2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

mercoledì 16 aprile 2025

La fine dei maestri


Il sapere sta uscendo dal corpo. Lo sta facendo da millenni, certo, ma ChatGPT — con quella sua “G” benedetta e maledetta — sembra compiere l’ultimo atto di questa lunga migrazione. Una migrazione etimologica, potremmo dire: perché sapere viene da sapere, ovvero avere sapore. Gustare. E invece oggi il sapere si può usare senza mai gustarlo davvero. È lì, a portata di mano, come un utensile ben affilato. Ma non ti passa nel sangue, non ti scombina i sensi.

Fu la scrittura, all’alba della civiltà, il primo passo di questa disincarnazione: spezzò l’unità tra sapere e memoria vivente. Poi venne la stampa, che rese popolare ciò che era rimasto elitario. I documenti — tavolette, pergamene, libri, microfilm, PDF, ologrammi — hanno via via sostituito la carne, oggettivando la conoscenza in forme sempre più esterne. Ne parla Simmel in Le metropoli e la vita dello spirito, lamentando come l’intensità vissuta dell’esperienza venga sostituita dalla distanza analitica, e il sapere smetta di essere interiorità per diventare architettura. Dura, fredda, impersonale.

Ora ChatGPT, generativo per definizione, non si limita a conservare o riprodurre: produce. E lo fa su richiesta. Il sapere è diventato effervescenza combinatoria. Ma resta esterno, reversibile, modulare. Possiamo sapere tutto senza mai diventare nulla di ciò che sappiamo. Ed è per questo che questa tecnologia segna la fine dei maestri.

Perché un maestro — attenzione — non era solo uno che sapeva. Era uno che aveva incorporato. Che aveva respirato, gustato, digerito e assimilato. Uno che non si era limitato a leggere libri, ma che li aveva traspirati. Come Gurdjieff diceva ai suoi allievi: “Tu puoi conoscere una cosa in tre modi — con la testa, con il cuore e con il ventre. Solo quando tutte e tre dicono la stessa cosa, allora tu sai davvero”.

Per essere un maestro bisognava aver tanto studiato e tanto vissuto. Non si era buoni maestri se non c’era stato il corpo a corpo con la vita: ginocchia sbucciate, mani graffiate, cuore esposto. Il sapere, per essere insegnato, doveva essersi fatto carne, come nei versi di Rilke: “Non ci sono esperienze spirituali che non si siano anche impresse sulla pelle”.

Con ChatGPT si possono fare un sacco di cose (anche questo post, o meta-post, se vogliamo giocare). E a volte vengono pure bene. Ma restano sempre lì fuori. Al massimo possono incastonarsi in quel che avevamo già dentro. Mai diventare parte di noi. È un sapere nuovo, potente, con cui dobbiamo imparare a convivere. Ma se vogliamo ancora coltivare la vocazione dei maestri, dobbiamo anche imparare a tenerlo a bada.

Va benissimo per giocare, per costruire ipotesi, perfino per fare scienza di alto livello — e lo dico senza ironia. Ma serve a poco per trasmettere quel sapere, quello che si insegna con la presenza e con il tono della voce, con il ritmo del silenzio, con le mani sulla carta, con lo sguardo negli occhi. Perché quello che puoi trasmettere davvero è solo ciò che ti ha trasformato: non ciò che conosci, ma ciò che sei diventato.

Jean-Pierre Olivier de Sardan lo dice con chiarezza parlando dell’apprendimento durante la ricerca etnografica: servono due cose, il taccuino e l’impregnazione. Leonardo Piasere, con la sua ironia veneta, lo traduce meglio: non "impregnato", ma imbombegà. Inzuppato. Come un biscotto nel latte caldo. Ecco, ChatGPT può fare moltissimo, ma non potrà mai farti diventare imbombegà. Non ti renderà mai zuppo di sapere vissuto. E senza quella zuppa addosso — senza quel misto di calore, fatica e sapore — non c’è verso di insegnare davvero.

E quindi sì, possiamo anche celebrare l’accesso universale al sapere. Ma sarà sempre più importante chiederci: cosa sappiamo con le ossa? Cosa con la pelle? Cosa con il respiro? Perché solo quello che è arrivato fino a lì, alla fine, può essere insegnato.