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venerdì 27 giugno 2025

La quarta guerra, quella che Israele non sa combattere

Michael Oren, ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, sostiene che ogni vittoria debba essere valutata su tre piani: militare, strategico e diplomatico. Israele – ci dice in un articolo di Micol Flammini sul Foglio del 26 giugno 2025 – ha vinto tutte e tre le battaglie nella recente operazione “Leone che si erge” (tra parentesi, ma lo vogliamo chiamare “Leone Rampante” come si dovrebbe dire in italiano?): ha fatto fuori gli impianti nucleari, ha smantellato le capacità di ritorsione dei suoi nemici, e ora siede al tavolo dei negoziati con una certa fiducia, mentre Trump si gode il plauso dell’Aia e l’Iran si lecca le ferite.

Ma c'è una quarta guerra – la più importante e forse l’unica davvero in corso – che Israele continua a perdere: la guerra della comunicazione.

Non quella della diplomazia ufficiale, quella da conferenze stampa e strette di mano. No. Parlo della guerra delle immagini, degli hashtag, degli articoli “trapelati” nei tempi sbagliati, delle copertine indignate sui settimanali europei, delle assurde campagne sui social, dei video “verità” rimbalzati da Doha a Berkeley passando per qualche centro studi ben finanziato da Teheran. È la guerra della narrazione, e lì Israele, da decenni, perde male. Perde da prima di internet, da prima delle ONG, da prima dei campus woke. Perde da quando non è riuscita a raccontare nemmeno la propria genesi senza essere interrotta a metà da qualcuno che grida “apartheid”.

Israele è come un pugile straordinario, con il miglior allenamento militare del mondo, che però sale sul ring bendato e con le orecchie tappate, mentre dall’altra parte si combatte con i megafoni. E non è un problema recente. È strutturale. È sistemico. È una resa comunicativa lunga quanto la sua storia.

Oggi il grande pubblico – quello dei talk show, dei feed di Instagram, delle assemblee universitarie e delle redazioni dei telegiornali – non sa nemmeno chi siano gli attori in gioco, né quale sia la posta. È convinto che Hamas sia una ONG un po’ movimentista, che i 700 mila rifugiati del 1948 siano rimasti tali per generazioni per colpa di Israele, che i tunnel sotto Gaza siano una risposta creativa alla mancanza di infrastrutture.

Nel pezzo di Micol Flammini, c’è un passaggio che mi ha colpito: "La Repubblica islamica dell’Iran, nonostante abbia già proclamato la propria vittoria, non ha finito di lavorare alla vendetta". Ma l’Iran non si vendica solo con razzi o attacchi informatici. Si vendica con fondazioni culturali, centri studi, giornalisti amici e reti di influenza ben oliate, che operano ogni giorno per far passare Israele come l’aggressore, l’occupante, il criminale.

Vi prego di notare l’asimmetria causale: qualunque cosa facciano i terroristi di Hamas o i cittadini palestinesi oppressi, c’è sempre qualche ragione precedente a spiegare quell’atto. Qualunque cosa facciano invece i militari israeliani o i coloni in Samaria e Giudea, la “vera ragione” del loro agire è tutta nella malvagità intrinseca dell’istituzione statale che li spinge ad agire in quel modo malvagio. Se un ragazzo palestinese si arruola in una brigata jihadista è colpa di Israele. Se un colono israeliano brucia la casa di un palestinese in Cisgiordania, è comunque colpa di Israele. QUALUNQUE cosa succeda; dentro questa logica mediatica, è COMUNQUE colpa di Israele.

E chi finanzia tutto questo? Non solo l’Iran. Anche il Qatar, da anni campione del “doppiogiochismo” mediorientale: finanziatore di Hamas e padrone di una delle più grandi centrali mediatiche del mondo arabo, Al Jazeera.

Così si costruisce una narrazione alternativa che poi – come un parassita – entra nelle nostre democrazie, nei nostri giornali, nei nostri campus. Ed è talmente ben confezionata da sembrare “oggettiva”.

Israele può vincere tutte le guerre militari, strategiche e diplomatiche che vuole. Ma se perde questa guerra, quella della rappresentazione, le altre tre valgono come vittorie ai punti in un match truccato. Perché oggi, piaccia o no, vince chi racconta meglio, non chi ha ragione.

E a raccontare Israele – nel mondo – non c’è quasi nessuno. O, peggio, c’è chi lo fa per distruggerlo.