Daniela mi racconta di aver ricominciato a pregare. Non meditare, non fare yoga, non respirare consapevolmente – proprio pregare. A voce bassa, da sola, quando possibile, tenendo assieme il cuore e la recitazione. Fateci caso, le preghiere non hanno paura di essere una messa in scena, e infatti si recitano. Mi colpiva quel verbo usato con naturalezza, come se nulla fosse cambiato negli ultimi secoli, come se la preghiera fosse ancora una cosa ovvia. E invece no. Per chi è cresciuto negli anni Ottanta o Novanta – in quella lunga transizione dall’Italia democristiana all’Italia senza Dio – la preghiera è diventata un gesto raro, quasi strano, sicuramente da giustificare. Daniela no. Daniela pregava. E in quel suo piccolo ritorno mi è sembrato che si giocasse qualcosa di più grande.
L’idea che oggi esista una distinzione netta tra
“preghiera” e “meditazione” sembra ormai un dato acquisito, come se si
trattasse di due binari separati, due mondi incompatibili. Da un lato la
meditazione: laica, neutra, buona per l’ansia e l’equilibrio
psicosomatico. Dall’altro la preghiera: confessionale, imbarazzante,
rivolta a un Altro che molti non nominano più. Eppure non è sempre stato così.
La separazione è figlia di un’epoca precisa, quella della soggettività
secolarizzata, che ha progressivamente espulso il trascendente
dall’esperienza interiore, riducendo l’anima a psiche e l’ascesi a tecnica. È
una trasformazione culturale sottile, ma profonda. E ci ha portato dove siamo:
a un mondo dove ci si osserva dentro con microscopi sempre più
sofisticati, ma ognuno per conto suo, e soprattutto si parla sempre meno
con Dio.
Prima di Agostino, l’interiorità non era un problema. La
vita si proiettava verso l’esterno, in un’etica del gesto, dell’impresa,
dell’onore da difendere pubblicamente. Poi arriva lui, Agostino, e filtra il
messaggio cristiano alla luce della filosofia, in un modo che cambia tutto. Con
le Confessioni, inaugura un nuovo modo di cercare Dio: non nei templi o
nei sacrifici, ma nel cuore. “Tardi ti amai, bellezza così antica e così
nuova…” – lo dice a sé stesso, lo dice a Dio, e dice a tutti che la via per
incontrare il divino passa da un movimento verso l’interno. È lì che
preghiera e meditazione si intrecciano, si confondono, diventano un’unica
azione: cercare la Verità dialogando con Essa, nel profondo.
La modernità, però, rompe questa unità. Con l’affermarsi
del soggetto autonomo e della razionalità secolare, l’interiorità si svuota di
Dio e si riempie di sé. Il soggetto diventa l’oggetto della sua stessa
indagine, e la meditazione si laicizza: da preghiera che cerca un tu, a
introspezione che osserva un io. La preghiera, in questo nuovo orizzonte,
appare sospetta: troppo ingenua, troppo dipendente da una figura paterna,
troppo “infantile”. Eppure non scompare: resiste, come gesto di minoranza, come
testimonianza eccentrica di una relazione che non si è interrotta. Ma certo
cambia: spesso diventa più rarefatta, più intellettualizzata, a volte ridotta a
sistema etico, come se Dio fosse solo un principio regolativo, un’idea-guida,
non una presenza viva.
Ed è qui che il ritorno di Daniela acquista valore.
Perché non è una conversione teorica o una nostalgia da calendario. È una fame.
È il bisogno di rispondere a una domanda che la meditazione, da sola, non può
più soddisfare: quella di essere in relazione. Non semplicemente ascoltarsi,
ma essere ascoltati. Non semplicemente osservarsi, ma dirsi.
Dire qualcosa, a qualcuno. Magari in silenzio, magari senza parole, ma sempre
nella consapevolezza che un Altro – non io, non il mio benessere, non il mio
equilibrio – è lì ad accogliere quella parola. Daniela non cerca pace. Cerca
Presenza.
Forse allora non serve scegliere. Forse il punto non è
decidere se siamo per la preghiera o per la meditazione, come se fossero
squadre avversarie. Forse la nostra epoca ha bisogno di entrambe, ma riportate
al loro significato originario, vale a dire unitario. La meditazione può essere
una via di discesa in sé, una forma di attenzione radicale. La preghiera, una
salita, una relazione che ci sposta oltre noi stessi. Una domanda aperta al
cielo. Un atto d’amore.
In fondo, lo dice anche Agostino: In interiore homine
habitat veritas. Ma quella verità, per lui, non era l’io. Era Dio.