Uno degli errori più comuni nel leggere la guerra a Gaza è pensare che si tratti semplicemente di un conflitto militare. Come ha spiegato bene Tal Becker (che credo abbia letto questo) siamo in presenza di due strategie opposte di guerra: una clausewitziana e una sunziana. Israele, con i suoi droni e i suoi tank, sta combattendo per vincere sul piano di Clausewitz, cioè eliminare fisicamente Hamas, privarlo della capacità e della volontà di colpire. Ma Hamas non gioca quella partita. Hamas applica la logica di Sun Tzu: vincere non distruggendo l'avversario, ma demolendo la sua strategia, rendendo impraticabile qualunque risposta militare senza pagare un prezzo insostenibile in termini di legittimità.
E qui si apre un problema profondo, che è insieme politico
e teologico.
Come ha osservato il teologo Gregor
Maria Hoff, l’attacco del 7 ottobre non è stato solo un atto politico: è
stato un tentativo deliberato di distruggere la vita ebraica, di negarne
la legittimità religiosa, prima ancora che statale. Per questo, dice Hoff,
l’attacco interferisce con il dialogo tra cattolici ed ebrei, che dal
Concilio Vaticano II in poi si fonda sul riconoscimento dell’ebraismo come
realtà teologica costitutiva per la Chiesa. Ogni tentativo di
minimizzare la portata teologica di Hamas – ad esempio dicendo che “è solo
politica” – manca il punto.
Israele nasce nel 1948 dopo un mezzo secolo di
sionismo laico, come risposta concreta all’antisemitismo che infettava
tutta l’Europa e anche buona parte del Medio Oriente. Non era uno stato
messianico: era un esperimento modernista, socialista, antifascista. Ma è diventato
messianico – o meglio, è stato spinto verso quella deriva – nel momento in
cui il mondo arabo ha teologizzato il conflitto, leggendo la sovranità
ebraica come una bestemmia, un affronto religioso. In fondo, lo scontro non è
mai stato solo per la terra: è per il diritto stesso degli ebrei ad avere un
diritto.
In questo senso, la strategia araba – e oggi islamista
– è sempre stata chiara: rendere inconcepibile l’esistenza stessa di uno
stato ebraico. Non batterlo sul campo, ma cancellarlo dall’immaginario.
E ci sono riusciti. Oggi Israele è uno stato moralmente delegittimato,
accusato di colonialismo, apartheid, e persino genocidio. E se anche il Papa –
come ha fatto Francesco – accetta che la parola “genocidio” entri nel discorso
pubblico su Gaza, anche solo come ipotesi, allora siamo ben oltre la
partita militare. Siamo sul terreno teologico, e Israele sta clamorosamente
perdendo.
Qual è allora l’unica mossa possibile?
Paradossalmente, proprio quella che Hamas non si aspetta: abbassare il tono
teologico, ridurre l’enfasi messianica, tornare a essere uno stato come
gli altri. Solo così sarà di nuovo possibile difendere Israele per quello
che è: una convenzione politica, figlia della storia, certo imperfetta,
ma come tutte le altre degna di esistere.
Il compito di Israele non è solo disarmare Hamas,
ma disinnescarne la strategia. Far capire al mondo che non è in gioco
il destino della Palestina, ma la concepibilità stessa di Israele come
stato. E farlo con una chiarezza disarmante: sì, stiamo combattendo una guerra,
ma la nostra legittimità non si misura sulla vittoria, bensì sulla resistenza
a farci togliere la parola. Perché se Israele accetta il terreno della
teologia apocalittica, allora Hamas ha già vinto.
Suona inquietante, di questi tempi, ma la guerra che
si gioca è fatta anche del diritto di prendere la parola, e tenersela
stretta, perché il diritto di parlare, nella politica degli stati, è il diritto
di esistere.