Antropologia culturale Modulo A Lezione 05 registrata il 13 ottobre 2025
Ci sono lezioni che dovrebbero cominciare con un cartello: Attenzione, ciò che state per ascoltare potrebbe urtare la vostra idea di “noi”. La quinta lezione di Antropologia culturale è una di quelle. Pietro parte da una figura che in Italia conosciamo meglio del Colosseo: la “badante ucraina”. Quella che il senso comune immagina tutta uguale, come se l’Ucraina fosse un’azienda con una sola linea di produzione. E invece no: dentro quella parola c’è un mondo, e soprattutto c’è l’illusione che anche noi — qualunque noi decidiamo di essere — siamo un blocco compatto, omogeneo, fatto di ingredienti certificati DOC.
Questa illusione del “noi” è
potentissima, dice Pietro, perché ci fa sembrare naturali cose che invece sono
operazioni di ingegneria simbolica. Come quando diciamo “noi italiani”,
e ci viene in mente un popolo unico ma solo perché, un paio di secoli fa,
qualcuno ha deciso che scuola, esercito e anagrafe
avrebbero cucinato una nazione omogenea come un passato di verdure.
Poi Pietro tira fuori lo spot danese All That We Share e capita il miracolo: vedi trenta persone che credevi divise per categorie (ricchi/poveri, immigrati/nativi, credenti/atei) e scopri che hanno più cose in comune di quanto non abbiano di diverso. La cultura, più che un recinto, è un bricolage.
E mentre ancora ci stiamo chiedendo perché
passiamo la vita a tracciare confini immaginari, arriva il dottor
Riccardo Vedovato con un fascio di video dalla Selva amazzonica. Gli Shipibo-Conibo,
dice, non stanno lì a fare “gli indigeni” per farci contenti: scelgono cosa
mostrare, come mostrarsi, che estetica adottare. Sono agenti, non poster
di National Geographic.
Così li vediamo negli scatti che
pubblicano sui social, nei rituali collettivi, nel modo in cui accolgono gli Iskonawa
— minoranza interna, e già questo basterebbe a smontare l’idea di una cultura
“tutta uguale”. Vedovato ci fa osservare simboli, costumi, segni.
E conclude con un passaggio magistrale: l’appropriazione culturale non è
peccato o virtù. È un modo in cui le culture si toccano, si mischiano, si
reinventano. Come quando il sacrificio animale diventa… un gallo.
Globalizzazione etica, versione amazzonica.
Morale della lezione?
Che ogni volta che diciamo “noi”, dovremmo chiedere: “sì, ma quale
noi?”.
Il resto, più che differenze culturali, sono post-it appiccicati sulla
complessità.
