L’antropologia culturale è una disciplina lenta, senza
particolari balzi fulminei, sedimenta le cose un poco alla volta. Niente,
credo, che possa equivalere al guizzo notturno del fisico teorico che vede la
soluzione di un lungo rovello in un flash. Lo dico molte volte, ai miei
studenti e alle mie studentesse, che l’antropologia è un lavoro di
consapevolezza infinito, non abbiamo il satori,
l’illuminazione che porta il cammino a compimento. Il nostro modo di ricercare
è più una fragile sequela di petardi che accennano uno scoppio umidiccio, non
abbiamo pistole fumanti da esporre ma solo il setaccio del cercatore di pepite,
che si contenta della pagliuzza, che può mettere in cima alle mille pagliuzze
dorate già raccolte con la pazienza di chi non teme la fatica. Veramente, se
devo pensare a una scienza sostanzialmente modesta nella sua vocazione
teorizzante questa è l’antropologia. Tanto quanto siamo bulimici nella scelta
dell’oggetto (possiamo fare antropologia veramente su tutto, anche sul
non-umano, conferma della nostra vocazione al paradosso) così siamo parchi di
teorie. Ogni tanto ci innamoriamo di qualche concetto (cultura, funzione, struttura,
corpo) ma sono solo coperte di Linus che raccontano il nostro costante sgomento
di fronte alle cose che, semplicemente, scopriamo senza avere mai la certezza
di cosa significhino.
Il LAPE del Fienile, nelle mie intenzioni, è nato per dare
spazio a questa dimensione di sgomento che non trova pace nel metodo, ma solo
nell’impastarsi con quel che dice di voler studiare. L’abbiamo fatto a
Torbellamonaca, il Laboratorio di Pratiche Etnografiche, perché quello è lo
spazio del polo culturale ex Fienile, ma forse non sarebbe potuto nascere da
nessun’altra parte di questa città (che scherzosamente e con la vecchia
passione antropologica per gli ossimori ormai ho battezzato “meravigliosa città
demmerda”) perché Torbellamonaca è insieme un luogo reale, uno spazio abitato
da più di 30mila persone e un luogo dello spirito, quasi dell’immaginario
nazionale, a questo punto. Come le Vele di Scampia, le Torri di Torbella sono
incubi che tutti si possono permettere a buon mercato, un giro nell’immaginario
dell’orrido, tenuto a distanza di sicurezza.
Per questo siamo a Torbella, perché studiare la città dove
la città ammette pubblicamente di aver fallito è un progetto perfettamente antropologico,
la rilevanza del marginale, cercare il tessuto sociale lì dove tutto ti dice
che c’è solo cancrena. E se proprio non lo trovi, non trovi né trama né ordito,
allora ti ci metti tu con i tuoi strumenti antropologici (meravigliosi e
demmerda, ça va sans dire) a intrecciare
qualcosa, a vedere che succede se parli con la signora del bar, se inviti
Mariagrazia della Cgil, se chiedi ai ragazzi di volantinare davanti al Pewex e
davanti ai palazzoni di largo Mengaroni, se ti inventi un nome assurdo
(Mortacci Nostra, che fa pure arricciare il naso a più di un collega a Tor Vergata) per celebrare un Halloween alternativo, che impasti il
ricordo con il bisogno, la storia e i frammenti di vita per vedere se ne esce
qualcosa che somigli almeno un poco alla parola “comunità”.
Avevo pensato da subito che Mortacci Nostra si sarebbe
dovuto fare con un falò, quando quest’estate ho cominciato ad abbozzare il
progetto. Il fuoco ha di suo la forza della sua natura, non devo stare a
spiegarlo. Ho rimandato all’ultimo l’organizzazione della cosa, ma il giorno
prima ho sentito Franko Salkanovic, del campo di Salone, che fa il giardiniere
e se ne intende, per sapere quanta legna sarebbe servita e per chiedergli di
seguire il fuoco per la serata.
Il 31 mattina, dopo che abbiamo portato Pietro Lofaro ad
aiutarci all’ultimo con l’allestimento (che posso dire di lui se non che è
letteralmente un mito, con la sua creatività esplosiva che cerca tutto il tempo
un canale dove riversarsi?) con Simone siamo andati a cercare la legna per il
falò serale. Ci siamo affacciati al piccolo parco incolto di fronte al Fienile,
diciamo che alberi a terra non sono una merce rara di questi tempi a Roma, e
qualcosa siamo riusciti a raccattare. C’era un tronco intero divelto dalla
pioggia che avrebbe forse fatto al caso nostro, ma era troppo grande e troppo
ingombrante, tanto che ci siamo dovuti accontentare di qualche ramo trascinato
a fatica fin dentro il giardino del Fienile e un po’ di fascine. Dopo una
telefonata, siamo andati in un centro di hobbistica in zona e siamo tornati con
sei cassette di faggio già tagliato. Ho pagato le cassette 6 euro l’una.
Quando è arrivato Franko, all’imbrunire, si è reso conto che
la legna probabilmente non sarebbe bastata e mentre stavo salendo in macchina
per tornare all’Università (avevo scordato nel mio studio Le nuvole e i soldi, il libro di Tiziano Scarpa da cui volevo
leggere alcune poesie a tema, una più bella dell’altra, come mi ha confermato
Daniele Casolino del Poetry Slam, che l’ha poi utilizzato per un responsorio
molto bello dentro il teatro del Fienile) l’ho visto in sella al suo motorino.
