Ho letto con grande interesse un lungo articolo di Jonathan Zimmerman, pubblicato su Washington Monthly, intitolato Why Professors Can’t Teach. L'autore, docente alla University of Pennsylvania, partecipa a un convegno nazionale sul tema dell'insegnamento universitario negli Stati Uniti e ne approfitta per fare il punto su una questione antica: perché, nelle università, si continua a premiare soprattutto la ricerca e non la qualità della didattica?
La risposta che Zimmerman
propone è articolata ma molto chiara: perché non esistono incentivi reali,
e perché tutti gli strumenti che abbiamo provato finora – premi, centri di
supporto, corsi di formazione – non hanno scalfito davvero il
meccanismo che regola la reputazione e la carriera accademica. La
carriera si costruisce sui titoli, sui libri pubblicati, sui progetti
di ricerca finanziati, non sulla qualità dell'insegnamento. Anzi, chi
dedica troppo tempo alla didattica finisce spesso con l’essere guardato con
sospetto: "bravo professore, sì, ma cosa ha pubblicato?"
Ora, questo è il quadro americano.
Ma leggendo Zimmerman, non ho potuto fare a meno di pensare al nostro contesto italiano,
dove le cose – se possibile – sono ancora più intricate. Negli USA,
esiste almeno una distinzione istituzionale tra research universities
e teaching colleges, e questa distinzione orienta le aspettative,
le carriere, le valutazioni. Da noi, invece, la gerarchia si riproduce
all’interno di ogni singolo ateneo, dove la reputazione e il prestigio
accademico sono misurati quasi esclusivamente sulla base della produzione
scientifica. L’insegnamento – anche quando è svolto con cura,
passione e buoni risultati – resta ai margini.
Questo non è solo un
problema per chi insegna, ma anche per chi studia. Perché se
l’università è (anche) un luogo di formazione, dovremmo preoccuparci di come
si insegna, e non solo di cosa si pubblica. Se uno studente riesce a
sostenere un esame nei tempi, con buoni risultati, sentendosi
seguito e accompagnato, questo non è un sottoprodotto fortuito: è un esito
desiderabile e dovrebbe essere riconosciuto come tale. Eppure, non
incide praticamente in alcun modo sulle valutazioni di carriera, né
– va detto – sulla considerazione tra colleghi.
Zimmerman ricorda, con garbo
e ironia, che ricevere un premio per l’insegnamento è meno utile, in
termini di carriera, che pubblicare una monografia. E anche da noi, nei
nostri dipartimenti, si direbbe che il valore dell’insegnamento sia ancora
legato più a un dovere d’ufficio che a un terreno di eccellenza possibile.
Non si tratta di opporsi
alla ricerca o di feticizzare la didattica. Si tratta di capire se
vogliamo davvero, come sistema universitario, investire in quello che
Zimmerman chiama the amateur hour: un’ora che potrebbe diventare
“professionale”, se solo decidessimo che vale la pena farlo.