Giovedì 13 aprile è giovedì Santo, vale a dire il momento in cui Gesù, secondo la tradizione, cenò per l'ultima volta prima di ritirarsi nell'Orto di Getsemani a pregare, prima di essere arrestato.
Mi ha sempre fatto impressione la spaccatura tra i due momenti. Forse ancora di più da quando, ancora ragazzo, persi la fede e cominciai a vedere la scena non come il sintomo di qualche segno più grande, ma un piccolo evento di tradimento, una bagatella tra amici o presunti tali.
Prima Gesù cena con gli apostoli, lava anzi loro i piedi, spezza il pane, offre il vino e li avvisa che stanno succedendo cose grosse, che tira una brutta aria, che quel pane e quel vino grondano sangue e che perfino Pietro, uno dei più fedeli, tra poco tradirà il maestro.
Poi sale a pregare, ma è tardi, il vino un poco ha dato alla testa, nessuno ha veramente voglia di fare compagnia a quest'uomo tormentato dai dubbi, che non capisce più quale sia il progetto, cosa gli tocca fare adesso. Perché gli tocca farlo, poi.
I suoi amici, gli eletti, i più vicini, se ne sbattono alla grande, si stravaccano sotto gli alberi e iniziano a ronfare, non hanno tempo ulteriore da dedicare quel maestro tanto bravo sì, ma ogni tanto che pesante con quel suo incupirsi, quel suo accennare cose che capisce solo lui.
Il seguito lo conoscono tutti, non spoilero la storia, credo. Giuda Iscariota in tutto questo non è neppure il peggiore. Peggio le seconde linee, quelli che si addormentano senza che ce ne resti traccia nella memoria, perché sono proprio il sintomo del nostro profondo malessere umano, il nostro chissenefrega quotidiano, il darci di gomito mentre giriamo le spalle.
Ecco, giovedì 13, all'ex Fienile di Torbellmonaca (largo Ferruccio Mengaroni, a Roma, dalle 18.30) proviamo a guardare in faccia un posto che è come l'orto del Getsemani quella sera, un posto a cui non frega un cavolo di niente a troppi, a tutti.
Rebibbia è un posto di merda, non c'è, credo, altro modo di definire la prigione (parlo della Casa Circondariale Rebibbia n.c., non del quartiere, mi perdoni Zerocalcare).
Eppure a Rebibbia la vita brulica nonostante. Nonostante il nostro pretendere che vi sia un confine tra dentro e fuori che "ci" separa perfettamente. Nonostante l'assurda convinzione che quelli dentro siano diversi da noi al punto da essere nati lì dentro, al punto che non pensiamo ad altro, quando pensiamo al carcere, che "chiudete la porta e buttate la chiave".
Chi Come Noi è una neonata associazione che invece attraversa le porte del carcere, tiene assieme chi è dentro e chi è fuori in un progetto artistico vitale e geniale. Carlo Bnà e Mauro Armuzzi non sono due detenuti che vogliono fare gli artisti, ma due performers culturali che in questo momento stanno in carcere. E che non si fanno rinchiudere l'anima nel carcere e continuano a essere liberi come non ci si può credere. Hanno conosciuto Maurizio 4fragole Bellinzas, un tatuatore famoso a Roma, e artista completo, che li ha seguiti nelle loro follie creative. Poi passava di lì anche un professore universitario, che si è tirato su la mascella della sorpresa dell'incontro, un paio d'anni fa, e ha cominciato a guardarli e parlarci, e capire che di roba da fare da dire e incrociare ce n'era a millanta. E visto che quel professore fa l'antropologo, ho provato a mettere in qualche casella umana ordinata quel che usciva dalle mani dalle penne dalle tastiere di Carlo e Mauro e si è reso conto che dentro la sua indisciplinata disciplina c'era qualche concetto che si poteva usare per provare a descrivere il lavoro di Carlo e Mauro.
Ne parliamo al Fienile, giovedì 13, facendo vedere le foto dello spettacolo di settembre, alcuni spezzoni della registrazione audio, i disegni di 4fragole, le parole magiche dell'antropologia (rituale, performance, iniziazione, liminarietà).
Il progetto è anche un'associazione, ha prodotto un libro intanto che è lo script dello spettacolo. Avremo le tessere da fare per CHI vuole diventare COME NOI.