Gli ho chiesto dove stava andando e mi ha detto di essersi fatto un giro, e che
poco distante, su via di Torbellamonaca (a tre minuti di macchina dal Fienile)
era caduto un albero già morto e tutto secco, che avrebbe fatto perfettamente
al caso nostro. Con la mia macchina siamo andati lì, c’ero passato davanti due
volte quel giorno, ma non l’avevo visto, un tronco di più di sei metri, con
rami lunghi che si spezzavano come grissini facendo leva senza grande fatica, una
volta infilati nella biforcazione di un altro albero che invece era rimasto in
piedi, lì a fianco. Stavamo pulendo un pezzo di strada e ci stavamo procurando
senza spesa un falò meraviglioso, questo pensavo, ma un poco pensavo anche a
una poesia
di Billy Collins, in cui si parla di come l’illuminazione, sempre altrui,
sempre differita, si manifesti a volte nelle persone più umili.
Franko ha quattro figli, una moglie giovane e una forza d’animo
per me commovente. La vita al campo è proprio dura, è inutile infiorettare
aggettivi quando il più secco è anche il più vero. Non so se avete presente gli
zingari del campo di Salone, sgombrati dal Casilino 900 una decina d’anni fa e
ora raggrumati coi nuovi arrivi in una struttura vergognosa e fatiscente.
Forse un’idea però ce l’avete, una vostra idea degli
zingari, dico. Ma a quell’idea vorrei che aggiungeste due altre idee, queste
non sugli zingari, ma degli zingari di Salone. La prima è che
a loro, di venire a Torbellamonaca quando la 21 Luglio ha preso il Fienile, non
è che proprio gli andava. Che ci veniamo a fare, a Torbellamonaca? Dicevano. È un
quartiere pericoloso, pieno di gentaglia di cui non ci si può fidare. Che ne
sappiamo noi che cosa mai ci possono fare, i gagi lì a Torbella? E l’altra idea
invece me l’ha raccontata Nedziba, la moglie di Franko, mentre la
riaccompagnavo a casa (scusate, dovevo dire al campo; un campo non è una casa,
è un posto demmerda senza alcuna meraviglia). L’idea è un incubo, un incubo che
molte mamme rom fanno di frequente, e che proiettano nei vicoli fangosi del
campo, nel buio dove passano le pantegane e i carrelli rubati all’Eurospin. In
quest’incubo uomini bianchi, gagi mascherati, forse albanesi, entrano di sera
per portare via i bambini rom. Probabilmente li vogliono prendere per i
trapianti o dio sa cosa, ma c’è un giro di telefonate che le mamme rom si fanno,
quando il sole finisce, per controllare i bambini, per verificare che questo
incubo non diventi realtà.
Io ci sono cresciuto, con la storia che dovevo stare attento
agli zingari che rubavano i bambini, e mi ha sconvolto ritrovare questo
racconto dell’orrore riaffacciarsi dal campo di Salone, dove gli zingari non
vogliono venire a Torbellamonaca perché “che ne sappiamo noi di quel che voglio
quelli lì?”.
Il reciproco sospetto, ecco il cancro di questo quartiere,
di tutta Roma, di questo Paese, e la necessità di superarlo facendo cose,
raccogliendo legna che marcirebbe sporcando ancora di più questa meravigliosa
città demmerda; organizzando una festa che provava ad essere un rituale per
ricucire un poco le slabbrature del tessuto urbano; un progetto di ricerca che
non è ricerca ma non vuole essere neppure antropologia applicata, ma piuttosto
ricerca-azione. Un progetto, quello del Lape, come seme attivo del Fienile, in
cui la portata del conoscere si misura sul doppio asse del fare e del
condividere. Per me, le parole di Mariagrazia che esce commossa dalla visione
di Coco e che attorno al fuoco e dentro il teatro chiede la parola “perché non
ce la faccio” e deve condividere il suo dolore, sono un piccolo sintomo che la
strada è quella giusta, che il Fienile con il nostro lavoro può diventare il
primo Spazio Pubblico (di tutti) di Torbellamonaca, tutta ancora soffocata nell’antitesi
spaziale (insieme folle e capitalista) del “mio o di nessuno”.
E, vi dico la verità, le rivalità “interne” al Fienile mi procurano
un dolore fisico, perché sono articolate nella stessa logica in fin dei conti
privatistica (“è mio”) che ha massacrato l’edilizia popolare e cancellato gli
spazi pubblici dal vivibile. Dobbiamo recuperare lo spirito di servizio,
aprire, tutti insieme, le porte a questa idea che cerca di prendere il meglio
dell’Oratorio, del Centro sociale, della Casa del Popolo e della Public House.
Noi siamo il seme di un modo diverso di vivere lo spazio in questa città e soprattutto
in questo quartiere: o ci apriamo del tutto, come deve fare un seme, oppure ci
seccheremo come quella caccola di topo che torneremo ad essere se non
accettiamo che non ci sono divieti e non ci sono privilegi su chi può usare il
fienile se intende contribuire alla produzione di cittadinanza. Non ci
interessano gli alambicchi identitari, il “noi” che esiste solo se si
contrappone. Il Fienile sarà lo spazio dove il noi si scioglie nella rete intensificata
dei rapporti umani, oppure non sarà.