2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

mercoledì 18 giugno 2025

GIORNATA MONDIALE DEL RIFUGIATO

 


Venerdì 20 giugno mi trovate al Campo Sportivo XXV Aprile, dove i fantastici amici di Liberi Nantes organizzano un bel pomeriggio per la Giornata Mondiale del Rifugiato. Li conosco da tanti anni – siamo praticamente vicini di casa – e ogni volta che passo davanti al loro campo mi ricordo che accoglienza e dignità possono anche avere il rumore allegro di un pallone e l’ostinazione di chi gioca, anche quando la terra è dura e la linea del fallo laterale te la devi un po’ immaginare.

Verso le 20:15 toccherà a me dire due cose su popoli, confini e identità. Parole importanti, certo… ma cercheremo di maneggiarle con cura e un po’ di ironia, provando insieme a darne definizioni oneste, senza dogmi e senza paura delle sfumature.

Alla fine c'è anche da mangiare, e si sa che, tra un boccone e una chiacchiera, ci si capisce sempre meglio.

 


martedì 17 giugno 2025

L’Edipo culturale

C’è un’intera generazione – o forse meglio: una intera postura culturale trasversale alle generazioni – che ha deciso che il Potere è un padre cattivo. E come ogni padre cattivo, va abbattuto. Ma non con la lotta politica, l’azione organizzata, la mediazione istituzionale. No: va castrato simbolicamente, delegittimato con hashtag, svuotato di ogni aura di legittimità e trattato come mostro onirico. Il Capitale. Lo Stato. Il Patriarcato. L’Impero. L’Occidente. Israele. L’Uomo Bianco. È l’intero catalogo edipico del presente – una teoria delle proiezioni morali che scambia il trauma per analisi, l’infanzia per prassi rivoluzionaria, la litania per scienza sociale.

Si tratta, in fondo, di un ritorno del rimosso in forma di meme: ogni forma di autorità viene erotizzata, psicologizzata, proiettata come figura del Male Assoluto. Non ha più importanza cosa fa lo Stato di Israele, importa che è lo Stato di Israele: basta questo per attivare il riflesso condizionato della condanna. Che poi nel frattempo si finisca per sostenere il regime teocratico e misogino degli ayatollah iraniani – quello sì, letteralmente patriarcale – pazienza. Il principio edipico esige fedeltà alla struttura, non alla realtà.

Questa saldatura simbolica tra il wokismo post-identitario, l’anticapitalismo post-marxista e l’antisionismo militante si tiene tutta su un presupposto freudiano inespresso: l’autorità è colpevole perché è autorità. E ogni volta che l’autorità reagisce – per esempio se Israele risponde a un attacco armato – il riflesso è lo stesso: “Ma come osa?”. È come se il padre della psicanalisi si fosse reincarnato in forma di algoritmo moralizzante, pronto a punire ogni tentativo di esercizio del potere da parte di chi è già stato classificato come oppressore. Poco importa se l’altro sia apertamente genocidario: nel teatro edipico globale, conta solo chi sembra più potente, non chi fa cosa.

E infatti si arriva presto all’asilo geopolitico (inteso come scuola materna), dove gli adulti non parlano più tra loro, ma si scrivono cartelli da manifestazione. From the river to the sea non è più un programma politico: è una nenia. Il boicottaggio accademico di Israele non è un’azione strategica: è una purga simbolica, un “papà cattivo vai via” scritto con il pennarello rosso sulle pareti dell’ONU. E quando Israele bombarda un sito nucleare iraniano, non si cerca di capire se fosse una minaccia reale, ma ci si rannicchia subito sul tappetino delle emozioni per dire: “Non si fa, non si alza la voce contro gli altri bambini!”

Ma gli altri bambini in questione sono ayatollah che impiccano gli omosessuali. Regimi che rinchiudono le donne se si tolgono il velo. Stati dove la stampa libera è un ossimoro e la teologia è legge. Tuttavia, nel mondo dell’Edipo culturale, l’elemento centrale non è la realtà, bensì il ruolo simbolico. E se sei maschio, bianco, occidentale, democratico – peggio ancora, se sei uno Stato-nazione moderno – sei già colpevole. L’innocenza è una funzione delle manette: chi è incapace di esercitare potere è buono per definizione.

Così l’antisionismo militante diventa il parco giochi prediletto di una generazione che ha sostituito la prassi politica con il ressentiment moralista. Si scende in piazza non per affermare diritti, ma per sentirsi nel giusto. Non si argomenta più: si sventola un trauma, e lo si fa brillare come un santino. La messa in scena è tutto. E se l’Occidente dovesse cadere, pazienza – meglio distruggere la casa del padre che fare i conti con la sua eredità.

Ma come sempre, la tragedia edipica ha un epilogo: una volta ucciso il padre, il figlio scopre che non c’è nulla da ereditare, tranne i suoi debiti. E quando la realtà bussa alla porta – con gli eserciti veri, le guerre vere, i muri veri – il bambino non può che rimettersi a piangere, cercando un altro colpevole, un altro padre da detronizzare, un altro sogno da rovinare.

D’altronde – lo ricordava Walter Benjaminogni documento di cultura è anche un documento di barbarie. Solo che oggi la barbarie si scrive con i pennarelli colorati, ma sempre sullo stesso muro.

 

lunedì 16 giugno 2025

Chi mette il campanellino al gatto? Sull’importanza di sapere quel che si dice

Victor Davis Hanson non è un intellettuale facile da inquadrare, soprattutto per chi è abituato alle coordinate europee. Storico militare di formazione classica, editorialista conservatore, coltivatore di uva passa, Hanson è una figura ibrida che si muove con disinvoltura tra Tucidide e le elezioni presidenziali americane, tra Omero e i droni sopra il Golfo Persico. Lo seguo sempre con attenzione – anche quando non ne condivido le conclusioni – perché ha una qualità rara: sa di cosa parla.

Che cosa significa “sapere di cosa si parla”? Significa avere competenze adeguate. E questo non è affatto scontato, in un’epoca in cui le opinioni si moltiplicano più velocemente delle analisi, e le emozioni si sostituiscono volentieri alle deduzioni. Hanson, invece, è uno che deduce. E qualche volta, come accade nel testo da cui prendo spunto, deduce con precisione quasi profetica, ma non perché sia ispirato da visioni apocalittiche, bensì perché osserva, collega, conclude.

