Il sapere sta uscendo dal corpo. Lo sta facendo da millenni, certo, ma ChatGPT — con quella sua “G” benedetta e maledetta — sembra compiere l’ultimo atto di questa lunga migrazione. Una migrazione etimologica, potremmo dire: perché sapere viene da sapere, ovvero avere sapore. Gustare. E invece oggi il sapere si può usare senza mai gustarlo davvero. È lì, a portata di mano, come un utensile ben affilato. Ma non ti passa nel sangue, non ti scombina i sensi.
Fu la scrittura, all’alba della
civiltà, il primo passo di questa disincarnazione: spezzò l’unità tra
sapere e memoria vivente. Poi venne la stampa, che rese popolare ciò che
era rimasto elitario. I documenti — tavolette, pergamene, libri, microfilm,
PDF, ologrammi — hanno via via sostituito la carne, oggettivando la
conoscenza in forme sempre più esterne. Ne parla Simmel in Le metropoli e la
vita dello spirito, lamentando come l’intensità vissuta dell’esperienza
venga sostituita dalla distanza analitica, e il sapere smetta di essere
interiorità per diventare architettura. Dura, fredda, impersonale.
Ora ChatGPT, generativo per
definizione, non si limita a conservare o riprodurre: produce. E
lo fa su richiesta. Il sapere è diventato effervescenza combinatoria. Ma resta
esterno, reversibile, modulare. Possiamo sapere tutto senza mai diventare
nulla di ciò che sappiamo. Ed è per questo che questa tecnologia segna la fine
dei maestri.
Perché un maestro — attenzione
— non era solo uno che sapeva. Era uno che aveva incorporato. Che aveva
respirato, gustato, digerito e assimilato. Uno che non si era limitato a
leggere libri, ma che li aveva traspirati. Come Gurdjieff diceva ai suoi
allievi: “Tu puoi conoscere una cosa in tre modi — con la testa, con il cuore e
con il ventre. Solo quando tutte e tre dicono la stessa cosa, allora tu sai
davvero”.
Per essere un maestro bisognava
aver tanto studiato e tanto vissuto. Non si era buoni maestri se
non c’era stato il corpo a corpo con la vita: ginocchia sbucciate, mani
graffiate, cuore esposto. Il sapere, per essere insegnato, doveva essersi fatto
carne, come nei versi di Rilke: “Non ci sono esperienze spirituali che non si
siano anche impresse sulla pelle”.
Con ChatGPT si possono fare un
sacco di cose (anche questo post, o meta-post, se vogliamo giocare). E a volte
vengono pure bene. Ma restano sempre lì fuori. Al massimo possono incastonarsi
in quel che avevamo già dentro. Mai diventare parte di noi. È un sapere nuovo,
potente, con cui dobbiamo imparare a convivere. Ma se vogliamo ancora coltivare
la vocazione dei maestri, dobbiamo anche imparare a tenerlo a bada.
Va benissimo per giocare, per
costruire ipotesi, perfino per fare scienza di alto livello — e lo dico
senza ironia. Ma serve a poco per trasmettere quel sapere, quello che si
insegna con la presenza e con il tono della voce, con il ritmo del silenzio,
con le mani sulla carta, con lo sguardo negli occhi. Perché quello che puoi
trasmettere davvero è solo ciò che ti ha trasformato: non ciò che conosci, ma ciò
che sei diventato.
Jean-Pierre Olivier de
Sardan lo dice con chiarezza parlando dell’apprendimento durante la ricerca
etnografica: servono due cose, il taccuino e l’impregnazione. Leonardo Piasere,
con la sua ironia veneta, lo traduce meglio: non "impregnato", ma imbombegà.
Inzuppato. Come un biscotto nel latte caldo. Ecco, ChatGPT può fare moltissimo,
ma non potrà mai farti diventare imbombegà. Non ti renderà mai zuppo di sapere
vissuto. E senza quella zuppa addosso — senza quel misto di calore, fatica e
sapore — non c’è verso di insegnare davvero.
E quindi sì, possiamo anche
celebrare l’accesso universale al sapere. Ma sarà sempre più importante
chiederci: cosa sappiamo con le ossa? Cosa con la pelle? Cosa con il respiro?
Perché solo quello che è arrivato fino a lì, alla fine, può essere insegnato.