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mercoledì 25 marzo 2020

Cosa c’entra l’antropologia con il coronavirus

Nulla, è ovvio. Gli antropologi non sono epidemiologi, non sono medici, non sono biologi, non sono virologi e non devono parlare di prognosi, diagnosi, terapie, diffusione e contagio in questo senso medico e bionaturale.

Visto che però molti hanno letto i miei ultimi post su questo tema, e che i commenti, le critiche e le annotazioni sono state veramente tantissime, provo a riassumere alcuni punti, soprattutto per ringraziare tutte e tutti per l’attenzione che hanno dimostrato per quel che ho condiviso.

1. Stare a casa è una buona cosa. Anzi, è un’ottima cosa. Ma non è l’unica cosa da fare e se l’attenzione si concentra sullo stare dentro casa il più possibile a discapito di come si sta quando non si sta a casa, rischiamo di fare danni da trascuratezza o da inconsapevole avventatezza. Non sono l’unico, credo, che ha raccolto storie di persone fermate da pattuglie a piedi che senza mascherine fanno ramanzine e fanno compilare i moduli a stretto contatto di gomito chinandosi a pochi centimetri dalla faccia dei passeggianti mentre fanno il loro pistolotto del “restate a casa”. Non sono l’unico ad aver fatto file chilometriche con tante, tante persone. Non sono l’unico che ha visto gente insultare dai balconi i passanti, solo perché erano passanti. Non è questo un buon modo di affrontare la questione, se l’obiettivo è rallentare l’espandersi del virus.

2. Se “restare a casa” diventa un fine in sé e non un mezzo tra i tanti (anche tra i principali, ma non deve essere l’unico) per abbattere i rischi del contagio, a me, come antropologo, si accende la lampadina rossa: allarme simbolico, allarme simbolico. Come italiano non posso non pensare allo spazio della casa come spazio simbolico della famiglia (istituzione fondamentale e molto fantasticata, molto, in questi anni di sua riconfigurazione strutturale) e penso che in Corea del Sud la situazione dei contagi è assai diversa dal caso italiano anche per questo.

3. Cioè, un conto è considerare lo spazio come un piano cartesiano fratturato tra spazi sicuri (la casa) e spazi pericolosi (la strada) a prescindere, come si è fatto prevalentemente in Italia, e un conto assai diverso è considerare lo spazio come costruito fisicamente da una raggiera che si diparte da ogni singolo individuo infetto, per poi da lì (da ogni caso singolo) ricostruire lo spazio come sistema relazionale interindividuale di distanze relative, da mappare punto a punto, come ha fatto invece la Corea del Sud applicando una diagnosi sistematica dell’intorno sociale dei casi via via scoperti, e procedendo a testare e semmai isolare tutti coloro che sono entrati in quell’intorno. L’effetto sulla capacità di contenimento è evidente: in Corea il tempo di raddoppio del contagio è stato fin da subito due settimane, pur senza chiudere tutti gli spazi pubblici, in Italia solo ora comincia a decrescere verso i tre giorni.

4. L’antropologia culturale dice, (semplicemente o complicatamente, dipende), che non c’è nessuna ragione oggettiva o utilitaristica per misurare lo spazio come hanno fatto gli italiani (posti dentro/posti fuori) o come hanno fatto i coreani (punti vicini/punti lontani) ma che sono le culture a scegliere questa concezione dello spazio, con le conseguenze che vediamo in termini di tenuta sociale e dei rispettivi sistemi sanitari. Va benissimo, gli italiani amano le loro famiglie, i governanti sono convinti che la reclusione familiare sia la strategia migliore, ma come cittadino non posso far notare che ci sono strategie alternative, che sembrano funzionare meglio.

5. Il rilievo che “quelli sono asiatici” e per loro è “naturale” sentirsi come individui interconnessi direttamente al sociale e quindi sono più inclini a seguire le regole e meno preoccupati della loro singola privacy, non ha alcun valore, proprio perché da antropologo so benissimo che le culture non sono blocchi compatti immutabili e per necessità o per inerzia possono cambiare anche in tempi brevi. Meno di cinquant’anni fa si fumava nei cinema, e fino a quindici anni fa si fumava nei ristoranti. Oggi gli sparuti fumatori rimasti (una minoranza che già può vociferare la soppressione dei suoi diritti di base, fin quando non si estinguerà) proverebbero imbarazzo se qualcuno gli offrisse una sigaretta al ristorante, o in vaporetto, come mi capitava da ragazzo a Venezia. E se a Napoli quasi il 70 percento degli automobilisti ora usa le cinture di sicurezza in auto, a me pare la prova inconfutabile che le culture possono cambiare, e cambiano anche in fretta se necessario.

6. Ma, in fondo, io intendevo tutt’altro, quando ho cominciato ad assumermi sta rogna di parlare pubblicamente, da antropologo, del coronavirus. C’è stato anni fa un lungo dibattito (in parte ancora in corso, pur se sopito), dentro la mia disciplina, se dovesse prevalere un’epistemologia “indiziaria” (studiamo indizi = come Sherlock Holmes l’antropologia delimiterebbe le circostanze delle cause del Reale) oppure un’epistemologia “interpretativa” (studiamo sintomi = come Sigmund Freud l’antropologia cercherebbe i segni del significato sociale del Reale). È noto che parteggio da un quarto di secolo per gli interpretativisti, ma questo poco importa gli esterni al dibattito. Più importante è rimarcare un’altra cosa: io credo che l’antropologia sia, sempre nella mia visione, soprattutto una disciplina essoterica, vale a dire condannata a una dimensione pubblica di servizio. Siamo volpi, non ricci ci ha insegnato Isaiah Berlin, il che non significa solo che andiamo in giro a rubacchiare qui e lì idee e letture, ma che quel che comprendiamo va fatto circolare rapidamente, pena il suo insterilirsi nella muffa delle culture defunte. Se non impariamo a occupare una porzione significativa del senso comune, se non sappiamo portare nella sfera pubblica le nostre competenze sul rito, la morte, il pericolo, la purezza, l’amicizia, il nemico, il capro espiatorio, il dovere, la libertà individuale, il potere e mille altri segni che schizzano dai rostri del coronavirus mutando senso e creando scompiglio morale oltre che fisico, io dico che il nostro sapere, per quanto ci sia caro, conta ben poco. C’è gente che soffre, che è confusa, che è angustiata oltre ogni limite. Abbiamo o non abbiamo gli strumenti per dare una mano alle nostre comunità ferite? Se ce li abbiamo, cosa aspettiamo a condividerli con chi ne ha bisogno ora? Vogliamo fare come i banchieri tedeschi nel 2008, che tennero chiusa la borsa quando più c’era bisogno di far circolare ricchezza in Europa? Se invece non abbiamo alcuno strumento conoscitivo, perché continuiamo ancora a considerarci scienziati e studiosi, e non accettiamo il fatto (tristissimo per me) che siamo solo piccoli dilettanti del narcisismo distintivo?