Buon anno a tutte e tutti. C’è una bellissima poesia di
Billy Collins, che si intitola Shoveling
Snow with Buddha. L’ho tradotta come Spalare
la neve assieme a Buddha, e racconta il piacere del lavoro di cura. Un concetto molto simile è presente nel (mi pare,
non lo trovo nella mia biblioteca a casa, dev’essere all’Università) primo
testo di La vita,
non il mondo, di Tiziano Scarpa,
dove l’autore, come Billy Collins,
riflette sulla contrapposizione tra Prendersi
Cura e Operare. Ci penso sopra
da anni, a come abbiamo completamente separato l’ordine morale del Creare (maschile, attivo, gratificante,
individuante) e del Curare
(femminile, ritualizzato, frustrante, anonimo) e mi sforzo di trovare dei modi
creativi (ma forse il problema è tutto qui) per superare questa dicotomia,
inconsistente alla resa dei conti.
Avere dei figli è un Atto
Creativo per nove mesi, la gravidanza (alcuni dicono che per l’uomo l’atto
creativo si limiti al tempo della copula), seguito da una vita intera di Cura. Insegnare all’università è un Atto Creativo ogni tanto (quando
pubblichiamo qualcosa di decente, frutto della nostra Ricerca), che punteggia un continuo di Cura verso le studentesse e gli studenti, frutto del nostro Insegnamento.
Insomma, inutile farla lunga, stavo con le mani nel lavandino, intento a pulire piatti e
bicchieri, e ascoltavo il benemerito Nicola
La Gioia che a Radio3 parlava
di Ishiguro,
di Non Lasciarmi in particolare, e mi
è partita una sfilza di connessioni con un progetto
che sto cercando di mettere in piedi per un finanziamento. Non lasciarmi, sintetizza La Gioia mentre io appoggio i bicchieri su un panno per farli sgocciolare, “è la
storia di tre studenti di Halisham. Halisham sarebbe un collegio immerso nella
campagna inglese e completamente isolato
dal mondo esterno. L’educazione di questi ragazzi è affidata a dei tutori che a loro impartiscono lezioni di arte, di storia, di
letteratura, li educano al bello e li incoraggiano alla creatività. Però, e qui
appunto arriva la distopia, i tre
ragazzi a un certo punto scopriranno che sono dei cloni umani creati in laboratorio per donare i loro organi agli
umani malati”. Mentre prendo un panno
pulito e comincio ad asciugare
delicatamente i calici che ieri abbiamo usato per il brindisi, penso che la situazione raccontata da
Ishiguro suona come una metafora del
mio lavoro in carcere. Anche io
insegno a “ragazzi” che vivono in un posto “completamente isolato dal mondo
esterno”. Anche io cerco di educarli “al bello” e faccio di tutto per
incoraggiare la loro creatività. Anche io nego
l’evidenza, che questa educazione è finalizzata a un progetto di cui mi
sfugge il senso e che forse non è
per “il bene loro”, ma più per il mio di cittadino malato di carenza sociale
e sempre alla ricerca di compensazioni spicciole.
Mentre appoggiavo
i bicchieri in alto, nella mensola dove teniamo la posateria buona, quella delle feste, pensavo che devo trovare un
modo di uscire da questa metafora,
devo fare scappare questi “ragazzi” dalla loro condizione servile, e ho attivato una serie di connessioni neuronali in cui,
ne sono convinto, il panno dei piatti
ha avuto un ruolo centrale. Creavo e
curavo, tenevo assieme le Forme del Lavoro, e alla fine ne sono
uscito con la cucina riassettata e
un progetto di ricerca che
presenterò appena uscirà un certo bando di cui sono stato avvisato (tranquilli,
non è il Prin,
anche se molto probabilmente parteciperò comunque al bando Prin con un progetto
sul carcere).
Grazie allora a
Radio3, che fa servizio pubblico sul
serio; grazie ai miei maestri e alle mie maestre, che mi hanno insegnato che non è vero che se si è creativi non ci si prende cura, e viceversa. Grazie per tutti quelli (tanti, per fortuna) da cui ho imparato che le cose si possono fare, ed è meglio se le tieni assieme mentre le fai. Grazie a
chi mi ha insegnato a diffidare della Razionalità
Analitica, e invece mi ha insegnato che le cose, per farle, tocca capirle, ma
se vuoi capirle è meglio che ficchi le mani in un lavandino pieno di piatti.