Non se
ne può più. Davvero. Ogni volta che si muove una critica a Israele – ogni
singola volta – qualcuno salta su a gridare “antisemita!”. Ma si può ancora
dire qualcosa su Gaza, sull’occupazione, sui bombardamenti, sui coloni, senza
essere schedati come nuovi nazisti? È mai possibile che chiunque dica “Free
Palestine” venga messo sullo stesso piano di un negazionista? Davvero?
Calma.
Rilassiamoci. Respiriamo. Perché, forse, la questione è un po’ più complicata.
«Lo Stato
è male. Israele è uno Stato. Quindi Israele è il Male». Questo è il sillogismo
morale di una nuova religione politica: l’antistatalismo radicale. E
come ogni religione, produce i suoi martiri, e i suoi carnefici.

Negli
ambienti intellettuali che si autodefiniscono “critici”, c’è una parola che da
tempo fa paura più di altre: Stato. Non capitalismo, non patriarcato,
non oppressione ma Stato. Lo Stato è divenuto il bersaglio
privilegiato di un’intera generazione accademica, militante e mediatica. Non
perché produca diseguaglianze (che lo fa), né perché eserciti violenza (che
accade), ma perché incarna – nella sua forma più limpida – l’idea di ordine
normativo legittimato, impersonale e universale. In altre parole, perché
ricorda che esiste un potere che non si fonda né sul sangue, né sulla
razza, né sul clan, ma sulla legge. Questa forma di potere fa orrore a
chi sogna una società senza centro, senza gerarchie, senza confini,
senza responsabilità ma anche, si noti bene, senza diritti che
non siano semplici rivendicazioni identitarie.
Dopo
l’assassinio a Washington di due giovani ebrei, Yaron Lischinsky e Sarah
Milgrim, da parte di Elias Rodriguez – attivista di sinistra, istruito,
militante pro-Palestina – i commenti si sono divisi. Non tra chi condanna e chi
giustifica, ma tra chi vede l’antisemitismo e chi lo nega
in nome dell’antisionismo. Diversi editoriali odierni descrivono con
precisione questo fenomeno: l’omicidio ritualizzato dell’ebreo divenuto
diplomatico dello Stato. Non è più l’ebreo come tale ad essere odiato – un
sentimento fuori moda, signora mia – ma l’ebreo funzionario, l’ebreo che
incarna lo Stato, l’ebreo che lavora per Israele.
La vittima
non è più vittima. È colpevole due volte: per la sua identità e per la sua
lealtà istituzionale. È il sionista, non l’ebreo. Ma “sionista”, oggi, è
semplicemente un’altra parola per dire: colui che crede nello Stato come
forma di convivenza organizzata, come argine alla barbarie, come progetto
comune.
Da qualche
decennio, nelle scienze sociali, serpeggia una corrente potente: lo Stato è
il Male. Non lo Stato autoritario, lo Stato illiberale, lo Stato
teocratico. No: lo Stato in quanto tale. L’idea stessa di potere
sovrano, di autorità normativa, di confine, di gerarchia, di cittadinanza. Una
fobia che, più che con Marx o Weber, ha a che fare con Agamben, con il
suo delirio sul campo di concentramento come paradigma ultimo della modernità (sì,
lo stesso Agamben che durante il Covid sosteneva che il Green Pass fosse come
il tatuaggio ad Auschwitz. È caduto in disgrazia, e meno male).
In questa
cornice, lo Stato moderno diventa intrinsecamente sospetto: meccanismo di esclusione,
macchina di violenza, struttura oppressiva. Il liberalismo? Una
maschera per nascondere il dominio. Il diritto? Uno strumento per
normalizzare la devianza. La democrazia? Una pantomima tecnocratica.
In questo
clima, Israele appare come l’epitome dello Stato inaccettabile:
- è armato → quindi violento;
- è occidentale → quindi coloniale;
- è identitario → quindi razzista;
- è ebraico → quindi suprematista;
- è efficiente → quindi tecnocratico;
- è legittimato → quindi illegittimo.
Non è un
caso che l’odio si concentri lì. Israele è lo Stato che resiste alla
dissoluzione. Uno Stato che non si discolpa per esistere, che non chiede scusa
per difendersi, che non smette di essere uno Stato anche quando si fa
impopolare. È, in altre parole, una provocazione vivente per chi ha
teorizzato la fine del potere statuale come emancipazione assoluta.
L’antisionismo
contemporaneo non è solo la critica a una politica, cosa più che è legittima.
È, più profondamente, una forma di rigetto viscerale del principio di
sovranità politica. Israele è detestato non per ciò che fa (e non
sempre fa bene), ma per ciò che rappresenta: l’idea che uno Stato possa
esistere per proteggere un’identità storica, per unire una
diaspora, per garantire sicurezza a chi per secoli è stato perseguitato.
