Uno
degli esempi più classici di fallacia dei costi irrecuperabili è il progetto
Concorde. Un aereo supersonico straordinario, elegante,
affascinante, ma economicamente insensato. Si sapeva fin dall’inizio che
non avrebbe mai coperto i costi. Eppure si è continuato a finanziarlo per anni,
proprio perché aveva già richiesto un investimento colossale. Buttarlo
via avrebbe significato “sprecare tutto quel che era già stato speso”.
Hanno dovuto aspettare l’incidente aereo per dismettere, finalmente, il
progetto.
Un
altro caso a noi familiare: Alitalia. Quanti governi l’hanno tenuta in
vita, pur sapendo che era clinicamente morta, solo perché “c’era già
stato speso troppo”? Il principio è chiaro: invece di valutare cosa convenga ora,
ci si aggrappa a quanto è stato già investito. Come se il passato
potesse giustificare il presente.
Questa
è, appunto, la fallacia dei costi irrecuperabili. Incaponirsi in un progetto economicamente fallimentare solo perché è costato troppo, anche se è evidente che non porterà alcun guadagno. E in economia ha
senso denunciarla. Ma quando la vedo spuntare nei discorsi sulle relazioni
umane, mi viene un brivido. Perché lì la fallacia, più che subita,
viene invocata. Agitata come salvacondotto etico da chi vuole
andarsene senza sentirsi in colpa.
“Ho
già dato tanto a questa relazione, non voglio buttare via altri anni”. Frase
che suona fredda, razionale. Ma che razionale non è affatto.
Perché chi la pronuncia non sta facendo un bilancio costi-benefici: sta
cercando un modo elegante per dire che non ama più. E per farlo, usa
la fallacia come se fosse una formula etica. Come se la razionalità
potesse assolvere dalla responsabilità.
In
realtà, la decisione è già avvenuta altrove. Nel corpo. Nel cuore. In
quel punto imprecisato in cui si decide che non si vuole più restare. Ma
invece di assumersi la propria verità – “non ti amo più” – si preferisce indossare
il camice da contabile. Si apre il bilancio e si dichiara che il progetto
non è più sostenibile. Non perché non mi importa più, ma perché ho capito
che non conviene. Snocciolare la ragionevole lista delle entrate e delle
uscite, come un pizzicagnolo con la matita dietro l’orecchio, suona più
ragionevole, o almeno ci si convince che sia meno crudele.
Ed
è qui che si annida la fallacia della fallacia. Perché nelle relazioni
umane non esiste alcun modo oggettivo di stabilire cosa sia un costo
e cosa un guadagno. Una notte in piedi con un bambino con l’otite è un
debito o un investimento? E una sera in cui si ride insieme, quanto “vale”? E
chi stabilisce che cucinare, ascoltare i silenzi, restare anche quando si
vorrebbe scappare, siano costi o rendite?
La
verità è che non si sa. E non si può sapere. Si può solo scegliere se restare,
o no. Ma la scelta va presa con onestà. Altrimenti si scivola nella
strategia più subdola: attribuire la colpa all’altro. Dire che “non mi
hai dato ciò che mi serviva”, “non mi hai capito”, “non eri presente”. Si
riscrive il passato con l’evidenziatore selettivo, si scelgono gli
episodi che tornano comodi, si buttano via tutti gli altri. Si mette tutto in
colonna, si finge una contabilità. Ma è un teatro. Anzi, una supercazzola
affettiva.
Oppure
si opta per la versione alla Woody Allen. “Abbiamo fatto un pezzo di
strada insieme, ora cresciamo in direzioni diverse, ma ti vorrò sempre bene”.
Variante sofisticata e utile: perché consente di sganciarsi senza passare
per il cattivo. Così capita che quello lasciato debba pure innaffiare le
piante della casa dell’ex, in nome di una stima matura. Una stima
che ha smesso di comprendere la convivenza, ma continua a includere il
basilico.
E
invece bisognerebbe dirlo. Non per moralismo, ma per rispetto.
Perché se esiste un’etica dell’amore, consiste proprio in questo: non
giustificare una scelta, ma assumerla. E se non ami più, dillo.
Non servono scuse eleganti, né finti bilanci. Basta la verità. È l’unico
modo per lasciare senza imbrogliare. Né l’altro, né se stessi. Perché magari, una volta davvero fatti i conti con i propri sentimenti, ci si può anche rendere conto che il "non ti amo più" era solo un modo ulteriore per scappare dal proprio sé relazionale, in nome di un piccolo sé narcisista e fintamente autonomo.