Nel suo commento del 24 febbraio scorso, Hanson analizzava con freddezza – e una certa urgenza – il rischio che l’Iran entri nel club delle potenze nucleari. La stima che circolava era netta: un mese di tempo, forse meno, se Teheran decide di spingere sull’arricchimento dell’uranio. Gli equilibri regionali ne sarebbero sconvolti. Eppure, nessuno agisce davvero. Qui entra in gioco la sua metafora: quella della favola di Esopo sull’assemblea dei topi. Tutti d’accordo che bisogna mettere il campanello al collo del gatto, ma chi si prende la responsabilità di farlo?


Hanson nota che mentre l’Iran è tecnicamente isolato – economia in crisi, blackout, alleati regionali fiaccati o sconfitti – nessuno sembra disposto ad approfittare della situazione. Né gli europei, né i cinesi, né i russi, né gli americani. E ovviamente neppure Israele, che però è il soggetto più direttamente minacciato. L’Iran, sostiene Hanson, è al tempo stesso pericoloso e vulnerabile: il momento per un intervento preventivo, se mai ci sarà, è adesso. Domani potrebbe essere troppo tardi. Soprattutto se, come lui stesso sostiene, la bomba Teheran è giusto a un passo dall’averla disponibile.

L’elemento interessante non è solo la lucidità dell’analisi geopolitica, ma il fatto che Hanson pensa a scenari reali, con opzioni praticabili. Due quelle principali:

1.   Massima pressione economica, fino a un eventuale blocco navale;

2.   Intervento militare preventivo, con il supporto degli Stati Uniti, che dovrebbero però dichiarare sin da subito: “Se colpite, noi vi copriamo”.

È una posizione che si può condividere o contestare, ma non si può ignorare. Perché si fonda su un principio che andrebbe ricordato sempre: non si può analizzare il mondo con strumenti retorici, con gli slogan da talk show o con l’autosuggestione identitaria. Serve competenza. Serve conoscenza dei dossier, dei precedenti storici, degli equilibri strategici, dei dati tecnici. E magari anche un po’ di latino e agronomia, perché la mente si forma anche zappando e leggendo Cicerone.

In un’epoca in cui si confonde l’attivismo con l’analisi e la morale con la strategia, gente come Victor Davis Hanson può non piacere, ma serve. Serve perché ci ricorda che per dire cose serie bisogna sapere cose serie. E che a forza di prendere le distanze dai “profeti di sventura” finisce che ignoriamo anche quelli che – con metodo e non con isteria – ci mostrano un pericolo reale.

Non è detto che abbiano sempre ragione. Ma è certo che sbagliare dopo averli letti è diverso dallo sbagliare perché li si è ignorati. E la differenza sta tutta lì: nelle competenze.

Chi mette il campanellino al gatto? Magari nessuno. Ma intanto ascoltiamo almeno quelli che conoscono i gatti, i topi, e anche le dinamiche delle assemblee.

giovedì 5 giugno 2025

Tutti in vacanza nei campi di cotone

 


In un saggio che – salvo imprevisti in peer review – dovrebbe uscire tra qualche mese su una rivista di antropologia, lo dico chiaramente: nel codice etico che si è imposto nell'accademia, il “popolo” è sempre nel giusto (perché oppresso), lo “Stato” sempre dalla parte del torto (perché esercita il potere). Se poi quello Stato è occidentale, liberale, bianco, magari persino democratico, allora è colpevole prima ancora di aver agito. In questo schema, Israele è sempre Stato, e quindi sempre colpevole. I palestinesi, invece, sono sempre popolo, e quindi sempre nel giusto.

Non è questione di geopolitica, è questione di logica simbolica. Perché mentre Israele è visto come un soggetto saturo, ipermoderno, insidiosamente simile a “noi”, la Cina – per quanto potente e invasiva – resta simbolicamente altra, distante, opaca, esotica. E quindi non mobilita indignazione, nonostante detenga, nel solo Xinjiang, almeno un milione di persone in strutture di detenzione con accuse documentate di sterilizzazioni forzate, sorveglianza biometrica e rieducazione culturale.

Giulia Pompili, sul Foglio, ha scritto il 4 giugno un pezzo perfetto per raccontare come la Cina stia vincendo non solo sul piano economico, ma anche su quello narrativo. Nessuno parla più del genocidio uiguro, nessuno protesta per le “vacanze forzate” con cui Pechino silenzia i dissidenti durante le commemorazioni sensibili, nessuno chiede il boicottaggio delle università cinesi che collaborano apertamente con l’industria della sorveglianza di Stato. Tutti zitti. Troppo grande, troppo lontana, troppo poco occidentale per scandalizzare i nostri paladini della giustizia.

Contro Israele, invece, si organizzano seminari, toolkit, scioperi della fame e lettere collettive. Si parla di apartheid, si invocano le sanzioni. A volte si arriva a negare perfino che esista un “popolo israeliano”, pur di non dover riconoscere che anche tra gli ebrei ci sono civili, vittime, storie, vite. Tutto viene assorbito dallo Stato, che diventa un’unica entità astratta da colpire con zelo moralistico. A Gaza, invece, ogni combattente armato è anche, prima di tutto, parte del popolo. E quindi, per definizione, dalla parte giusta.

È questo il doppio standard che analizzo nel mio articolo: un popolo vale quando l’oppressore ha la nostra faccia. Altrimenti no. E infatti, chi oggi firma petizioni per Gaza, tace sullo Xinjiang. Chi chiede il boicottaggio degli atenei israeliani, stipula accordi con i politecnici cinesi che collaborano con il ministero della difesa. Chi invoca la morale, seleziona accuratamente i destinatari. Perché nella nuova etica selettiva, la giustizia non è un principio universale, ma una leva per posizionarsi simbolicamente nel mercato globale della virtù.

Sta vincendo la Cina. Non solo perché cresce, ma perché si mimetizza. Ha trasformato i campi di rieducazione in mete turistiche, ha spento la memoria di Tiananmen, ha ridotto al silenzio ogni voce dissidente. E noi, nel frattempo, tutti indignati con Israele, tutti convinti che lì – e solo lì – si giochi la partita decisiva del Bene contro il Male. Lì, e non altrove.

