2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

martedì 19 novembre 2019

Il senso delle parole


Da diversi anni nei miei corsi introduttivi di antropologia culturale spiego un articolo ormai vecchio di mezzo secolo ma ancora centrale, di un importante antropologo americano, Clifford Geertz, che parla di un vecchio mercante ebreo del Marocco intento a raccontare all’americano una storia che gli era capitata quand’era giovane, a inizio Novecento. Il mercante, Cohen, aveva ricevuto a casa due potenziali clienti e quindi, come loro ospite, era responsabile della loro incolumità e del loro benessere, come vuole tutta la tradizione mediterranea dell’ospitalità.
Per una leggerezza dovuta probabilmente alla giovane età e all’inesperienza, Cohen lascia entrare nella sua casa alcuni predoni berberi che sgozzano i suoi clienti e gli devastano la casa-negozio. Scampato alla morte, Cohen ha come unico obiettivo quello di recuperare il suo ’ar, vale a dire, traduce Geertz, il suo “onore”. Non mi dilungo molto con gli studenti sul senso culturale di questo concetto, perché siamo tutti mediterranei in classe (tranne qualche studente cinese che seguo a parte, diciamo). E poi Cohen è impressionante per come si dà da fare, con i colonizzatori francesi, con il suo vecchio sceicco, con i concittadini e poi direttamente con i predoni, per avere indietro il suo ’ar, che è poi la sua faccia pubblica, la sua dignità riconosciuta, senza cui non potrebbe mai più fare il suo lavoro di mercante.
Leggendo il testo, il significato culturale di ’ar è tutto “performato” come si dice oggi con un brutto ma efficace anglicismo, secondo la teoria per cui il significato di un segno è tutto nell’uso che se ne fa. Uno, insomma, finisce l’articolo avendo capito cosa sia l’onore in quel contesto senza bisogno di definizioni, ma solo grazie alla forza del racconto.
Ecco, dal prossimo anno, quando vorrò introdurre il concetto di ’ar, dirò ai miei studenti di pensare a come si è mossa in questi dieci anni Ilaria Cucchi, che ha sfidato un mondo senza dignità per salvaguardare la sua, di sorella di un uomo morto ammazzato che mai avrebbe avuto giustizia altrimenti.
E a tutti i capetti e agli indignati di questo e di quello, che si riempiono la bocca di “onore”, “dignità” e “vergogna” e altri paroloni dico chiaro, da antropologo: piantatela di definirvi, e cercate piuttosto quello che siete in quello che fate, per dare vera sostanza di carne alle belle parole di cui vi ammantate. Guardate come Ilaria Cucchi ha resistito a dieci anni di infamità, a dieci anni di parole vergognose, sempre spinta da un’unica motivazione, ridare dignità al cadavere sfigurato del fratello. Quello è l’onore: nei gesti misurati con la mitezza di chi non ha nulla da perdere perché non si batte per una battaglia solo sua; nelle parole precise come metri di titanio; nelle azioni perseverate per arrivare alla verità. Figuratevi, nel terzo millennio, una donna che ancora si incaponisce con questo vecchio concetto di “verità”, e per di più per ragioni di “onore”. Dev’essere una pazza idealista. Dev’essere una donna. Dev’essere una sorella che ha capito che è dentro queste battaglie che si misura la nostra civiltà.