Stavo a Torbellamonaca,
questo pomeriggio tardi, dopo lezione. Dovevo andarci per forza, domani 6
ottobre inizia il nostro secondo anno di “Mondi
di mamme”, un’iniziativa che abbiamo attivato al Polo ex Fienile e che prevede in buona sostanza
che un gruppo variegato di mamme (e
qualche papà) si riunisce per raccontarsi senza alcuna gerarchia le difficoltà
e il senso di essere genitore, di questi tempi, in questi spazi. Con Daniela Iuppa, Agnese Vannozzi e Maria Ludovica
Ventura, e con il contributo insostituibile di Dzemila, che ha retto le fila e coinvolto sul serio le prime mamme,
abbiamo iniziato titubanti un’avventura che si è rivelata fruttuosa anche se
piccola. Ho portato un po’ di volantini,
allora, e mi sono messo proprio qui,
all’angolo tra via Quaglia e via Acquaroni, a un passo da Fienile, davanti all’ingresso
del supermercato Pewex, per darli
alle mamme potenziali utenti del nostro progetto, che vorremmo allargare.
Sono arrivato alle 18:30, un orario poco adatto, ma quello
era lo spazio che mi ero potuto ritagliare. Ero solo a volantinare, e un po’
titubante che il mio look vagamente professorale potesse essere poco accattivante per il tipo di target cui
mi rivolgevo per far conoscere il progetto.
Sai, Torbellamonaca a me fa un po’ l’effetto-Napoli, ci stanno supermercati che non ho mai sentito
nominare prima; c’è quello che d’estate ha il camioncino dove vende la spremuta di limone, ci sono un sacco di
bancarelle rette non solo dai soliti
bangladesi, ma anche da signori del
posto, che biascicano un dialetto denso come pasta e fagioli.
Davanti al Pewex stanzia un’umanità varia, che la mia
matrice piccolo-borghese riconosce e cataloga immediatamente nel corpo sottoproletario della città.
Grande sfoggio bisex di tatuaggi,
dentature spesso improbabili anche in adulti sani, giovani mamme coatte che
rimirano con venerazione la cover per
il cellu sulla bancarella, con tanti di quegli strass che peserà due etti. Lo dico con tutto l’affetto di cui dispongo,
sono lontano un miliardo di
chilometri da questa umanità, la riconosco, simpatizzo pure, ma la sento
profondamente aliena, dai miei gusti, dai miei valori. Non c’è nulla di strano
in questo, credo, solo un coerente istinto di classe, che gestisco credo con dignità senza cadere nel disprezzo o nel paternalismo. In questo, immagino che la mia formazione da antropologo mi sia stata importante, mi
sono trovato spesso nella mia vita a cercare di capire persone veramente diverse da me, fin dalla
lingua madre, per cui un pochino di motto terenziano (Homo sum: humani nihil a me alienum puto) me lo sono imparato pure
io che vengo dalla provincia.
Vabbe’, il clima morale della scena è quello appena
descritto: il sole sta tramontando
in una memorabile sera da ottobrata romana, la periferia delle mamme lentamente si accasa, io rimugino sulla stanchezza che sto accumulando in
questi giorni mentre punto coi volantini in mano le mie potenziali “clienti”.
Saluto addirittura un mio dottorando,
che da La Spezia ha scelto di vivere a Torbellamonaca e che si muove
onestamente come un piccolo alieno su un pianeta non suo, per quanto amato.
Sono allo stremo, sono le 19.10, e sto per chiudere
mentalmente bottega, quando arrivano due
giovani donne verso l’ingresso del supermercato, una prosegue oltre, forse salutando l’amica, e allunga verso il
viale di Torbellamonaca, costringendo la
prima a seguirla con lo sguardo nel momento del commiato. Questa ha una
camicetta di cui non ricordo il colore, e un paio di pantaloni troppo a zampa di elefante e forse troppo aragostati per
poter essere definiti eleganti. Ma si vede che ha un suo stile. Mentre l’amica si allontana verso il tramonto aranciato, lei
si ferma un attimo sulla soglia del
supermercato, e io la colgo lì, di profilo,
mentre sottovoce dice “Guarda il cielo” e un sorriso grazioso le si apre sul viso. Ha un naso pronunciato ma molto piacevole, con l’attaccatura del setto piuttosto alta senza essere sgraziata,
affatto. Il collo proteso verso l’orizzonte
del tramonto, il resto del corpo già oltrepassa la squallida soglia della porta
automatica mentre mi brucia nell’immaginazione
(intesa proprio come facoltà immaginativa) il pensiero di una bellezza che non resiste a sé stessa,
che si corteggia. Non è il banale tramonto
ad essere bello, spaccato dalle torri dell’edilizia popolare del quartiere; non
è neppure la ragazza in quanto tale,
che forse è solo più aggraziata della media del sottoproletariato autoctono e
di recente importazione. Mi commuove, invece, la sua capacità di godere senza alcun retroscena della bellezza come momento estetico, pura percezione come fonte di piacere. Si sente
che quando dice “Guarda il cielo” non lo sta già dicendo all’amica, ormai
troppo lontana per cogliere il suo sussurro. Si capisce che non sta mettendo in
scena nulla per nessuno, io rubo una scena tutta privata: lei, con la sua faticosa eleganza, che sulla porta di un
discount di una periferia che non si può non definire squallida riesce comunque
ad avere un guizzo di godimento; si
vede che quel che vede le piace e basta,
non ha bisogno di essere elaborato, comunicato o altrimenti socializzato.
Non ce la facciamo, come esseri umani, ad accontentarci di quel che abbiamo, e se
succede lo facciamo a discapito della nostra umanità. La bellezza è un frutto sempre inseguito, anche lì dove uno si
aspetterebbe l’ingordigia della ragione pratica, della necessità, dell’utile almeno. Quella ragazza, sulla porta sgangherata
e piena di pecette di avvisi come tentativi abortiti di comunicazione, mi ha
dato il senso del mio essere lì, quel momento, e per tutti i momenti a venire.