Questa estate, lo dice Pompili, cinque milioni di persone visiteranno lo Xinjiang. È la nuova frontiera del turismo esperienziale. Magari qualcuno tornerà a casa con un foulard uiguro e il cuore leggero. Tutti in vacanza nei campi di cotone. Ma con coscienza etica. Purché non si parli ebraico.

mercoledì 4 giugno 2025

Il potere siamo noi (ma non ditelo ai teorici della lotta)

 


Durante uno degli ultimi esami, mentre correggevo i compiti in una sessione già abbastanza rognosa, ho chiesto a uno studente – preparato, per carità, ha preso 28 – chi fossero i responsabili dei bombardamenti a Gaza. Stavamo parlando di nazionalismo, il tema c’entrava. Il ragazzo ci pensa un attimo, poi sussurra: “Iran?” Alla mia faccia perplessa, ha subito reagito con grande sicurezza morale: “Io ho comunque un'opinione molto chiara: i palestinesi si battono per la loro libertà, Israele sta commettendo un genocidio.”

Ora, può darsi che l'agitazione dell’esame abbia fatto effetto. Ma a me è venuta in mente una scenetta su Facebook dell’anno scorso: una signora – laureata e insegnante, ci teneva a specificarlo – mi contattò perché, in quanto antropologo e persona "dalla faccia giusta", avrei dovuto per forza sottoscrivere la sua indignazione contro quei nazisti dei sionisti. Bastarono tre domande (non retoriche) perché svanisse nel silenzio digitale.

Mi colpisce sempre di più quanto il senso comune sia fatto di piccoli prestiti ideologici messi insieme come un outfit da Zara: l’importante è che non stoni troppo nella bolla dove ci si muove. Se sei nella bolla giusta, il potere è sempre dall'altra parte. E tu, ovviamente, sei l’oppressə.

Ora, qui entra in scena il povero Foucault. Che povero non è, certo, ma maltrattato sì. Il suo pensiero – sottile, radicale, pieno di paradossi – viene oggi ridotto a una pantomima militante in cui il potere è diventato un'entità maligna, una specie di Sauron invisibile incarnato in comode figurine da esorcizzare: il Capitalismo, il Patriarcato, lo Stato, il Neoliberismo. Non si analizzano, si denunciano. Non si pensano, si accusano. Come se la realtà fosse un film Marvel e bastasse individuare il supercattivo per stare dalla parte dei buoni.

Ma Foucault diceva altro. Diceva che il potere non piove dall’alto: si infiltra, si distribuisce, si moltiplica. Non è un cappio, è un tessuto. Non è un ordine, è un desiderio.

E infatti la ricerca empirica – quella roba noiosa che i meme non leggono – ci racconta che il potere più forte non è quello che comanda, ma quello che conforma. Uno studio di Tennie, Call e Tomasello (2009) ci ricorda che noi umani non siamo tanto “animali politici” quanto animali conformisti. Fin da bambini non solo imitiamo gli altri, ma ci indigniamo se qualcuno esce dal copione. Protestiamo contro la deviazione anche quando è più efficace. Perché? Perché non è quella giusta. E "giusta" vuol dire: quella che fanno gli altri. Non quella che ha senso, non quella che funziona, ma quella che conferma l’appartenenza.

Il potere, insomma, non è nei comandi. È nel bisogno di essere dentro. Di non stonare. Di non sembrare fuori moda, fuori sincrono, fuori contesto. Il conformismo non è una gabbia imposta: è un desiderio condiviso. È la nostra brama di essere accettati, accolti, riconosciuti. E quindi: imitati.

Ecco allora che il controllo non arriva più dal re o dal colonnello, ma dal gruppo Whatsapp. Dal profilo Instagram. Dalla compagna di scuola che ti corregge il linguaggio. Il potere diventa diffuso, impersonale, eppure implacabile: ti dice cosa pensare senza mai parlare. E quando parla, è con la voce della tua cerchia. Della tua bolla. Della tua comfort zone ideologica.

Questo spiega perché Israele, che non è affatto il centro dell’universo morale ma nemmeno il Male assoluto, oggi perda la battaglia che conta davvero: quella dell’immaginario. Non perché esista un complotto. Ma perché, in questo gioco di conformismo moralmente prêt-à-porter, il frame è già cucito. E Israele non veste bene. Troppo complicato, troppo divisivo, troppo fuori taglia.

Alla fine, ciò che chiamiamo “opinione” è spesso solo una postura conformista con pretese morali. Una giacca ben stirata, un look coerente, un outfit intellettuale da indossare con disinvoltura. La domanda su chi stia bombardando Gaza può essere un vuoto informativo. Ma l’opinione morale dev’essere netta. E deve stare bene addosso, come una giacca Armani della collezione indignazione primavera/estate.

Forse è il momento di ricordare che il potere non ci schiaccia solo dall’alto. A volte, ci avvolge in un abbraccio di gruppo. E ci piace pure.

Qui potete leggere l’articolo originale:

Tennie, Claudio, Josep Call, e Michael Tomasello. 2009. «Ratcheting up the Ratchet: On the Evolution of Cumulative Culture». Philosophical Transactions of the Royal Society B: Biological Sciences 364 (1528): 2405–15. https://doi.org/10.1098/rstb.2009.0052.

 

domenica 1 giugno 2025

Sofri e il genocidio (spiegato bene)

 Leggo Adriano Sofri da molti anni, con ammirazione e rispetto. Quando uscì il mio primo libro (Vite di confine), gli feci avere una copia proprio perché lo aprivo con un esergo tratto da un suo scritto – credo fosse Il nodo e il chiodo. Ma soprattutto, sentivo una consonanza profonda tra il suo modo civile e intelligente di raccontare il cambiamento personale e il mio tentativo di riflettere sulle identità collettive nei Balcani, sballottate da pressioni politiche così violente da costringerle a trasformarsi in ciò che chiamai (con un neologismo rimasto deserto) diaforentità.

