship with the dead, no, is not a tradition, it is a human necessity: together with the fire to cook and to the taboo of incest, it is one of the milestones of the appearance of humans as cultural animals.
We no longer know what to do with our dead, because they speak a lost language, that we no longer want to listen (even if Tiziano Scarpa told us that we speak thanks to the words we inherit from the dead), we are too busy pretending we live to have still the courage to talk to the dead. This reduction of dead to empty sacks, this total inability to relate to them is the lowest point of the moral crisis of our world.
And anthropology cannot make it all up in the analysis; if it does not become a practice, at least in my opinion, it is not good anthropology.
So, October 31st arrives, the world pretends to be cheerfully frightened, our children, obviously,  go trick-or-treating in the block but we still have a sense of emptiness, an incompleteness of the kind you wrote a letter but you left in the drawer, never sent.
Then, making myself strong in my discipline, with a group of students we staged a "ritual" evening of communication with the dead, at the former barn (ex Fienile) of Torbellamonaca, in Largo Mengaroni 29. From 6:30 pm you can come and hear stories and tell stories. At the entrance, guests receive a sticky note on which to write the details of the person they intend to remember that evening. Much of the evening will be dedicated to listening to the voices of the dead that everyone wants to bring: a poem, a passage from a book, an improvisation, a personal memory, an important song. There will be a corner where we will also collect the recipes "of the good old days", what was done in the village of grandmother for the dead. And we will all eat together. TorVergata  offers a small catering service for free but it will also be nice to share some rustic cake, some sandwiches, a pasta salad or anything else you want to bring from home, to eat or drink.
In a special corner it will be possible to do, through an app developed by the kids of LaPE (the Laboratory of Ethnographic Practice without which all this could never even have been conceived), to take a photo turned sepia to be posted on a virtual plaque with your words carved on marble.
When we have eaten and drunk well, after telling each other the many stories of our dead, we will conclude the evening with a small collective ritual. Everyone can write a message on a piece of paper to a loved one, and burn it on the fire that we have lit in the garden, trying, therefore, to talk to the dead after so many years of silence.
Like all rituals, the community is needed to make them true. Come and be a community, we look forward to welcoming you.

Un invito serio per una festa sul serio



   Un amico mi diceva l’altra sera: E fattela una risata ogni tanto, Piero. 
Giusto. Ogni tanto tendo a incupirmi, anche se credo di avere le capacità di guardare al lato comico, o almeno a quello grottesco, di molti aspetti della vita. La disciplina che pratico in effetti dovrebbe aiutare ad assumere quello sguardo straniante che porta al sorriso, ma non sempre mi riesce. 
Questa volta, però, vorrei insistere sulla leggerezza, più che sulla comicità, con quello sguardo che Calvino ci ha insegnato nella sua memorabile Lezione americana. C’è una questione di cui non si parla mai, negata costantemente pur se è una delle pochissime cose che accomuna tutti gli umani, e questa questione è la MORTE. La festa di Ognissanti e la ricorrenza cattolica del 2 novembre sono l’unico barlume pubblico del nostro rapporto coi morti. Halloween no, non lo è più, come sappiamo. Ma feste dei morti ce ne sono state sempre nel nostro paese, occasioni anche semi-pagane, in cui i morti si affacciavano e i bambini imparavano la paura. Dalle parti mie allora mangiavamo “gli ossi da morto”, dei biscotti secchi, e “le fave dei morti”, delle specie di amaretti. Poco dopo arrivava san Martino, che era in effetti una cosa molto simile a Halloween dato che i ragazzini andavano in giro a fare casino sbattendo tamburi fatti coi fustini di detersivo e cantando una filastrocca in veneziano su San Martino (San Martin xe andà in sofita...) e facendosi dare qualche dolcetto dalle signore delle case lì attorno. 
L’ultima cosa a cui tengo è la “tradizione”. Mi annoia spesso la tradizione, sono decisamente a favore dell’innovazione se la tradizione è senza senso o finge di essere più vecchia di quel che è e magari è stata introdotta dalla Proloco del Comune. Ma il rapporto con i morti, no, non è una tradizione, è una necessità umana: assieme al fuoco per cucinare e al tabù dell’incesto una delle pietre miliari della comparsa dell’uomo come animale culturale. 
Non sappiamo più che farci, con i nostri morti, perché parlano un linguaggio perduto, che non vogliamo più ascoltare (anche se Tiziano Scarpa ci ha raccontato che noi parliamo grazie alle parole che ereditiamo dai morti), siamo troppo presi a fingerci vivi per avere ancora il coraggio di parlare coi morti. Questa riduzione dei morti a sacchi vuoti, questa nostra totale incapacità di relazionarci con loro è il punto più basso della crisi morale del nostro mondo. 
E l’antropologia non ce la fa a stare tutta dentro l’analisi; se non diventa prassi, almeno secondo me, non è buona antropologia. 
Quindi, arriva il 31 ottobre, il mondo finge di essere allegramente spaventato, i nostri bambini – giustamente eh – vanno fare dolcetto o scherzetto nel condominio ma a noi resta un senso di vuoto, un’incompiutezza del tipo che hai scritto una lettera ma l’hai lasciata nel cassetto, mai spedita. 
Allorafacendomi forte della mia disciplina, con un gruppo di studenti abbiamo messo in scena una serata “rituale” di comunicazione coi morti, al polo ex Fienile di Torbellamonaca, in largo Mengaroni 29. Dalle 18.30 si possono venire ad ascoltare storie e raccontare storie.  All’ingresso gli ospiti ricevono un foglietto adesivo su cui scrivere i dati della persona che intendono ricordare quella sera. Buona parte della serata sarà dedicata ad ascoltare le voci dei morti che ciascuno vorrà portare: una poesia, un brano di un libro, un’improvvisazione, un ricordo personale, una canzone importante. Ci sarà un angolo dove raccoglieremo anche le ricette “dei bei tempi antichi”, quel che si faceva al paese di nonna per i morti. E si mangerà tutti assieme. Tor Vergata mette a disposizione gratuita un piccolo catering ma sarà bello anche condividere qualche torta rustica, qualche tramezzino, un’insalata di pasta o qualunque altra cosa si voglia portare da casa, da mangiare o bere. 

In un angolo apposito sarà possibile farsi, tramite una app messa a punto dai ragazzi del LaPE  (il Laboratorio di Pratiche Etnografiche senza il quale tutto questo non avrebbe mai potuto neppure essere concepito) dicevo farsi una foto virata seppia da affiggere su una lapide virtuale con tanto di scritta scolpita sul marmo. 
Quando avremo mangiato e ben bevuto, dopo esserci raccontati gli uni gli altri le tante storie dei nostri morti, concluderemo la serata con un piccolo rituale collettivo. Ognuno potrà scrivere un messaggio su un foglietto a una persona cara, e lo brucerà sul fuoco che avremo acceso in comune, provando, quindi, a parlare coi morti dopo tanti anni di silenzio. 
Come tutti i rituali, c’è bisogno della comunità per renderli veri. Venite a fare comunità, vi aspettiamo molto volentieri.