L’antropologia è una disciplina che studia i sintomi. Non è
una scienza che possa prevenire (come non lo è la sintomatologia medica) quindi
non dice che cosà accadrà in un qualunque futuro, ma può aiutare moltissimo a
capire che sta succedendo adesso e,
se necessario, prendere qualche contromisura (un’aspirina non è granché, lo
riconosco, ma a volte sapere cosa non
fare in una data situazione è altrettanto importante che sapere cosa fare).
L’attenzione ai sintomi culturali di quel che succede è una
deformazione professionale che credo di aver incorporato profondamente. La mia
psicologa dice che tendo a sovra-interpretare tutto, forse ha ragione, ma non
posso più farne a meno.
Così, quando ho deciso di prendere parte al progetto del
#Dizionario del Macro Asilo e contribuire alla #StanzaDelleParole, avevo ben
chiaro che l’organizzazione di appuntamenti mensili per prendermi cura della
parola #UMANO sarebbe stata una vera battaglia simbolica di definizione della
città di Roma. Il Macro Asilo sta infatti a via Nizza, appena dentro Porta Pia
ma comunque dentro le Mura Aureliane,
che fino al 1870 contenevano tutto quel che ragionevolmente si poteva chiamare
città (e anche un bel po’ di campagna, come sanno tutti). Tor Vergata, la mia
università, invece sta fuori dal
Raccordo, che fu completato nel trentennio 1950-1980, vale a dire il periodo
del sacco urbanistico della città. Nella gestione simbolica dello spazio romano
l’opposizione dentro/fuori è potentissima e gestisce ancora gran parte delle
relazioni spaziali (e sociali, e lavorative) che si possono (o non si possono)
attivare nell’intero ambito urbano.
Normalmente, ho il problema di portare il Dentro (la Città)
verso il Fuori (Tor Vergata) e chiunque organizzi convegni, presentazioni o
qualunque altro tipo di iniziativa a Tor Vergata sa benissimo di cosa parlo:
non ci viene nessuno, se non gli strettissimi interessati, i beneficiari
diretti (studenti cooptati, docenti coinvolti) e qualunque ospite (romano e non
romano, non c’è differenza) mette a punto il suo migliore sguardo spaesato
mentre lo vai a prendere a Anagnina o gli fai vedere le torri di Torbellamonaca
sul lato nord di via Casilina. Stiamo lavorando attivamente su questo tema (la
Scuola di Politica e in generale tutte le attività del LaPE del Fienile sono
orientate anche a spostare Fuori il Dentro) ma quello, dicevo, è un altro
problema rispetto alla relazione con il Macro Asilo, perché in questo caso il
mio compito è l’opposto, vale a dire portare Dentro (nella #StanzaDelleParole
del Macro Asilo, a via Nizza) un pezzo di cittadinanza che si concepisce e si
oggettiva totalmente Fuori (gli studenti e le studentesse di Tor Vergata).
Avendo avuto qualche esperienza pregressa, posso dire con
una certa cognizione di causa che gli studenti (maschi e femmine, scusate, uso
questa semplificazione maschilista che la grammatica ci consente) di Tor
Vergata vivono la mobilità come una sorta di incrocio tra Caos e Destino. Molti
vengono dal quadrante Est della città, molti da fuori Roma, dai Castelli e
oltre. Per loro l’avvicinamento all’Università è sempre di soppiatto, sfidando
autostrade, consolari, vie dei Laghi, treni, pullman, metro troppo lontane e
autobus spesso colmi. Già esserci arrivati è una conquista, un bel pezzo della
giornata portato a casa, visto che poi ci sarà l’ordalia del ritorno,
dell’ingorgo, della voragine, dello sciopero, della pioggia, del blocco, della
Mano di Dio (spesso nella forma di Ordinanza del Sindaco).