Ho spesso condiviso le sue posizioni politiche, anche quando controcorrente: sulla ex Jugoslavia, su Marco Travaglio, su Putin e l’Ucraina, perfino su Mani Pulite. Non sempre ero d’accordo, ma sempre trovavo in Sofri una postura intellettuale solida, dialogica, profondamente democratica nel senso più alto del termine.

Sulla crisi israelo-palestinese mi sentivo, e forse mi sento ancora, più esitante. Anche per via di un mio sionismo ormai piuttosto esplicito. E poi, negli ultimi anni, ho letto Sofri meno di quanto avrei voluto. Un motivo – lo dico con affetto – è il Sofrismo, quella sua prosa a volte barocca, con periodi lunghi, subordinate incrociate, e un ritmo che mal si adatta alla lettura rapida su un bus o una metro, cioè dove io leggo i giornali.

A un certo punto ho anche accarezzato l’idea (naturalmente ingenerosa e priva di fondamento) che Il Post, il giornale fondato e a lungo diretto da suo figlio Luca, sia stato pensato come reazione edipica alla scrittura paterna: “un giornale spiegato bene”, in risposta a un padre “che spiegava benissimo ma con fatica”. In realtà, più recentemente mi sono convinto del contrario: Luca Sofri ha un talento chiarissimo nel pensiero, ma anche lui – sebbene in modo molto diverso – ama un’esposizione complessa, quasi opaca per eccesso di chiarezza, se così si può dire.

Tutta questa premessa per dire che ho letto, riletto e faticato l’ultimo articolo di Adriano Sofri su Gaza, uscito sul Foglio e ripreso anche su Facebook. Un pezzo, permettetemi, bellissimo e bruttissimo. Bellissimo perché tenta, con rara onestà intellettuale, di affrontare una questione devastante come quella di Gaza con tutta la cautela morale che richiede. Bruttissimo perché, temo, molti dei suoi lettori non arriveranno nemmeno in fondo. Non per colpa loro, ma per una forma stilistica che in questo caso non aiuta. Troppe curve, troppi incisi, troppe parole, pur se così vere, così necessarie.

Ho allora chiesto a ChatGPT di fare un esperimento: riscrivere il testo per dei ragazzi di prima superiore. Ed è venuta fuori questa versione. Mi pare riuscita. Leggetela come una parafrasi, non come un tradimento. E, quanto ai contenuti, non voglio parlarne qui, se non per dire una cosa: un articolo così, parola per parola, vorrei averlo scritto io.

 


Perché faccio fatica a usare la parola "genocidio" per descrivere quello che sta succedendo a Gaza

(versione semplificata da ChatGPT)

Anna Foa, una storica, ha detto su un giornale che non ha mai usato la parola genocidio per Gaza, ma che quello che succede lì “ci si avvicina molto”. In effetti, anche io, se vedessi un altro Paese comportarsi come si sta comportando Israele dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, forse direi che è un genocidio. Ma nel caso di Israele non lo faccio. Perché? È proprio questo il punto su cui voglio riflettere.

Alcuni, come Paolo Mieli, pensano che dire genocidio sia sbagliato perché ricorda subito la Shoah (cioè lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti). Ma non è proprio così. La parola genocidio è stata inventata per descrivere altri eventi terribili, come quello degli armeni nel 1915, che fu anche un “modello” per Hitler. E ci sono stati altri genocidi riconosciuti ufficialmente: a Srebrenica, in Ruanda, in Cambogia

Quindi usare quella parola non significa per forza paragonare Israele ai nazisti. Però c’è chi lo fa, magari con odio verso gli ebrei, e dice: “Guardate, ora sono loro i carnefici”. Questo atteggiamento è sbagliato.

Per essere considerato un genocidio, non serve che ci sia un piano per uccidere tutti i membri di un popolo. Basta anche voler cancellare una cultura, spostare forzatamente una popolazione, o sostituirla. Per esempio, la Cina lo sta facendo in Tibet.

A Gaza i civili morti sono tantissimi, e anche se fossero la metà di quelli che dice Hamas, sono comunque troppi. In più, ci sono dichiarazioni molto dure da parte di politici israeliani (e anche di Donald Trump) che parlano chiaramente di cacciare via la popolazione palestinese. Ci sono anche casi di fame imposta, di violenze. Tutto questo basta per farci porre la domanda: è un genocidio?

Perché allora io continuo a non usare quella parola? Non perché ho paura di sembrare antisemita. Anzi, mi farebbe soffrire sapere che un solo ragazzo o ragazza oggi non prova disgusto per quello che succede ai palestinesi di Gaza. Il problema è che la parola genocidio ormai è diventata una specie di etichetta definitiva, un’arma nel dibattito pubblico. Chi la usa viene visto come “contro Israele”, chi non la usa come “a favore di Israele”. Questo crea divisioni anche tra persone che, in teoria, sono dalla stessa parte.

E poi c’è un’altra cosa: molti che da sempre sono pro-palestinesi non vogliono condividere la loro battaglia con chi si è “aggiunto” solo adesso. È un po’ come tra adolescenti gelosi: “Vuoi stare con noi? Allora prima di tutto devi dire che è genocidio!”.

Un altro motivo (più serio) è questo: chi critica Israele spesso non pensa a cosa succederebbe se Israele sparisse. Se i suoi nemici più radicali avessero davvero in mano il potere, lo userebbero con altrettanta o forse più crudeltà. Molti non vedono la violenza e la brutalità anche dall’altra parte, quella di Hamas o di Hezbollah.

E poi c’è il rischio di dire: “I civili di Gaza sono colpevoli perché sostengono Hamas”, come se i civili israeliani fossero colpevoli solo perché votano Netanyahu. Ma non è così. Molti degli israeliani uccisi il 7 ottobre erano persone pacifiche.

Infine, c’è una differenza molto importante rispetto ad altri genocidi della storia. Nei genocidi “classici” (come in Ruanda, Armenia o Cambogia), non c’era nessuno all’interno del Paese che protestava apertamente contro ciò che stava accadendo. Nessun giornale, nessun politico, nessun cittadino poteva farlo. Invece in Israele ci sono persone che si oppongono con forza alla guerra e ai crimini contro i palestinesi. Ci sono manifestazioni, articoli, dibattiti. Questo fa una grande differenza.