Questa
idea è inaccettabile per chi rifiuta ogni forma di identità collettiva che non
sia fluida, decentrata, performativa. È l’odio per il confine, per la
bandiera, per l’autorità condivisa. È, in definitiva, l’odio per la
cittadinanza come legame politico, sostituita da un’identità immediata ed
emozionale, fondata solo sul trauma e sulla lotta.
In un
tempo in cui il termine “Stato” è usato quasi solo in senso negativo (macchina
burocratica, repressione poliziesca, patriarcato istituzionale) c’è bisogno di
ricordare che solo lo Stato, nella forma liberale, è stato in grado di difendere
le donne, le minoranze, i lavoratori, i bambini. La
storia della modernità democratica è la storia di un’espansione progressiva
della protezione legale, non della sua compressione.
Se il razzismo
si manifesta con maggiore intensità dove lo Stato è debole, come in
Afghanistan, in Somalia, nella Cecenia di Kadyrov, allora il problema non è
lo Stato, ma la sua assenza. E quel che può sembrare un rigurgito di
antisemitismo, che prenderebbe solo la forma apparente dell’odio per il
“sionista”, va piuttosto compreso come il trickling up del sospetto
anti-istituzionale tipico in tutte le epoche dei veri emarginati.
Oggi quel sentimento di sospetto pregiudizievole verso tutto quel che puzzi di “istituzione”
è divenuto luogo comune delle classi medie e, ahimè, soprattutto della Classe
Professionale Manageriale, composta da coloro che Musa al-Gharbi (2024) chiama “Capitalisti simbolici”.
Si tratta dei cittadini ben saldi nei loro diritti garantiti dallo Stato
liberale, ma che hanno il vantaggio di individuare un bel Nemicone Generale
contro cui lanciare i loro strali cercando di lucrare visibilità, finanziamenti
o like sui social. Costruiscono così un nuovo senso comune (antipolitica
e populismo sono la faccia di destra, anticapitalismo e antisionismo
sono la sua faccia di sinistra) che gravita attorno alla nuova moda: l’odio
per lo Stato, per il principio di ordine politico razionale, di autorità
legittima, di convivenza civile.
Non c’è
nulla di scandaloso nel criticare Israele. Ma c’è molto di scandaloso
nel giustificare chi uccide in nome di “Free Palestine” senza sapere
nulla della Palestina, se non che rappresenta un mondo senza Stato. La
retorica della “rivoluzione dell’intifada globale” è l’ennesima incarnazione di
una teologia politica che disprezza la forma statuale perché la
considera “bianca”, “borghese”, “imperialista”. In realtà, è solo il residuo
più avanzato della civiltà occidentale, quella che ancora distingue tra
colpa e pena, tra cittadino e terrorista, tra critica e omicidio.
Chi uccide
lo fa in odio allo Stato. E chi odia Israele odia lo Stato perché è
Israele, cioè perché è lo Stato di una minoranza che non si inginocchia,
che non chiede scusa a nessuno per essere diventata sovrana.
E qui
veniamo al punto. Se l’antisionismo non è antisemitismo (quasi mai lo è
in modo cosciente, di questo sono certo, ho troppi amici antisionisti che so
non essere antisemiti) allora deve diventare una teoria politica seria.
Non può più essere un hashtag, uno slogan da corteo, una raffica di
indignazioni selettive.
Chi si
dice antisionista, oggi, deve spiegare:
- se crede ancora nel principio
dello Stato;
- se ammette la possibilità di
una sovranità legittima;
- se riconosce la differenza tra
diritto e sopraffazione;
- se riesce a pensare l’identità
collettiva fuori dai soli codici di vittimizzazione.
Altrimenti
il sospetto di antisemitismo non sarà una paranoia, ma una deduzione logica.
Chi odia
Israele in quanto Stato, non può cavarsela con la scusa che “si critica
solo la politica di Netanyahu”. Perché non si spara ai diplomatici turchi
o indiani, o sauditi. Non si gridano “a morte i suprematisti coreani”. Non
si vandalizzano le ambasciate cinesi gridando “Fuck China”. Chi odia
Israele deve spiegare cosa odia di Israele. E deve spiegare perché
tutto ciò che odia è lo stesso che odia dello Stato in quanto tale.
Se
l’antisionismo è coerente, allora è antistatalismo. E se è
antistatalismo, allora lo si dica apertamente. Si accetti il dibattito
politico, la critica, il confronto. Si dica: non crediamo più nello Stato
moderno, e Israele è il simbolo supremo di quello Stato. Benissimo.
Ma lo si dica, con coraggio e coerenza. E con tutte le conseguenze
del caso. Altrimenti resterà solo l’ambiguità. L’ambiguità tra la critica
e l’odio. Tra la militanza e il linciaggio. Tra la solidarietà e
il pogrom. In quel silenzio, in quella zona grigia, l’antisemitismo tornerà a
vestirsi da anticolonialismo, da anticapitalismo, da antirazzismo. E, com’è già
accaduto tante volte nella storia, i peggiori crimini saranno commessi in nome
delle migliori cause.