Come si dice, non posso più esimermi.
Ho vissuto in Grecia più di due anni. Era molti anni fa, ma
ho imparato il greco moderno, ho fatto tanto “lavoro di campo”, ho conosciuto
tanti greci, e a questo punto mi devo prendere l’impegno di dire anche
pubblicamente la mia sulla crisi greca. Per onestà intellettuale e per
applicare quel principio di “restituzione” secondo cui, gli antropologi, quando
imparano qualcosa sul campo non la tengono solo per sé e per la cricca dei
colleghi, ma provano a condividerla anche con coloro da cui hanno appreso, con
i loro “informatori”, insomma.
Posso dire che trovo raccapricciante come il nostro paese, l’Italia,
sta in generale raccontando tutta la storia. A parte le pochissime lodevoli
eccezioni, che tutto sommato uno si aspetta, leggere sciocchezze tipo “il referendum
è tra euro e dracma” mi fa proprio cascare le braccia. Vuol dire non aver
capito nulla delle motivazioni economiche, politiche e culturali che hanno
spinto Tsipras a indire il referendum. Un Presidente del Consiglio italiano che
dice una simile bestialità mentre è segretario del principale partito di
sinistra (si può ancora dire, sì?) dimostra una ignoranza tale della sua
storia, della storia del suo partito, del suo paese, della Grecia e dell’economia
che susciterebbe ilarità se la faccenda non fosse a tal punto drammatica.
1. Prima di tutto, Tsipras ha indetto il referendum perché
così aveva dichiarato nel programma con il quale è stato eletto (sì, in altri
paesi per governare bisogna aver vinto le elezioni; siamo un unicum, in questo
senso, con gli ultimi tre presidenti del consiglio nominati senza alcun mandato
elettorale). Aveva dichiarato che qualunque scelta di tipo economico che
implicasse una permanenza delle condizioni di austerità sarebbe dovuta passare
per una consultazione popolare. Noi vogliamo governare per chiudere la fase dei
tagli, c’era scritto nel programma, e qualunque variazione rispetto a questo
obiettivo dovrà essere condivisa. Ora, capisco che parlare di “programmi elettorali”
possa suonare ridicolo, di questi tempi, ma di nuovo, siamo noi quelli strani,
quelli che vincono il premio di maggioranza con un programma e con una
coalizione, e poi montano governi opposti, per programma e coalizione. Prima di
definire “errore” quel che è solo il rispetto della parola data, qualcuno
dovrebbe leggersi qualcosa (anche semplice, non è che pretendiamo troppo, ci
rendiamo conto dei limiti dell’uomo) sulla corrispondenza tra quel che si dice
e quel che si fa (tipo, E. Lecaldano, Prima
lezione di filosofia morale, Einaudi, 2010).
2. Se politicamente Tsipras non aveva scelta, molto più
radicale è la motivazione economico-filosofica che lo ha spinto. L’alternativa
referendaria è tra un’Europa fondata su un sistema di valori sociali, e un’Europa
basata sugli obiettivi della finanza. Questo è il vero dilemma, un tempo si
sarebbe detta la contraddizione, che il referendum vuole far esplodere. La
Grecia, scusate, è la madrepatria di qualunque europeo, non si può non partire
da questo. Senza la Grecia e la sua storia, semplicemente, non staremmo a
parlare di Europa, non esisterebbe neanche lontanamente l’UE, forse ci sarebbe
un blocco nordico germano-scandinavo, un blocco slavo, un blocco latino. Gli
stati europei come li conosciamo semplicemente non esisterebbero, e qualunque
fosse la forma geografica delle entità politiche, non avrebbe la conformazione
attuale. La Grecia di Syriza (una Grecia europea di sinistra, si può ancora
dire, sì?) sta chiedendo a tutti noi che cos’è l’Europa e cosa dentro questo
contenitore politico intendiamo per democrazia. La moneta non c’entra nulla.
Gustavo Piga ha raccontato in una bella intervista un caso storico
interessante:
Forse è utile
ricordare che anche gli Usa hanno vissuto svariati casi simili a quello greco,
ad esempio quello del Tennessee nel 1870. Allora il presidente degli Usa si
rifiutò di intervenire e disse allo Stato di risolvere da sé la questione con i
suoi creditori (i mercati di New York). Il Tennessee scelse democraticamente il
default, ma nessuno mai si sognò di chiedere la sua uscita dagli Stati Uniti,
perché era ben chiaro a tutti quale fosse il progetto di lungo periodo e
l’importanza che alcuni segnali, come la perdita di un pezzo di Unione,
potevano avere sulla coesione dei restanti pezzi.