Per concludere: ho ancora due motivi per non usare la parola genocidio. Il primo è un po’ furbesco: se diciamo genocidio per Gaza, dobbiamo forse rivedere tutti i casi in cui l’abbiamo già usata, forse in modo troppo facile. Il secondo è più serio: in Israele c’è una parte della società che resiste, che si oppone, che protesta. Questo, secondo me, è un segno importante, e un motivo per non buttare tutto in un solo giudizio definitivo.

mercoledì 28 maggio 2025

Storie di treni e giocattoli


🚂🧸 Sabato 31 maggio vi invitiamo a vivere una giornata ricca di storie, giochi e scoperte, all’interno della terza edizione del Museumgrandtour, il progetto del Sistema Museale Territoriale dei Castelli Romani e Prenestini dedicato alla valorizzazione del nostro patrimonio culturale.

📍Mattina a San Cesareo:
Alle ore 11:00 e 12:00, partendo da Via Casilina 17 (km 25+500), verrete accompagnati in una visita tematica “Dalla stazione al museo: in viaggio da 109 anni”, alla scoperta del fascino perduto delle rotaie e del mondo dei treni in miniatura, presso il Museo della Stazione di Colonna.

📍Pomeriggio a Zagarolo:
Alle 16:00 visita guidata al Museo del Giocattolo, e alle 16:45 la lezione itinerante nel centro storico “Giocare è una cosa seria”, con il sostegno imprescindibile di Alessandro D'Ambrosi, esperto di cultura e storia locale. Al termine, un momento conviviale per condividere insieme l’esperienza.

🎯 Due appuntamenti, un solo grande viaggio tra memoria, gioco e paesaggio urbano.

📩 Prenotazione obbligatoria: info@museumgrandtour.org
💛 Vi aspettiamo numerosi, sarà un piacere camminare con voi tra binari, giocattoli e storie!

#Museumgrandtour #MuseoDelGiocattolo #MuseoDellaStazione #SanCesareo #Zagarolo #GiocareÈUnaCosaSeria #CastelliRomani #MuseiInRete

venerdì 23 maggio 2025

Nuovo antisemitismo? No, è solo il vecchio odio per lo Stato

Non se ne può più. Davvero. Ogni volta che si muove una critica a Israele – ogni singola volta – qualcuno salta su a gridare “antisemita!”. Ma si può ancora dire qualcosa su Gaza, sull’occupazione, sui bombardamenti, sui coloni, senza essere schedati come nuovi nazisti? È mai possibile che chiunque dica “Free Palestine” venga messo sullo stesso piano di un negazionista? Davvero?

Calma. Rilassiamoci. Respiriamo. Perché, forse, la questione è un po’ più complicata.

«Lo Stato è male. Israele è uno Stato. Quindi Israele è il Male». Questo è il sillogismo morale di una nuova religione politica: l’antistatalismo radicale. E come ogni religione, produce i suoi martiri, e i suoi carnefici.

Negli ambienti intellettuali che si autodefiniscono “critici”, c’è una parola che da tempo fa paura più di altre: Stato. Non capitalismo, non patriarcato, non oppressione ma Stato. Lo Stato è divenuto il bersaglio privilegiato di un’intera generazione accademica, militante e mediatica. Non perché produca diseguaglianze (che lo fa), né perché eserciti violenza (che accade), ma perché incarna – nella sua forma più limpida – l’idea di ordine normativo legittimato, impersonale e universale. In altre parole, perché ricorda che esiste un potere che non si fonda né sul sangue, né sulla razza, né sul clan, ma sulla legge. Questa forma di potere fa orrore a chi sogna una società senza centro, senza gerarchie, senza confini, senza responsabilità ma anche, si noti bene, senza diritti che non siano semplici rivendicazioni identitarie.

Dopo l’assassinio a Washington di due giovani ebrei, Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim, da parte di Elias Rodriguez – attivista di sinistra, istruito, militante pro-Palestina – i commenti si sono divisi. Non tra chi condanna e chi giustifica, ma tra chi vede l’antisemitismo e chi lo nega in nome dell’antisionismo. Diversi editoriali odierni descrivono con precisione questo fenomeno: l’omicidio ritualizzato dell’ebreo divenuto diplomatico dello Stato. Non è più l’ebreo come tale ad essere odiato – un sentimento fuori moda, signora mia – ma l’ebreo funzionario, l’ebreo che incarna lo Stato, l’ebreo che lavora per Israele.

La vittima non è più vittima. È colpevole due volte: per la sua identità e per la sua lealtà istituzionale. È il sionista, non l’ebreo. Ma “sionista”, oggi, è semplicemente un’altra parola per dire: colui che crede nello Stato come forma di convivenza organizzata, come argine alla barbarie, come progetto comune.

Da qualche decennio, nelle scienze sociali, serpeggia una corrente potente: lo Stato è il Male. Non lo Stato autoritario, lo Stato illiberale, lo Stato teocratico. No: lo Stato in quanto tale. L’idea stessa di potere sovrano, di autorità normativa, di confine, di gerarchia, di cittadinanza. Una fobia che, più che con Marx o Weber, ha a che fare con Agamben, con il suo delirio sul campo di concentramento come paradigma ultimo della modernità (sì, lo stesso Agamben che durante il Covid sosteneva che il Green Pass fosse come il tatuaggio ad Auschwitz. È caduto in disgrazia, e meno male).

In questa cornice, lo Stato moderno diventa intrinsecamente sospetto: meccanismo di esclusione, macchina di violenza, struttura oppressiva. Il liberalismo? Una maschera per nascondere il dominio. Il diritto? Uno strumento per normalizzare la devianza. La democrazia? Una pantomima tecnocratica.

In questo clima, Israele appare come l’epitome dello Stato inaccettabile:

  • è armato quindi violento;
  • è occidentale quindi coloniale;
  • è identitario quindi razzista;
  • è ebraico quindi suprematista;
  • è efficiente quindi tecnocratico;
  • è legittimato quindi illegittimo.

Non è un caso che l’odio si concentri lì. Israele è lo Stato che resiste alla dissoluzione. Uno Stato che non si discolpa per esistere, che non chiede scusa per difendersi, che non smette di essere uno Stato anche quando si fa impopolare. È, in altre parole, una provocazione vivente per chi ha teorizzato la fine del potere statuale come emancipazione assoluta.

