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sabato 17 maggio 2025

Preghiera e meditazione


Daniela mi racconta di aver ricominciato a pregare. Non meditare, non fare yoga, non respirare consapevolmente – proprio pregare. A voce bassa, da sola, quando possibile, tenendo assieme il cuore e la recitazione. Fateci caso, le preghiere non hanno paura di essere una messa in scena, e infatti si recitano. Mi colpiva quel verbo usato con naturalezza, come se nulla fosse cambiato negli ultimi secoli, come se la preghiera fosse ancora una cosa ovvia. E invece no. Per chi è cresciuto negli anni Ottanta o Novanta – in quella lunga transizione dall’Italia democristiana all’Italia senza Dio – la preghiera è diventata un gesto raro, quasi strano, sicuramente da giustificare. Daniela no. Daniela pregava. E in quel suo piccolo ritorno mi è sembrato che si giocasse qualcosa di più grande.

L’idea che oggi esista una distinzione netta tra “preghiera” e “meditazione” sembra ormai un dato acquisito, come se si trattasse di due binari separati, due mondi incompatibili. Da un lato la meditazione: laica, neutra, buona per l’ansia e l’equilibrio psicosomatico. Dall’altro la preghiera: confessionale, imbarazzante, rivolta a un Altro che molti non nominano più. Eppure non è sempre stato così. La separazione è figlia di un’epoca precisa, quella della soggettività secolarizzata, che ha progressivamente espulso il trascendente dall’esperienza interiore, riducendo l’anima a psiche e l’ascesi a tecnica. È una trasformazione culturale sottile, ma profonda. E ci ha portato dove siamo: a un mondo dove ci si osserva dentro con microscopi sempre più sofisticati, ma ognuno per conto suo, e soprattutto si parla sempre meno con Dio.

Prima di Agostino, l’interiorità non era un problema. La vita si proiettava verso l’esterno, in un’etica del gesto, dell’impresa, dell’onore da difendere pubblicamente. Poi arriva lui, Agostino, e filtra il messaggio cristiano alla luce della filosofia, in un modo che cambia tutto. Con le Confessioni, inaugura un nuovo modo di cercare Dio: non nei templi o nei sacrifici, ma nel cuore. “Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova…” – lo dice a sé stesso, lo dice a Dio, e dice a tutti che la via per incontrare il divino passa da un movimento verso l’interno. È lì che preghiera e meditazione si intrecciano, si confondono, diventano un’unica azione: cercare la Verità dialogando con Essa, nel profondo.

La modernità, però, rompe questa unità. Con l’affermarsi del soggetto autonomo e della razionalità secolare, l’interiorità si svuota di Dio e si riempie di sé. Il soggetto diventa l’oggetto della sua stessa indagine, e la meditazione si laicizza: da preghiera che cerca un tu, a introspezione che osserva un io. La preghiera, in questo nuovo orizzonte, appare sospetta: troppo ingenua, troppo dipendente da una figura paterna, troppo “infantile”. Eppure non scompare: resiste, come gesto di minoranza, come testimonianza eccentrica di una relazione che non si è interrotta. Ma certo cambia: spesso diventa più rarefatta, più intellettualizzata, a volte ridotta a sistema etico, come se Dio fosse solo un principio regolativo, un’idea-guida, non una presenza viva.

Ed è qui che il ritorno di Daniela acquista valore. Perché non è una conversione teorica o una nostalgia da calendario. È una fame. È il bisogno di rispondere a una domanda che la meditazione, da sola, non può più soddisfare: quella di essere in relazione. Non semplicemente ascoltarsi, ma essere ascoltati. Non semplicemente osservarsi, ma dirsi. Dire qualcosa, a qualcuno. Magari in silenzio, magari senza parole, ma sempre nella consapevolezza che un Altro – non io, non il mio benessere, non il mio equilibrio – è lì ad accogliere quella parola. Daniela non cerca pace. Cerca Presenza.

Forse allora non serve scegliere. Forse il punto non è decidere se siamo per la preghiera o per la meditazione, come se fossero squadre avversarie. Forse la nostra epoca ha bisogno di entrambe, ma riportate al loro significato originario, vale a dire unitario. La meditazione può essere una via di discesa in sé, una forma di attenzione radicale. La preghiera, una salita, una relazione che ci sposta oltre noi stessi. Una domanda aperta al cielo. Un atto d’amore.

In fondo, lo dice anche Agostino: In interiore homine habitat veritas. Ma quella verità, per lui, non era l’io. Era Dio.