Il referendum sta cercando di riportare gli europei dentro
la loro storia di umanità. I greci non vogliono uscire dall’euro, e di certo
non possono uscire dall’Europa (nessuno può uscire intenzionalmente da quel che
è), ma ci stanno chiedendo se questa Europa è fondata su qualcosa di diverso
dai pareggi di bilancio, dai rapporti deficit/Pil e da altre misurazioni
crematistiche. Quando la UE ha deciso di salvare le banche (private) creditrici
di una Grecia insolvente, lo ha fatto trasformando quel debito privato in
debito pubblico, stravolgendo il suo mandato. Dice ancora Piga:
nel 2010 c’è stato il
clamoroso errore di non costringere la Grecia a risolvere faccia a faccia,
all’interno, il problema con i suoi creditori privati. E nel 2012 si è
preferito invece estendere la questione scaricandola sul pubblico, ma imponendo
ad Atene condizioni che mai avrebbe potuto sostenere.
Il referendum, insomma, ci chiede una cosa ben diversa da
quel che dicono i nostri insipienti esperti. Ci chiede infatti: l’economia è un
sistema autonomo che viaggia per conto suo (allora rispondete sì) oppure deve
sempre essere vista come una forma della politica, un sistema organizzato che
punta al benessere e alla crescita materiale, ma anche sociale dei cittadini (e
allora rispondete no)?
3. Il punto a me più caro però, è quello culturale. Prima di
stracciarsi le vesti perché Tsipras ha chiesto di votare no, uno dovrebbe magari
sapere due cose di storia, tanto più quando ci riguardano come italiani. Il 28
ottobre del 1940 l’Italietta di Mussolini lanciò alla Grecia un terribile
ultimatum di resa, convinta di potersi fare una passeggiata balcanica partendo
dalle recenti conquiste albanesi. Quel giorno il primo ministro greco (che poi
era un dittatore fascista, Iannis Metaxàs) rispose con un NO! (si pronuncia
così, in maiuscolo e con il punto esclamativo, “Ohi!”) che fece di quel giorno
e di quella memoria la più importante celebrazione laica nella Grecia moderna.
Non importa poi il dettaglio storico (probabilmente il “no” non fu mai
pronunciato da Metaxàs di fronte all’ambasciatore italiano) ma il suo valore
culturale: sta a indicare il fatto che i greci non si sottomettono di fronte a
quel che sentono come un vero sopruso. E ogni anno, il 28 ottobre, se lo dicono
a gran voce: noi siamo quelli che di fronte a un vero sopruso sappiamo dire di
no, costi quel che costi. Forse varrebbe la pena di considerare anche questa
dimensione culturale prima di inventarsi homines oeconomici greci che stanno
facendosi i conti della loro massimizzazione. Non lo fecero nel 1940, non è
detto che lo faranno domenica prossima.
Tanto più che va tenuta presente un’altra
specifica qualità del “carattere nazionale” greco, e cioè la specifica
concezione della storia. Lo racconta molto bene un giovane antropologo inglese,
Daniel Knight, che in un recente libro (History, Time, and Economic Crisis in
Central Greece, Palgrave Macmillan, 2015) dedicato proprio al modo in cui è
vissuta “la crisi” nella vita quotidiana della provincia greca, spiega una cosa
semplice, ma per noi un po’ difficile da cogliere. La Storia, per come si è
formata l’identità nazionale greca, non è solo una successione di eventi, e
neppure la sedimentazione stratigrafica di modi di pensiero e forme di vita.
Per capire i greci, dobbiamo piuttosto pensare al Passato come fiume che scorre
davanti a noi, e alla Storia come una diga, un filtro che immergiamo in quel flusso:
alcune cose passeranno via, ma altre rimarranno intrappolate nel retino, non se
ne andranno mai più. Questo, veramente, lo sa chiunque abbia lavorato in Grecia
nell’ambito delle scienze sociali: per i greci alcuni eventi sono ancora parte del presente anche se sono
accaduti decenni e a volte secoli fa. Quando i greci pensano a come votare
domenica prossima, hanno ancora nelle orecchie il rimbombo poderoso del “grande
no” pronunciato 75 anni fa. Forse faremmo bene a tenerne conto in attesa dei
risultati.