So di cosa parlo perché ci sono anch’io, che vengo dal
quadrante Est e me ne vado a Tor Vergata con la macchina per due motivi: primo
perché devo portare i bambini a scuola (che ovviamente, data la competizione
scolastica, vanno a scuola in un quartiere diverso da quello in cui abitiamo) e
non potrei farlo coi mezzi (ci vorrebbero 50 minuti per fare meno di 4 km, dato
che i mezzi pubblici non sono pensati a Roma per collegare i quartieri
trasversalmente, ma solo da e verso il centro); secondo perché con la macchina,
da casa o da scuola dei bimbi, ci metto circa 30 minuti (ora Google maps mi salva
dagli ingorghi, quindi il tempo di percorso si è stabilizzato tra i 25 e i 35
minuti) mentre con i mezzi ci impiego 80 minuti a tratta. Se usassi i mezzi,
dovrei svegliare i bimbi alle 6.45 per uscire di casa alle 7.30, lasciarli a
scuola alle 8.25 e arrivare in studio alle 9.45, e iniziare la mia giornata
lavorativa 4 ore dopo la sveglia. Aggiungete il rientro, i bimbi che escono da
scuola alle 16.20, e mi vedreste risalire sui mezzi alle 15, con una giornata
lavorativa effettiva (concedetemi 30 minuti per il pranzo) di quattro ore e 45
minuti.
Queste cose, fatte le debite proporzioni generazionali, sono
note ai miei studenti, che hanno incorporato (come ogni romano che debba
spostarsi per lavoro o studio, vale a dire tutti o quasi) un istintivo sospetto
per qualunque movimento, sospetto che vira verso il panico quando si tratta di
andare Dentro, in quell’Altrove per molti radicale che è la città entro le
Mura. Lo dico chiaramente, da abitante del semi-fuori: anche per me la
prospettiva di avvicinarmi al centro è ansiogena a prescindere. L’ultima volta
che ho avuto la malaugurata idea di andare con mia moglie e i bambini a vedere
la Lupa Capitolina abbiamo aspettato 50 minuti l’autobus per tornare casa, con
i bambini stanchi e affamati, e io che smadonnavo i miei Maipiù, PiuttostoMorto,
in una litania di abdicazione dalla mia idea di essere un Cittadino di Roma.
Credo che questa reazione, che ognuno di noi vive nella
solitudine imposta dalla stessa frammentazione urbana (si viaggia tutti per
conto proprio, coi propri tempi e con le proprie imprecazioni per i ritardi, le
lungaggini, le totali perdite di tempo) sia parte della disciplina acquisita,
in quel processo di naturalizzazione che chiamiamo cultura. Poco alla volta, ma
in effetti rapidamente, tanto la città è implacabile in questo, impariamo noi
romani che la città è di Qualcun Altro, che ci si sa muovere, che abita lì
vicino, che ha contezza dei posti e dei modi per arrivarci. Noi siamo sempre a
elemosinare un po’ di spazio e un po’ di tempo, sempre intrusi, ospiti
sgraditi, esploratori impacciati e spaventati dell’Altrove Perenne. Qualcuno, i
più fortunati, si inventa accasamenti fittizi, come i ragazzetti che riescono a
gravitare Dentro e hanno battezzato Sanca (la piazza di San Callisto) come luogo
d’elezione (e non a caso l’hanno fatto nella parte popolare più radicalmente
gentrificata della città, ormai assai più vissuta dai city users che non dai pochi residenti superstiti). Ma i più
gravitano attorno ai satelliti del centri commerciali, delle zone residenziali,
dei quartieri senza quartiere, della città anonima.
Non c’è alcun senso di superiorità nel dire questo, nessun
professorume schizzinoso contro la gioventù, nessun “ai miei tempi!” visto che
sono vittima quanto e forse più dei miei studenti di questo modo subalterno di
vivere la città, avendo incorporato prestissimo questa rassegnazione rabbiosa
per uno spazio che non riesco a sentire mio, relegato in una marginalità
spaziale che mi piacerebbe pure (in fin dei conti siamo di fatto in campagna, a
Tor Vergata) se non fosse moralmente connotato dal suo dovere stare alla larga, fuori dalle palle, fuori dalle cose che
succedono (che ovviamente succedono Dentro).