L’antisionismo contemporaneo non è solo la critica a una politica, cosa più che è legittima. È, più profondamente, una forma di rigetto viscerale del principio di sovranità politica. Israele è detestato non per ciò che fa (e non sempre fa bene), ma per ciò che rappresenta: l’idea che uno Stato possa esistere per proteggere un’identità storica, per unire una diaspora, per garantire sicurezza a chi per secoli è stato perseguitato.

Questa idea è inaccettabile per chi rifiuta ogni forma di identità collettiva che non sia fluida, decentrata, performativa. È l’odio per il confine, per la bandiera, per l’autorità condivisa. È, in definitiva, l’odio per la cittadinanza come legame politico, sostituita da un’identità immediata ed emozionale, fondata solo sul trauma e sulla lotta.

In un tempo in cui il termine “Stato” è usato quasi solo in senso negativo (macchina burocratica, repressione poliziesca, patriarcato istituzionale) c’è bisogno di ricordare che solo lo Stato, nella forma liberale, è stato in grado di difendere le donne, le minoranze, i lavoratori, i bambini. La storia della modernità democratica è la storia di un’espansione progressiva della protezione legale, non della sua compressione.

Se il razzismo si manifesta con maggiore intensità dove lo Stato è debole, come in Afghanistan, in Somalia, nella Cecenia di Kadyrov, allora il problema non è lo Stato, ma la sua assenza. E quel che può sembrare un rigurgito di antisemitismo, che prenderebbe solo la forma apparente dell’odio per il “sionista”, va piuttosto compreso come il trickling up del sospetto anti-istituzionale tipico in tutte le epoche dei veri emarginati. Oggi quel sentimento di sospetto pregiudizievole verso tutto quel che puzzi di “istituzione” è divenuto luogo comune delle classi medie e, ahimè, soprattutto della Classe Professionale Manageriale, composta da coloro che Musa al-Gharbi (2024) chiama “Capitalisti simbolici”. Si tratta dei cittadini ben saldi nei loro diritti garantiti dallo Stato liberale, ma che hanno il vantaggio di individuare un bel Nemicone Generale contro cui lanciare i loro strali cercando di lucrare visibilità, finanziamenti o like sui social. Costruiscono così un nuovo senso comune (antipolitica e populismo sono la faccia di destra, anticapitalismo e antisionismo sono la sua faccia di sinistra) che gravita attorno alla nuova moda: l’odio per lo Stato, per il principio di ordine politico razionale, di autorità legittima, di convivenza civile.

Non c’è nulla di scandaloso nel criticare Israele. Ma c’è molto di scandaloso nel giustificare chi uccide in nome di “Free Palestine” senza sapere nulla della Palestina, se non che rappresenta un mondo senza Stato. La retorica della “rivoluzione dell’intifada globale” è l’ennesima incarnazione di una teologia politica che disprezza la forma statuale perché la considera “bianca”, “borghese”, “imperialista”. In realtà, è solo il residuo più avanzato della civiltà occidentale, quella che ancora distingue tra colpa e pena, tra cittadino e terrorista, tra critica e omicidio.

Chi uccide lo fa in odio allo Stato. E chi odia Israele odia lo Stato perché è Israele, cioè perché è lo Stato di una minoranza che non si inginocchia, che non chiede scusa a nessuno per essere diventata sovrana.

E qui veniamo al punto. Se l’antisionismo non è antisemitismo (quasi mai lo è in modo cosciente, di questo sono certo, ho troppi amici antisionisti che so non essere antisemiti) allora deve diventare una teoria politica seria. Non può più essere un hashtag, uno slogan da corteo, una raffica di indignazioni selettive.

Chi si dice antisionista, oggi, deve spiegare:

  • se crede ancora nel principio dello Stato;
  • se ammette la possibilità di una sovranità legittima;
  • se riconosce la differenza tra diritto e sopraffazione;
  • se riesce a pensare l’identità collettiva fuori dai soli codici di vittimizzazione.

Altrimenti il sospetto di antisemitismo non sarà una paranoia, ma una deduzione logica.

Chi odia Israele in quanto Stato, non può cavarsela con la scusa che “si critica solo la politica di Netanyahu”. Perché non si spara ai diplomatici turchi o indiani, o sauditi. Non si gridano “a morte i suprematisti coreani”. Non si vandalizzano le ambasciate cinesi gridando “Fuck China”. Chi odia Israele deve spiegare cosa odia di Israele. E deve spiegare perché tutto ciò che odia è lo stesso che odia dello Stato in quanto tale.

Se l’antisionismo è coerente, allora è antistatalismo. E se è antistatalismo, allora lo si dica apertamente. Si accetti il dibattito politico, la critica, il confronto. Si dica: non crediamo più nello Stato moderno, e Israele è il simbolo supremo di quello Stato. Benissimo. Ma lo si dica, con coraggio e coerenza. E con tutte le conseguenze del caso. Altrimenti resterà solo l’ambiguità. L’ambiguità tra la critica e l’odio. Tra la militanza e il linciaggio. Tra la solidarietà e il pogrom. In quel silenzio, in quella zona grigia, l’antisemitismo tornerà a vestirsi da anticolonialismo, da anticapitalismo, da antirazzismo. E, com’è già accaduto tante volte nella storia, i peggiori crimini saranno commessi in nome delle migliori cause.

martedì 20 maggio 2025

“Devi essere più vicino alla tua parte emotiva” (e altre chiacchiere da divano IKEA)

 C'è una frase che da qualche anno si aggira per le stanze della psicologia pop come un mantra che pretende di guarire tutto:

"Dovresti essere più vicino alla tua parte emotiva.".

È detta con la voce morbida di chi ha letto due pagine di Daniel Goleman e tre di Osho, e si accompagna spesso a una tisana, un cuscino etnico, o un certo sguardo d’intensa comprensione. Ma a ben vedere, è una delle frasi più pericolosamente stupide del nostro tempo.

Un collega straniero, persona colta e intensa, me l’ha riportata con un certo disorientamento dopo una sessione di terapia. Gli avevano appena detto che era troppo distante dalle sue emozioni. E io, conoscendolo, ho pensato: ma se questo è uno che quando parla del suo lavoro ti fa venire la pelle d’oca?

