Fascio-logia: quando il verbo si fa manganello


Roland Barthes lo disse con una delle sue arguzie più note nel 1977: il linguaggio come sistema, come struttura, è fascista, perché il fascismo non è impedire di dire, ma obbligare a dire. E sicuramente qualunque lingua, se non vuole essere un insensato borbottio, ci obbliga a parlare in un certo modo, come argomentavo, da padre, una quindicina d’anni fa.

Ma qui m’importa relativamente che il linguaggio sia fascista, e piuttosto mi preoccupa il fatto politico che il fascismo pretenda di istituire un obbligo a dire. Umberto Eco nel 1995, in quella conferenza alla Columbia che poi lessi con gran fatica nella traduzione in greco a Salonicco, mentre iniziavo a fare la mia ricerca sul campo, lo spiegò a modo suo: l’Ur-Fascismo non ha bisogno di manganelli quando possiede la lingua, quando impone le parole, i simboli, il lessico della militanza. È la neolingua che restringe il pensiero, che costringe a ripetere slogan invece di ragionare.

A Pisa ieri un professore è stato aggredito non perché abbia detto qualcosa, ma perché si è rifiutato di dire ciò che altri volevano. Non basta più parlare: bisogna pronunciare le parole giuste, allinearsi alla liturgia dell’indignazione. Se non lo fai, sei un “sionista”. Se osi tenere la tua lezione, ti strappano il libro di mano. Se provi a difendere un ragazzo, ti colpiscono a calci e pugni.

Questo è fascismo, anche se si traveste da antifascismo. È la stessa logica che ho imparato a riconoscere nella Grecia del 1995, quando i colleghi dottorandi mi spiegavano che la dittatura dei Colonnelli (ancora fresca nella memoria dei loro genitori) aveva preteso fedeltà verbale prima ancora che politica. All’università, allora come oggi, non bastava tacere: ti si chiedeva di gridare le parole d’ordine, di occupare il linguaggio.

Antifascismo, per me, significa difendere la libertà di non-dire. Il diritto di parlare d’altro. Il diritto di non essere obbligato a ripetere il catechismo di nessuno, neppure quando è vestito dei colori della causa giusta.

Chi riduce l’università a palcoscenico obbligatorio di una liturgia politica dimentica che la libertà accademica è fragile proprio perché non si difende a slogan, ma con il rispetto reciproco del silenzio e della parola. Non serve occupare aule, basta liberare il linguaggio.

Ecco perché questo episodio si lega direttamente al mio post precedente sull’importanza del dibattito come spazio civile: perché il dibattito è l’antidoto a ogni imposizione, lo spazio in cui le parole si confrontano senza diventare manganelli.

Se non accetti né il contraddittorio, né il silenzio, ma imponi il tuo linguaggio perfino con la violenza fisica, chiamalo come vuoi, io lo chiamo fascismo. My Preferred Noun per azioni del genere.