Non quella della diplomazia ufficiale, quella da
conferenze stampa e strette di mano. No. Parlo della guerra delle immagini,
degli hashtag, degli articoli “trapelati” nei tempi sbagliati,
delle copertine indignate sui settimanali europei, delle assurde campagne
sui social, dei video “verità” rimbalzati da Doha a Berkeley
passando per qualche centro studi ben finanziato da Teheran. È la guerra della
narrazione, e lì Israele, da decenni, perde male. Perde da prima di
internet, da prima delle ONG, da prima dei campus woke. Perde da quando non è
riuscita a raccontare nemmeno la propria genesi senza essere interrotta
a metà da qualcuno che grida “apartheid”.
Israele è come un pugile straordinario, con il miglior
allenamento militare del mondo, che però sale sul ring bendato e con le orecchie
tappate, mentre dall’altra parte si combatte con i megafoni. E non è un
problema recente. È strutturale. È sistemico. È una resa
comunicativa lunga quanto la sua storia.
Oggi il grande pubblico – quello dei talk show, dei
feed di Instagram, delle assemblee universitarie e delle redazioni dei
telegiornali – non sa nemmeno chi siano gli attori in gioco, né quale
sia la posta. È convinto che Hamas sia una ONG un po’ movimentista, che i 700
mila rifugiati del 1948 siano rimasti tali per generazioni per colpa di
Israele, che i tunnel sotto Gaza siano una risposta creativa alla mancanza di
infrastrutture.
Nel pezzo di Micol Flammini, c’è un passaggio che mi
ha colpito: "La Repubblica islamica dell’Iran, nonostante abbia già
proclamato la propria vittoria, non ha finito di lavorare alla vendetta".
Ma l’Iran non si vendica solo con razzi o attacchi informatici. Si vendica con
fondazioni culturali, centri studi, giornalisti amici e reti
di influenza ben oliate, che operano ogni giorno per far passare Israele
come l’aggressore, l’occupante, il criminale.
Vi prego di notare l’asimmetria causale: qualunque
cosa facciano i terroristi di Hamas o i cittadini palestinesi oppressi, c’è
sempre qualche ragione precedente a spiegare quell’atto. Qualunque
cosa facciano invece i militari israeliani o i coloni in Samaria e Giudea, la “vera
ragione” del loro agire è tutta nella malvagità intrinseca dell’istituzione statale
che li spinge ad agire in quel modo malvagio. Se un ragazzo palestinese si
arruola in una brigata jihadista è colpa di Israele. Se un colono israeliano brucia
la casa di un palestinese in Cisgiordania, è comunque colpa di Israele.
QUALUNQUE cosa succeda; dentro questa logica mediatica, è COMUNQUE colpa di
Israele.
E chi finanzia tutto questo? Non solo l’Iran. Anche il
Qatar, da anni campione del “doppiogiochismo” mediorientale:
finanziatore di Hamas e padrone di una delle più grandi centrali mediatiche del
mondo arabo, Al Jazeera.
Così si costruisce una narrazione alternativa
che poi – come un parassita – entra nelle nostre democrazie, nei nostri
giornali, nei nostri campus. Ed è talmente ben confezionata da sembrare
“oggettiva”.
Israele può vincere tutte le guerre militari,
strategiche e diplomatiche che vuole. Ma se perde questa guerra, quella
della rappresentazione, le altre tre valgono come vittorie ai punti in
un match truccato. Perché oggi, piaccia o no, vince chi racconta meglio,
non chi ha ragione.
E a raccontare Israele – nel mondo – non c’è quasi
nessuno. O, peggio, c’è chi lo fa per distruggerlo.