Un uomo che soffre, si entusiasma, si arrabbia, riflette, e nel farlo mantiene sempre una compostezza, una misura, una forma, come dicevano i miei vecchi — e anche un po’ mia nonna: “puoi anche piangere, figlio mio, ma con dignità.

È da Aion, uno dei testi più densamente simbolici di Carl Gustav Jung, che ho trovato una risposta più seria di tutta questa psicologia dei cuscini. Jung, parlando dell’ombra — la parte in ombra della psiche — osserva che le emozioni non sono attività coscienti, ma eventi che accadono all’individuo. Sono possessive, dice, non partecipative. Non si scelgono, ti prendono. E se non sei pronto, ti portano giù, come le correnti d’acqua sotto i moli abbandonati.

E aggiunge — con la precisione clinica di chi ha studiato l’anima più della metà dei suoi colleghi messi insieme — che, in assenza di controllo, l’individuo regredisce a uno stato primitivo, diventando incapace di vero giudizio morale. Detto in parole semplici: essere “in contatto con le emozioni” non significa niente, se non si è in grado di educarle.

Il Cristianesimo lo sa da duemila anni. La civiltà non è il contrario delle emozioni, ma il loro giardino murato: un luogo in cui possono crescere senza diventare infestanti. L’autocontrollo non è rimozione. È disciplina. È la distanza che ci permette di vedere e valutare, non solo di sentire. “Chi segue il cuore” senza guida finisce spesso dove il cuore non abita più.

La moda attuale vuole l’individuo trasparente, accessibile, vulnerabile, in process, con lo zainetto emotivo sempre aperto come il bagagliaio di una Panda scassata. Ma il mondo non è una terapia di gruppo. E se pure lo fosse, i migliori terapeuti sono quelli che insegnano a distinguere, non a sprofondare.

Perché quando le emozioni diventano l’unico metro, quando “sentire” sostituisce “pensare” e “reagire” scalza “giudicare”, allora non si è diventati più autentici: si è solo diventati più fragili, più manipolabili, più primitivi.
E a quel punto — come diceva sempre mia zia Aurelia — “non è più sentimento, è solo melassa.”

 

lunedì 19 maggio 2025

La Chiesa non è l’ANPI

 Chi continua a chiedere alla Chiesa cattolica di “stare al passo coi tempi” forse dovrebbe rivedere le proprie aspettative istituzionali. Capisco la buona fede di certi commentatori, e capisco anche che in un mondo dove tutto si vota, si rinnova e si twitta, l’idea che un’organizzazione millenaria resti fedele a un corpus dottrinale invece che a un algoritmo predittivo può risultare un tantino straniante. Ma è così. Lo è sempre stato.

Mi era già capitato di scriverlo, con tono un po’ più serio, a proposito del modo in cui l’etnocentrismo secolare guarda alla Chiesa come a una ONG lenta e ostinata che non riesce a capire da che parte tira il vento. Oggi lo riprendo con un sorriso sulle labbra e un ospite d’onore: Thomas Sowell, economista afroamericano, conservatore scomodo e impresentabile per i woke, che ha recentemente commentato con lucidità il significato politico di certe prese di posizione ecclesiali.

Nel suo ultimo intervento Sowell difende l’idea che la missione della Chiesa sia quella di custodire verità eterne, non di riflettere le mode sociali del momento. Un pensiero a dir poco rivoluzionario per chi vive immerso nel presente permanente e considera reazionario tutto ciò che non cambia almeno due volte al giorno.

Sowell, tra l’altro, ci ricorda che le istituzioni rispondono a incentivi. E che quando questi incentivi diventano la popolarità a breve termine, la deriva è certa. Vale per i partiti, vale per i giornali, e vale anche per la Chiesa. Per questo non bisogna stupirsi se, dopo un papa “grillino” – diciamolo, con venia – si affaccia all’orizzonte un pontefice più ancorato alla dottrina. È un pendolo, non una frattura.


E se questo nuovo corso dovesse risultare indigesto ai filosofi nord-europei, ai vescovi progressisti, o ai giornalisti post-cattolici, pazienza. La Chiesa non è il Partito Democratico, non ha bisogno di raccogliere consensi al Family Day, né deve elaborare mozioni sui diritti LGBTQ+ da presentare al sinodo come se fosse il congresso dell’ANPI.

La Chiesa è un’istituzione religiosa. E come ogni religione che si rispetti, sopravvive perché non si adatta troppo. Non ha l'obbligo di essere moderna, ha il compito di essere vera.

Lo dice bene Sowell quando descrive il nuovo papa Leone come uno che ha scelto di “sopportare ritorsioni” pur di non compromettere l’identità spirituale della Chiesa. Un papa che, invece di rincorrere l’inclusività come se fosse un hashtag, ha scelto di riaffermare la verità. Con tutti i costi politici del caso.

Ora, se uno crede davvero che la verità non esista, allora ha senso pretendere che la Chiesa si aggiorni a ogni cambio di stagione. Ma se si ammette che esista un nucleo immutabile di senso – anche solo come ipotesi culturale – allora si può anche tollerare che qualcuno, da duemila anni a questa parte, provi ostinatamente a testimoniarlo.

E per quanto possa sembrare strano, è proprio questa ostinazione che fa della Chiesa una delle poche agenzie morali non ancora colonizzate dalla narrativa dominante.

Come direbbe Sowell: “Il compito della Chiesa è confrontarsi con la realtà, non conformarsi alle visioni delle élite”.

Amen.

domenica 18 maggio 2025

Razzista… anche no!

