Non sono trumpiano, e lo dico subito per evitare che mi si spedisca dritto nel girone dei reprobi: quelli che mangiano carne rossa, si tagliano i capelli a casa e hanno letto Scritti corsari di Pasolini senza sottolineare solo le parti che parlano di consumismo. No, non sono trumpiano. Ma.
Ma se qualcuno mi spiegasse
perché una famiglia americana, per mandare il figlio a studiare “Liberal Arts”
a Brown University, deve sborsare novantatremila dollari all’anno (senza
contare i costi affettivi di tre anni passati a parlare con un diciannovenne
che ha scoperto Fanon e vuole abolire la grammatica), giuro che potrei
anche iniziare ad ascoltare Trump con una certa simpatia.
Il sito Courage Media –
diretto da Ayaan Hirsi Ali, intellettuale somala, ex deputata olandese,
sopravvissuta all’islamismo radicale e oggi tra le voci più lucide (e scomode)
del liberalismo conservatore – ha recentemente pubblicato un articolo dal
titolo che è tutto un programma: The Entitlement of American Academics.
Un testo che, pur parlando dal centro-destra culturale, ha la lucidità di chi
non ha nulla da perdere: né la reputazione da difendere nei salotti del
wokismo, né un posto garantito tra i grant NIH per dire che il patriarcato vive
nei coni di traffico.
L’articolo denuncia un sistema
universitario che riceve miliardi di dollari in fondi pubblici mentre
sforna diplomati in ideologia identitaria, proclama il genocidio israeliano nei
workshop per le scuole medie, e si indigna se un’amministrazione osa chiedere
conto di come vengano spesi quei soldi. A Brown, ad esempio,
hanno dovuto deportare una docente perché era andata al funerale di Hassan
Nasrallah, il capo di Hezbollah – lo stesso Hezbollah che ha sulla
coscienza centinaia di soldati americani. Ma la reazione dell’università è
stata: “Oddio! È una minaccia alla democrazia!”
Certo, Trump non è noto per il
suo tatto istituzionale, ma quando l’amministrazione federale ha cominciato a
tagliare i fondi a università come Princeton (quasi 4 milioni al
dipartimento clima, accusato di alimentare climate anxiety) o Cornell
(1 miliardo congelato), le università hanno reagito come adolescenti viziati a
cui è stato tolto Netflix. “È un attacco all’autonomia!” “È censura!” “È
razzismo!” Nessuno che abbia detto: “Forse abbiamo un problema”.
E il problema non è solo il
contenuto. È la forma. Università come Brown spendono 43 milioni in più di
quanto incassano, ma intanto fanno pagare rette da mutuo subprime. Studenti
come Alex Shieh hanno creato algoritmi per classificare i ruoli
amministrativi in tre categorie: legalità, ridondanza, e stronzate.
L’università non ha ringraziato: lo ha minacciato di sospensione.
E qui, caro lettore moralista,
ti chiedo: se tuo figlio, per 280.000 dollari, ti tornasse a casa
dicendo che l’attacco del Mossad con i pager esplosivi a militanti
armati di Hezbollah è “una forma di genocidio”, non ti verrebbe il sospetto di
aver investito male i soldi?
Perché vedi, non è tanto che le
università abbiano un orientamento. È che l’hanno confuso con una religione
di stato, con dogmi, eresie, inquisizioni. Hanno un apparato amministrativo
che serve a garantire ortodossia ideologica, non eccellenza
accademica. E se qualcuno taglia loro i fondi, si offendono. Ma non erano
loro quelli per cui bisogna sempre “seguire il denaro”?
Però capiamoli. Dopo anni
passati a spiegare che il gender è un costrutto sociale ma il debito
pubblico no, oggi vedono che quello stesso Stato da cui succhiano a pieni
polmoni chiede conto di come usano i soldi. E questo sì, che è violenza
sistemica.
E allora, con tutto il
rispetto, anche se non sono trumpiano… mi scappa da ridere quando le università
americane fanno le offese per i tagli ai fondi, dopo decenni in cui hanno
trasformato la gratitudine istituzionale in diritto divino. Mordi
la mano che ti nutre – certo – ma poi non lamentarti se quella mano comincia a stringere.
E comunque, diciamolo: il
sogno americano è ancora vivo. Ma oggi è soprattutto bello per quelli che
ci mettono l’anima nel cercare di distruggerlo.