Quindi per me #UMANO era anche un modo per spezzare la
disciplina urbana, invogliare gli studenti (e me stesso!) ad andare Dentro, a
vivere la straordinaria bellezza di una città che, somigliasse un po’ più a sé
stessa, sarebbe la più bella del mondo (e capite che detta da un Veneziano
questa è propria grossa).
La mia educazione cattolica, con il concetto pascaliano di gratia come frutto dell’habitus, unita
al tardo interesse per la nozione marxiana di prassi, mi inducono a credere che
le identità sono prima di tutto forme dell’agire sociale, non del sentire individuale.
Si è per quel che si fa, o si pensa di fare. Se si vive la città come un nemico
ostile che sta altrove non si è cittadini, ma sudditi, e ancora più subalterni
perché non si conosce chi regge il bastone del comando, e si ubbidisce senza
neppure accorgersene, così, perché “tanto che ci vuoi fare”. Portare gli
studenti e le studentesse al Macro Asilo significa violare la regola della
sottomissione urbana, provare a indurre un poco di coscienza di sé come
cittadini che hanno il diritto, non solo il dovere di prendere un titolo di
studio, di apprendere, di elaborare pensiero negli spazi pubblici dove quel
pensiero si produce e articola. Non è giusto, per chi non ce l’ha a portata di
mano, che il Macro sia percepito così
lontano, così altrove, ma questo è quel che mi trovo di fronte e quello che
cerco di gestire, e conosco troppo bene l’orgoglio periferico-borgataro
(ricordo ancora una delle prime scritte a pennarello che lessi sulla metro B,
appena arrivato a Roma: “100# regna”, e non era il Centocelle difficile da
decrittare, ma il motivo per cui regnasse, che mi risultava incomprensibile)
per non riconoscere la natura radicalmente coatta di quell’orgoglio, di quelle
posture romanesche di chi il Dentro proprio non lo conosce, non l’ha mai
conosciuto, lo relega in un antagonismo di classe fittizio (dato che il centro
era popolato dal popolo romano, e quando il popolo ne è stato scacciato si è
semplicemente spopolato, occupato da studi di avvocati e commercialisti, mentre
la borghesia già stava a Città Giardino, e poi a Casal Palocco e poi ancora a
Villaggio Azzurro o Marco Simone, o ai Castelli, appunto).
Per spingere gli studenti a venire più numerosi di quello
che li avrebbe indotti l’inerzia della mobilità (mi è capitato di fare eventi
fuori da Tor Vergata a cui hanno partecipato 3 (tre) studenti dei 250 allora iscritti
al mio corso) ho messo in palio pezzetti di voto finale, sciatterie didattiche
con intento pedagogico, mi viene da dire.
C’è sempre qualcuno che
sbuffa, che hanno l’altro corso in contemporanea, che si alzano alle 4.30, che
uffa insomma sta cosa mica è giusta che uno viene lì e prende un punto e mezzo
e io che invece non posso/non voglio/non so sono costretto dalla mia condizione
di sottomesso alla Regola dell’Alterità Urbana (e c’ho il lavoro, e c’ho i
figli, e c’ho il rientro) a bruciarmi sta occasione. Ci mancherebbe che con
oltre 400 studenti (poi a gennaio arrivano i nuovi del Percorso 24cfu e riparte
la giostra) non ci sia chi sbuffa, o non coglie (o non coglie mentre sbuffa),
ma io tengo duro e per ora la cosa sta funzionando alla grande. Non tanto per
l’affluenza (che è stata molto numerosa nei primi due incontri) ma proprio per
la postura generale che sembra indurre. Nella pagina Facebook del corso se ne
parla, se ne discute in vario modo, ma sento l’effervescenza di qualcosa che
sta succedendo, un piccolo passo verso il Diritto alla Città, mi verrebbe da
dire. Un diritto strappato con la forza, spingendo nella metro o nel bus per
farsi strada, per non fare tardi, perché vale la pena. Vale la pena di
acchiappare per le palle questa città che, se non fai così, se non la tieni a
bada come si deve, ti sfugge e ti sbeffeggia mentre si allontana.