Bondi Beach, per chi non ci è mai stato, è la versione civile del mito: cartolina e promessa. È l’idea che il mondo possa essere semplice per mezz’ora, sabbia, acqua, corpi stanchi ma felici, la società ridotta a crema solare e a una bibita fredda. Poi arriva un attentato, e quella cartolina si strappa. Non perché “l’Australia non è più sicura” (frase da talk show), ma perché scopriamo di colpo che il nostro immaginario e le nostre parole viaggiano più veloci degli aerei.
Davanti a una cosa così, il riflesso più
comune è quello che io chiamo saponetta dell’innocenza.
Scivolosa, profumata, sempre pronta sotto la doccia morale. Ognuno se la passa
sulle mani e dichiara: “Non c’entro”. “Non è roba mia”. “Sono mele marce”. “Io
critico Israele ma…”. “Io difendo Israele ma…”. “Io non sono né di destra né di
sinistra, io sono una persona complessa”. E poi via, coscienza deodorata, si
torna alla vita.
Il problema è che un attentato non nasce
dal nulla, e spesso non nasce neppure solo dall’individuo che lo compie. Nasce
dentro un clima simbolico in cui l’odio anti-ebraico, o se preferite
l’odio antisionista che ogni due frasi scivola nel vecchio
antisemitismo, è diventato dicibile, spendibile, condivisibile. E questo
clima, mi dispiace, non è proprietà privata di una sola tribù politica.
Qui nessuno può davvero chiamarsi fuori.
Perché, dove ti giri ti giri, trovi una genealogia che ha contribuito a rendere
plausibile l’orrore. Non sto dicendo che “sono tutti uguali” (scorciatoia da
centrista pigro). Sto dicendo una cosa più scomoda: che molti filoni diversi,
spesso in conflitto fra loro, hanno comunque fatto un lavoro convergente, hanno
reso praticabile ciò che, in teoria, avremmo dovuto tenere fuori dal
campo del pensabile.
La destra moderna (quella
ottocentesca, con i suoi album di famiglia) nasce spesso anche antisemita per
ragioni identitarie e razziali. Razza, nazione, purezza, finanza,
complotto, doppia lealtà: un kit narrativo comodissimo, perché ti regala un
nemico che sembra insieme invisibile e potentissimo. Poi certo, la destra
contemporanea ha anche filoni filoisraeliani e difese sincere delle comunità
ebraiche. Ma quel kit resta lì, pronto all’uso, e ogni tanto riemerge come
muffa quando cambia l’umidità.
La sinistra moderna, tra il 1956 e
il 1967, impara l’antisionismo come grammatica politica. Qui il
passaggio non è razziale ma ideologico: anticapitalismo, anti-imperialismo,
lettura del mondo a blocchi. Israele diventa sempre più una figura del “campo
occidentale”, e quindi il bersaglio perfetto per chi ha bisogno di un nemico
sistemico. Questa lettura può partire da critiche legittime a politiche e
governi, ovvio. Ma deraglia quando Israele smette di essere uno Stato concreto
e diventa un simbolo metafisico del male: a quel punto il confine tra critica e
demonizzazione non è più un confine, è un ricordo.
Il fondamentalismo cristiano
(cattolico in alcune frange, ma soprattutto riformato e non denominational)
oscilla da decenni tra due modi diversi di usare gli ebrei come oggetti. Da un
lato la vecchia tentazione: demonizzazione teologica, l’ebreo come
deicida, come popolo “accecato”. Dall’altro l’entusiasmo apocalittico:
Israele come palco escatologico dove deve andare in scena la Fine, e con essa,
nei fatti, l’estinzione o l’irrilevanza degli ebrei come soggetti storici. In
entrambi i casi, l’ebreo non è una persona: è una comparsa in uno spettacolo
scritto da altri.
Il movimento antagonista diventa
antisionista per ragioni simboliche. Se lo Stato è sempre il male,
allora Israele, con la sua forma statuale, i suoi confini, le sue forze armate,
diventa l’epitome perfetta. È una scorciatoia cognitiva: non analizzi, non
distingui, non pesi contesti e responsabilità, inchiodi un simbolo al muro e ci
tiri frecce. E il simbolo regge tutto: ti permette di odiare senza studiare.
L’islam politico contemporaneo
(quello globalizzato dai petrodollari, non “l’islam” come parola-tappeto
buona per tutto) si accorge di poter cavalcare l’antisionismo come dispositivo
identitario, e spesso riattiva un antisemitismo pienamente moderno, anche
riciclando e adattando i suoi vecchi repertori coranici. L’antisionismo diventa un
ponte: ti consente di dire “non odio gli ebrei”, mentre nello stesso fiato
riaccendi tropi e fantasmi che ebrei sono eccome. È un travestimento retorico
molto efficiente.
E poi ci sono i paesi a tradizione colonialista,
UK in testa e, per osmosi culturale, molte aree dell’ecosistema del
Commonwealth: lì l’antisionismo (almeno nella variante cripto) è spesso una
postura comoda, perché il sionismo è l’unico movimento di liberazione di un
popolo indigeno che abbia avuto un successo pieno,
compreso quello di costruire una sovranità stabile, durante conquistata dai sionisti e di certo non concessa dal senso di colpa occidentale, come dice la sciocca vulgata. Questa anomalia manda in
crisi le mappe morali binarie (colonizzatore/colonizzato) e, quando una
cultura politica non regge l’ambivalenza, scatta la semplificazione. E con la
semplificazione arriva la licenza di odiare.
Morale: l’antiebraismo contemporaneo non
è un partito, è un ecosistema. Dentro un ecosistema ci sono specie
diverse che, senza mettersi d’accordo, fanno comunque lo stesso lavoro: rendono
plausibile l’idea che gli ebrei siano un problema, un simbolo, un bersaglio
naturale del risentimento morale del mondo.
E allora torno a Bondi. Non per fare
l’ennesimo minuto di raccoglimento digitale, ma per dire la cosa impopolare: se
l’odio è globale, la responsabilità deve esserlo altrettanto. Chi oggi
pretende di salvaguardare i “suoi”, dicendo che la propria tribù è pulita e che
il problema sta sempre altrove, di solito fa una delle due cose: o è in cattiva
fede, oppure non ha idea di come circolino davvero le idee quando diventano
slogan, meme, cori, cartelli, scuse.
Se vogliamo che Bondi Beach resti una cartolina
e non diventi un genere, dobbiamo smettere di comprare la saponetta
dell’innocenza. E cominciare a fare la cosa più faticosa del mondo: sorvegliare
le parole del nostro campo, prima ancora di puntare il dito contro
quelle del campo avversario.
