Si sta discutendo su più fronti se proporre
la cancellazione della parola “razza” dall’articolo 3 della Costituzione
Italiana. In particolare, sono gli antropologi
fisici e i genetisti a far
notare l’assurdità dell’utilizzo di un termine assolutamente non scientifico nella Costituzione, che
darebbe adito a giustificazioni
postume sul suo utilizzo, come quella del candidato
del centro-destra alla Regione Lombardia.
Ribadendo che anche l’antropologia
culturale italiana ritiene il concetto del tutto non scientifico, non
corrispondente ad alcunché di reale nello spazio fisico, vorrei, da antropologo culturale, impostare la
cosa in modo diverso, per provare – udite udite – a dimostrare che il
termine “razza” non andrebbe tolto
dalla Costituzione, per il fatto che le costituzioni sono creazioni politico-culturali, non scientifiche, e
devono parlare il linguaggio naturale
delle popolazioni di cui sono le
costituzioni, non il linguaggio formale
della comunità scientifica (che lavora, almeno idealmente, oltre le differenze culturali e politiche).
Parto da un sintomo.
Per giustificare la richiesta di rimozione del termine, l’antropologo fisico Gianfranco
Biondi (primo firmatario con la mia collega di Tor Vergata Olga Rickards,
anche lei antropologa fisica, o genetista che dir si voglia, di fatto) ha
dichiarato al manifesto
che i padri costituenti, usando “razza” all’articolo 3, “è come se avessero
scritto che il sole gira attorno alla terra”.
Ora, la concezione corretta
(scientifica) dell’eliocentrismo non
ci impedisce, nel linguaggio ordinario (anche il quello tecnico degli almanacchi e delle comunicazioni
ufficiali), di usare espressioni come “il sole sorge alle ore” e “il sole tramonta
alle ore”. Si tratta di un errore o
di una convenzione culturale, per
cui, dal punto di vista del linguaggio
ordinario (dal punto di vista culturale,
diremmo noi antropologi culturali), fingiamo
(o mettete il verbo che volete, basta non mettiate “crediamo”, che non
corrisponde a quel che succede per la maggior parte di coloro che usano i verbi
sorgere o tramontare) che il sole si
muova nel cielo e quindi possa tramontare e sorgere di moto proprio? Dovremmo cancellare Machado, che chiedeva al poeta cosa cercava nel tramonto,
visto che il tramonto è un errore prospettico? Oppure dovremmo rimproverare due
volte al giorno gli istituti geografici
che insistono nel dirci a che ora il sole “sorgerà” domani?
Le culture, vivaddio, creano
loro costruzioni che sono perfettamente reali dentro la rete semiotica che le costituisce, e si interessano molto
poco del fatto che queste costruzioni siano scientifiche o meno, corrispondenti cioè a oggetti fisici misurabili con indicatori
indipendenti dal soggetto. Del resto, se dovessimo togliere razza dalla Costituzione, allora
dovremmo cancellare anche democrazia
perché non mi pare esista un oggetto reale effettivo in grado di manifestarsi
con autoevidenza che corrisponda al contenuto semantico del termine.
Dobbiamo insomma distinguere
tra razza1, di cui
parlano giustamente gli scienziati, e razza2,
di cui può parlare il senso comune.
Razza1
è un non ente fisico, semplicemente non esiste, è una sciocchezza, una
stupidaggine, una bestialità, un
assurdo: pretendere che gli esseri umani siano compartimentabili in gruppi distinti in base a caratteristiche
fisiche osservabili (colore della pelle eccetera, si dice fenotipicamente, in antropologia fisica) e, soprattutto, pretendere
che a queste caratteristiche fisiche nettamente separabili corrispondano in modo biunivoco capacità intellettuali o qualità morali
è una schifezza vergognosa che non ha ragione d’essere. E’, insomma, spacciare
per vera una visione geocentrica del sistema solare.
Razza2 è invece il modo in cui io, cittadino italiano
che ha visto il primo uomo “di colore” all’età di 12 anni (ricordo
perfettamente lo choc, in un
supermercato veneziano, e lo choc fu ancora maggiore quando il signore mi
guardò cogliendo il mio stupore e mi apostrofò in dialetto) posso riconoscere se una persona ha, molto
genericamente, i suoi antenati in
alcune zone dell’Africa settentrionale o subsahariana, da zone dell’Asia o tra
i nativi amerindiani. Devo imparare che questa informazione non significa nulla, che il signore di colore
mi può parlare in veneziano, come Balotelli parla con un riconoscibile accento bresciano e molti dei ragazzini di Torpignattara parlano un romanaccio pesante indipendentemente
dal colore della pelle e della forma degli occhi. Le razze2, dal punto di vista culturale esistono eccome, esattamente come
esiste la democrazia, l’amore, il libero arbitrio e l’anima
(per chi crede in questi enti culturali).
Il lavoro che va fatto, secondo me, non è quello dei censori, imponendo un uso tecnico per
un termine del linguaggio comune, ma quello dei maestri. Che poi è quello che hanno fatto i padri costituenti, dicendoci che le differenze fisiche, per quanto evidenti possano essere, per quanto ci
possano stupire, sorprendere e
addirittura spaventare, non significano nulla anzi, non vogliamo
che significhino nulla. Certo, è confortante sapere che non c’è alcuna base biologica del razzismo, che il principio su cui
si basa il razzismo (vale a dire la differenza biologica tra esseri umani
raggruppati) è falsificato proprio
dalla scienza stessa (alla quale, originariamente, i razzisti fecero appello).
Ma il fatto che la scienza abbia definitivamente collocato
la razza1 negli enti non
esistenti non ci aiuta a risolvere i casi come quello di Fontana:
lui dice razza2, dice
differenze visibili, dice Romeni e musulmani, dice Ghanesi e neri, fa un
mischione pretendendo che attorno a quell’uso
vergognoso (associare differenze visibili a qualità morali) si coaguli un
consenso possibile.
Continuiamo (con circospezione, mi raccomando) allora a
parlare di razze2 come costruzioni culturali e lasciamo ai
padri costituenti il merito che
spetta loro, vale a dire di aver scritto a chiare lettere che quelle differenze
(che noi, nel nostro sistema culturale, abbiamo imparato a riconoscere come “oggettive”)
non possono e addirittura non devono
significare nulla sul piano della convivenza sociale. Aumentiamo non la repressione, ma la consapevolezza semmai: lavoriamo assieme perché chi usa razze
sappia che sono oggetti del modo in cui le nostre culture ci spingono a costruire il mondo delle
differenze, sono oggetti che abbiamo imparato a percepire ma non significano nulla di nulla, perché quei
segni esteriori (e attenti che il
gioco vale anche per la parola etnia,
che ormai ha sostituito il termine razza nell’uso comune delle persone
sensibili, rischiando di occultarne gli aspetti politicamente pericolosi) nulla ci dicono di cosa sa, come pensa e
come agisce quella persona con quel
colore di pelle, con quegli abiti, con quell’accento. Riconosciamo che dentro
il nostro senso comune, il senso dell’ovvio dentro cui ci immerge la nostra cultura, le razze2 esistono, ma non
significano nulla. A meno che non ci inducano a riflettere, affascinati come di
fronte a un bel tramonto, sulla straordinaria bellezza della differenza che ci fa tutte e tutti umani.