 [Visto che dice spesso delle cose interessanti, le ultime anche su papa Leone, questo post è una specie di introduzione ad altri in cui riprenderò le sue cose]

Thomas Sowell è uno degli intellettuali più lucidi e controversi del panorama conservatore americano contemporaneo. Nato nel 1930 a Gastonia, North Carolina, e cresciuto ad Harlem in un contesto di povertà, ha costruito una carriera accademica e pubblicistica di straordinaria influenza, diventando un riferimento per il pensiero liberale classico e libertario. Oggi è emerito presso la Hoover Institution della Stanford University. Economista di formazione, con studi a Harvard, Columbia e un dottorato conseguito all’Università di Chicago sotto la guida di George Stigler, Sowell ha insegnato in numerose università americane e ha pubblicato oltre 40 libri su economia, politica, razza e cultura. Tra le sue opere più note: Basic Economics, A Conflict of Visions, The Vision of the Anointed, Intellectuals and Society e Black Rednecks and White Liberals

Proprio quest’ultimo libro lo ha reso particolarmente scomodo per il progressismo radicale: in esso, Sowell sostiene che molti tratti disfunzionali attribuiti alla “cultura ghetto” afroamericana derivino in realtà dalla “redneck culture” degli immigrati scozzesi e irlandesi del Sud degli Stati Uniti. Una tesi che, se formulata da un autore bianco, sarebbe probabilmente bollata come razzista, ma che nel suo caso mette in crisi le categorie ideologiche del pensiero woke.

Sowell è un critico implacabile delle élite intellettuali progressiste, che definisce “gli Unti” (the Anointed), accusandole di imporre visioni ideologiche scollegate dalla realtà empirica e di promuovere politiche paternalistiche che danneggiano proprio le minoranze che dichiarano di voler aiutare. La sua critica alle quote etniche, al multiculturalismo e al vittimismo razziale lo ha reso una voce isolata ma rispettata, difficile da ridurre al silenzio proprio per la sua identità afroamericana.

La sua traiettoria personale — da giovane marxista a convinto sostenitore del libero mercato — e la sua capacità di smontare con dati e logica le narrazioni dominanti, fanno di Thomas Sowell una figura intellettuale dirompente, spesso ignorata o evitata dai media mainstream, ma centrale nel dibattito conservatore e libertario.

sabato 17 maggio 2025

Preghiera e meditazione


Daniela mi racconta di aver ricominciato a pregare. Non meditare, non fare yoga, non respirare consapevolmente – proprio pregare. A voce bassa, da sola, quando possibile, tenendo assieme il cuore e la recitazione. Fateci caso, le preghiere non hanno paura di essere una messa in scena, e infatti si recitano. Mi colpiva quel verbo usato con naturalezza, come se nulla fosse cambiato negli ultimi secoli, come se la preghiera fosse ancora una cosa ovvia. E invece no. Per chi è cresciuto negli anni Ottanta o Novanta – in quella lunga transizione dall’Italia democristiana all’Italia senza Dio – la preghiera è diventata un gesto raro, quasi strano, sicuramente da giustificare. Daniela no. Daniela pregava. E in quel suo piccolo ritorno mi è sembrato che si giocasse qualcosa di più grande.

L’idea che oggi esista una distinzione netta tra “preghiera” e “meditazione” sembra ormai un dato acquisito, come se si trattasse di due binari separati, due mondi incompatibili. Da un lato la meditazione: laica, neutra, buona per l’ansia e l’equilibrio psicosomatico. Dall’altro la preghiera: confessionale, imbarazzante, rivolta a un Altro che molti non nominano più. Eppure non è sempre stato così. La separazione è figlia di un’epoca precisa, quella della soggettività secolarizzata, che ha progressivamente espulso il trascendente dall’esperienza interiore, riducendo l’anima a psiche e l’ascesi a tecnica. È una trasformazione culturale sottile, ma profonda. E ci ha portato dove siamo: a un mondo dove ci si osserva dentro con microscopi sempre più sofisticati, ma ognuno per conto suo, e soprattutto si parla sempre meno con Dio.

Prima di Agostino, l’interiorità non era un problema. La vita si proiettava verso l’esterno, in un’etica del gesto, dell’impresa, dell’onore da difendere pubblicamente. Poi arriva lui, Agostino, e filtra il messaggio cristiano alla luce della filosofia, in un modo che cambia tutto. Con le Confessioni, inaugura un nuovo modo di cercare Dio: non nei templi o nei sacrifici, ma nel cuore. “Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova…” – lo dice a sé stesso, lo dice a Dio, e dice a tutti che la via per incontrare il divino passa da un movimento verso l’interno. È lì che preghiera e meditazione si intrecciano, si confondono, diventano un’unica azione: cercare la Verità dialogando con Essa, nel profondo.

La modernità, però, rompe questa unità. Con l’affermarsi del soggetto autonomo e della razionalità secolare, l’interiorità si svuota di Dio e si riempie di sé. Il soggetto diventa l’oggetto della sua stessa indagine, e la meditazione si laicizza: da preghiera che cerca un tu, a introspezione che osserva un io. La preghiera, in questo nuovo orizzonte, appare sospetta: troppo ingenua, troppo dipendente da una figura paterna, troppo “infantile”. Eppure non scompare: resiste, come gesto di minoranza, come testimonianza eccentrica di una relazione che non si è interrotta. Ma certo cambia: spesso diventa più rarefatta, più intellettualizzata, a volte ridotta a sistema etico, come se Dio fosse solo un principio regolativo, un’idea-guida, non una presenza viva.

Ed è qui che il ritorno di Daniela acquista valore. Perché non è una conversione teorica o una nostalgia da calendario. È una fame. È il bisogno di rispondere a una domanda che la meditazione, da sola, non può più soddisfare: quella di essere in relazione. Non semplicemente ascoltarsi, ma essere ascoltati. Non semplicemente osservarsi, ma dirsi. Dire qualcosa, a qualcuno. Magari in silenzio, magari senza parole, ma sempre nella consapevolezza che un Altro – non io, non il mio benessere, non il mio equilibrio – è lì ad accogliere quella parola. Daniela non cerca pace. Cerca Presenza.

Forse allora non serve scegliere. Forse il punto non è decidere se siamo per la preghiera o per la meditazione, come se fossero squadre avversarie. Forse la nostra epoca ha bisogno di entrambe, ma riportate al loro significato originario, vale a dire unitario. La meditazione può essere una via di discesa in sé, una forma di attenzione radicale. La preghiera, una salita, una relazione che ci sposta oltre noi stessi. Una domanda aperta al cielo. Un atto d’amore.

In fondo, lo dice anche Agostino: In interiore homine habitat veritas. Ma quella verità, per lui, non era l’io. Era Dio.